La necessaria destinazione al mercato dell’attività economica organizzata fa sì che debba darsi rilevo specifico alla struttura del mercato nel quale l’iniziativa imprenditoriale si colloca e alla (in)idoneità dello stesso a operare la riallocazione dei fattori della produzione. In questa prospettiva, le scelte e i comportamenti dei singoli non sono considerati quali isolate e irrelate manifestazioni della volontà individuale, ma in ragione degli effetti sociali aggregati che si generano; il contratto non è considerato un momento dell’autodeterminazione dell’individuo, ma piuttosto lo strumento per attuare il sistema concorrenziale, che si ritiene in quanto tale idoneo ad assicurare il progresso collettivo. Rilievo assume, dunque, la libertà di accedere al mercato e di operare nel medesimo ed è la struttura del mercato che determina i comportamenti degli operatori economici e, poi, il contenuto degli accordi contrattuali. Nelle norme che per i contratti tra imprese autorizzano un sindacato sul contenuto economico o normativo del contratto – a iniziare dall’abuso di dipendenza economica – e poi la correzione del regolamento, ciò che si protegge non è (solo) l’impresa dominata; si tratta, piuttosto, di una disciplina volta a regolamentare le relazioni tra imprese in funzione della regolazione del mercato e, quindi, di norme poste a garanzia della struttura concorrenziale del medesimo. In questa direzione la gestione delle sopravvenienze passa attraverso il fenomeno della c.d. “rinegoziazione” che ha origine e sviluppo soprattutto nell’ambito del commercio internazionale, identificando l’operazione attraverso la quale le parti ridefiniscono il contenuto del regolamento contrattuale a seguito di sopravvenienze idonee ad incidere sull’equilibrio economico-giuridico prefissato al momento della stipulazione del contratto. Più precisamente, si tratta di una tecnica di gestione del rischio legato al mutamento delle circostanze intervenuto nella fase di esecuzione del vincolo contrattuale, che permette di conservare il rapporto “modificato”, evitando il ricorso a rimedi risolutori. La ragione di questa diffusione deriva essenzialmente dai caratteri che connotano le relazioni tra imprese e che possono indurre le parti a preferire, in presenza di determinati presupposti e circostanze concrete, modelli di adeguamento e modificazione del contenuto del contratto rispetto ad interventi mirati allo scioglimento del vincolo negoziale. La protrazione nel tempo del rapporto rende lo stesso maggiormente esposto alla possibile incidenza di fattori esterni perturbatori. Da qui la necessità di contemplare meccanismi di gestione delle sopravvenienze finalizzati alla conservazione del contratto. La preferenza per la conservazione nasce anche dal fatto che la risoluzione del vincolo impedirebbe il recupero integrale dei costi di investimento sostenuti in vista di una esecuzione destinata a durare nel tempo. La diffusione delle regole della rinegoziazione nella prassi del commercio internazionale ha indotto l’Istituto internazionale per il diritto privato (Unidroit) ad includere dette regole tra i principi elaborati al fine della realizzazione dell’ambizioso progetto di armonizzazione del diritto commerciale internazionale l’estensione temporale del rapporto unitamente alla sua complessità devono indurre l’interprete ad assegnare alla fase esecutiva una sua autonomia rispetto alla fase di conclusione dell’accordo, consentendo alle parti di godere di quei margini di flessibilità indispensabili per poter adeguare il contenuto del rapporto alle circostanze che possono sopravvenire nel corso dell’esecuzione Pur in assenza di un previsione legislativa di carattere generale, nessun dubbio può sussistere in ordine alla possibilità che le parti, nell’esercizio della propria autonomia contrattuale, inseriscano nei contratti (di durata) clausole di rinegoziazione, considerate meritevoli di tutela giuridica Pur in mancanza di una espressa previsione contrattuale, l’obbligo di rinegoziazione può nascere direttamente dalla clausola generale della buona fede. Sul punto, secondo la prevalente dottrina civilistica, la buona fede assolve ad una funzione integrativa del contenuto del contratto, con conseguente creazione di nuovi diritti e obblighi per le parti, ancorché non espressamente previsti nel contratto stesso e neppure risultanti dall’applicazione di disposizioni di legge analitiche ovvero dal dovere extracontrattuale del neminem ledere. L’integrazione avverrebbe mediante la creazione di nuovi doveri definiti ancillari ovvero accessori della prestazione principale. E nell’attività determinativa del contenuto della clausola