Se l’approccio interpretativo alla distanza è divenuto fra gli antropologi la risposta modernista all’eccessiva dipendenza dall’“oggetto culturale”, dalla “tradizione”, dal “dato”, dall’”essenza”, dall’”etnico”, dall’”autentico”, l’Albania postsocialista, coi suoi repentini progetti politici di ridefinizione, senza dubbio si pone oggi quale interessantissimo campo di rinnovate dialettiche. Nonostante i difficili movimenti in atto in Albania dal 1991-92, che segnano la fine del regime socialista di Enver Hoxha e l’inizio del pluralismo democratico, da più parti viene posto l’accento sulla presunta immutabilità di certe prospettive d’azione che, nel mutare degli scenari storici, si riprodurrebbero inspiegabilmente in una sorta d’intrinseca immortalità. Immortalità e immutabilità che già le visioni romantiche non esitavano a ricondurre agli stereotipi dell’Oriente illirico o della Grecia, considerando come per le loro usanze, il loro modo di sentire e di pensare, gli albanesi dei nostri giorni rappresentino ancora i Pelasgi dell’antichità. L’idea di un’Albania immutabile, incatenata a un passato che sanguina e fa sanguinare, emarginata e punita da ogni mondo per una millenaria sete d’indipendenza e autoisolamento, sembra proseguire, nella più recente produzione narrativa, la tendenza per la quale l’intera storia letteraria albanese sarebbe caratterizzata da uno spiccato senso di vittimismo. Associato alla metafora prometeica, tale vittimismo sembrerebbe abbozzare una “sindrome” conoscitiva che gli albanesi stenterebbero a comprendere del tutto e, invece, ripeterebbero sul piano vitale senza poterla interpretare, decostruire, riflettere, essendone “fatalmente” condizionati. L’albanese leggerebbe così la sua storia come storia di grandi tragedie, di epopee guerriere, fatte di sangue, atmosfere epiche, miti popolari, insomma etnocentrismo a profusione, ma anche di tanto romantico vittimismo. L’idea di un drammatico incatenamento alla “tradizione” e ai suoi corpi fatali, ricorre nelle recenti produzioni letterarie albanesi come un “qualcosa” d’ineluttabile, anche quando l’intenzionalità politica parrebbe proclamare più decisivi cambiamenti di pagina. Se questo scritto al momento mette solo in fila alcune connessioni letterarie, al tempo stesso vuol essere il primo sobbalzo di una futura ricerca sul rapporto tra distanza, comunicazione e memoria nell’Albania di oggi. Memoria in cui gli stessi ricordi sembrerebbero comportare «costi elevatissimi». Continuerebbero a essere pensati non come elementi elastici, fruibili in rinnovate rimemorazioni critiche, bensì come nodi inestricabili che continuerebbero a piovere dall’alto sempre uguali a se stessi, che incatenerebbero e condizionerebbero l’intero corpo sociale albanese facendolo ancora sanguinare, stringendone il collo della memoria in una sorta di condanna non meno spietata dell’oblio. La delirante megalomania di Prometeo offre così numerosi spunti di riflessione sulla storica fragilità della costruzione sociale albanese. Fragilità puntualmente indotta come effetto di “liberatori” proclami d’onnipotenza e indipendenza: da quelli dell’antico dominio serbo a quelli dei bey e dei pasciallati controllati dalla Sublime Porta, da quelli del Kanun e di Skënderbeg fino a quelli dei partigiani, della monarchia di re Zogu, di Benito Mussolini, di Enver Hoxha, di Sali Berisha, dei suoi odierni oppositori socialisti. Ogni governo impiantatosi in Albania fece cioè fantasticare i suoi cittadini d’essere «non più bambini» ma grandi creatori di storia, con corpi forti come il ferro che li avrebbero resi divini, indipendenti, inattaccabili dallo stesso dio o dal destino, come Prometeo al di sopra delle pietose regole dei mortali e resi «saggi con l’uso della ragione». Ogni risposta richiederà la verifica antropologica della “sindrome” prometeica, proprio perché già praticata in modo così lucido nell’originale ambito letterario qui esemplificato.

Prometeo in Albania. Corpo, poteri, memorie letterarie dell'"uomo nuovo"

GERACI, Mauro
2007-01-01

Abstract

Se l’approccio interpretativo alla distanza è divenuto fra gli antropologi la risposta modernista all’eccessiva dipendenza dall’“oggetto culturale”, dalla “tradizione”, dal “dato”, dall’”essenza”, dall’”etnico”, dall’”autentico”, l’Albania postsocialista, coi suoi repentini progetti politici di ridefinizione, senza dubbio si pone oggi quale interessantissimo campo di rinnovate dialettiche. Nonostante i difficili movimenti in atto in Albania dal 1991-92, che segnano la fine del regime socialista di Enver Hoxha e l’inizio del pluralismo democratico, da più parti viene posto l’accento sulla presunta immutabilità di certe prospettive d’azione che, nel mutare degli scenari storici, si riprodurrebbero inspiegabilmente in una sorta d’intrinseca immortalità. Immortalità e immutabilità che già le visioni romantiche non esitavano a ricondurre agli stereotipi dell’Oriente illirico o della Grecia, considerando come per le loro usanze, il loro modo di sentire e di pensare, gli albanesi dei nostri giorni rappresentino ancora i Pelasgi dell’antichità. L’idea di un’Albania immutabile, incatenata a un passato che sanguina e fa sanguinare, emarginata e punita da ogni mondo per una millenaria sete d’indipendenza e autoisolamento, sembra proseguire, nella più recente produzione narrativa, la tendenza per la quale l’intera storia letteraria albanese sarebbe caratterizzata da uno spiccato senso di vittimismo. Associato alla metafora prometeica, tale vittimismo sembrerebbe abbozzare una “sindrome” conoscitiva che gli albanesi stenterebbero a comprendere del tutto e, invece, ripeterebbero sul piano vitale senza poterla interpretare, decostruire, riflettere, essendone “fatalmente” condizionati. L’albanese leggerebbe così la sua storia come storia di grandi tragedie, di epopee guerriere, fatte di sangue, atmosfere epiche, miti popolari, insomma etnocentrismo a profusione, ma anche di tanto romantico vittimismo. L’idea di un drammatico incatenamento alla “tradizione” e ai suoi corpi fatali, ricorre nelle recenti produzioni letterarie albanesi come un “qualcosa” d’ineluttabile, anche quando l’intenzionalità politica parrebbe proclamare più decisivi cambiamenti di pagina. Se questo scritto al momento mette solo in fila alcune connessioni letterarie, al tempo stesso vuol essere il primo sobbalzo di una futura ricerca sul rapporto tra distanza, comunicazione e memoria nell’Albania di oggi. Memoria in cui gli stessi ricordi sembrerebbero comportare «costi elevatissimi». Continuerebbero a essere pensati non come elementi elastici, fruibili in rinnovate rimemorazioni critiche, bensì come nodi inestricabili che continuerebbero a piovere dall’alto sempre uguali a se stessi, che incatenerebbero e condizionerebbero l’intero corpo sociale albanese facendolo ancora sanguinare, stringendone il collo della memoria in una sorta di condanna non meno spietata dell’oblio. La delirante megalomania di Prometeo offre così numerosi spunti di riflessione sulla storica fragilità della costruzione sociale albanese. Fragilità puntualmente indotta come effetto di “liberatori” proclami d’onnipotenza e indipendenza: da quelli dell’antico dominio serbo a quelli dei bey e dei pasciallati controllati dalla Sublime Porta, da quelli del Kanun e di Skënderbeg fino a quelli dei partigiani, della monarchia di re Zogu, di Benito Mussolini, di Enver Hoxha, di Sali Berisha, dei suoi odierni oppositori socialisti. Ogni governo impiantatosi in Albania fece cioè fantasticare i suoi cittadini d’essere «non più bambini» ma grandi creatori di storia, con corpi forti come il ferro che li avrebbero resi divini, indipendenti, inattaccabili dallo stesso dio o dal destino, come Prometeo al di sopra delle pietose regole dei mortali e resi «saggi con l’uso della ragione». Ogni risposta richiederà la verifica antropologica della “sindrome” prometeica, proprio perché già praticata in modo così lucido nell’originale ambito letterario qui esemplificato.
2007
9788883252136
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