generale di buona fede ruolo decisivo assumerebbero i valori esterni al contratto rappresentati dai principi costituzionali e, in particolare, dal dovere di solidarietà sancito dall’art. 2 della Costituzione, di natura inderogabile. Alla buona fede si può riconoscere funzione di integrazione cogente e l’obbligo di correttezza assolverebbe, dunque, anche alla funzione di limite e controllo dell’autonomia contrattuale; le parti non potrebbe prevedere una regolamento che contrasti con il dovere di correttezza, perché ciò significherebbe violare l’ordine pubblico (costituzionale). Più specificamente: la buona fede avrebbe la funzione di mera integrazione del contratto nel caso in cui vi sia una lacuna negoziale; avrebbe, invece, una funzione di integrazione cogente, nel caso in cui i contraenti abbiamo introdotto una clausola contraria alla buona fede stessa legittima una revisione negoziale effettuata nel fase esecutiva per la gestione di una sopravvenienza giuridicamente rilevante, soltanto se si rispettano talune condizioni e presupposti indispensabili affinché tale revisione non si trasformi in un mezzo elusivo delle regole della concorrenza. Se viene inserita espressamente nel contratto una clausola di rinegoziazione, la stessa – a prescindere dal suo contenuto generico o specifico – potrebbe già contenere in sé la previsione secondo cui qualora sopraggiunga un evento in grado di alterare l’assetto negoziale programmato, le parti hanno l’obbligo di modificare il contenuto del contratto rispettando l’equilibrio economico-giuridico stabilito al momento della conclusione del contratto stesso. Qualora l’obbligo di revisione negoziale non nasca da una fonte convenzionale, bensì dal dovere di buona fede, le peculiari modalità di determinazione del contenuto della correttezza contrattuale garantiscono il rispetto della condizione posta: assicurare l’originario equilibrio. Un sostegno a siffatta ricostruzione si può rinvenire nella codificazione degli usi commerciali internazionali che arricchisce il materiale normativo, imponendosi all’attenzione dell’interprete, poiché la disciplina della gross disparity – prevista all’art. 3.10 dei Principi Unidroit – detta una regola ritenuta prossima a quella dell’abuso di dipendenza economica, Il controllo sul contenuto economico e normativo del contratto si avvale, quale termine medio di concretizzazione, della buona fede oggettiva ed è proprio su questo piano che si registra un radicale ripensamento concettuale e sistematico. Altro è, infatti, il ricorso a tale clausola generale al fine di vagliare un comportamento, il che consente al giudice di sviluppare – coerentemente ad un criterio di normalità e adeguatezza sociale – gl’interessi impliciti e non esplicitati nel regolamento contrattuale. Altro è utilizzare la buona fede quale criterio per valutare nel merito il regolamento contrattuale in quanto tale e, allora, giustificare la correzione o l’invalidità d’una regola del contratto espressamente voluta dalle parti ovvero imporre un obbligo a concludere il contratto. I principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione e nell'interpretazione dei contratti rilevano sia sul piano dell'individuazione degli obblighi contrattuali, sia su quello del bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti. Sotto il primo profilo, essi impongono alle parti di adempiere obblighi anche non espressamente previsti dal contratto o dalla legge, ove ciò sia necessario per preservare gli interessi della controparte; sotto il secondo profilo, consentono al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sul contenuto del contratto, qualora ciò sia necessario per garantire l'equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l'abuso del diritto.

Obbligatorietà del vincolo e squilibrio delle prestazioni nei contratti tra imprenditori: Riflessioni sui Principi Unidroit

PARRINELLO, Concetta
2003-01-01

Abstract

La necessaria destinazione al mercato dell’attività economica organizzata fa sì che debba darsi rilevo specifico alla struttura del mercato nel quale l’iniziativa imprenditoriale si colloca e alla (in)idoneità dello stesso a operare la riallocazione dei fattori della produzione. In questa prospettiva, le scelte e i comportamenti dei singoli non sono considerati quali isolate e irrelate manifestazioni della volontà individuale, ma in ragione degli effetti sociali aggregati che si generano; il contratto non è considerato un momento dell’autodeterminazione dell’individuo, ma piuttosto lo strumento per attuare il sistema concorrenziale, che si ritiene in quanto tale idoneo ad assicurare il progresso collettivo. Rilievo assume, dunque, la libertà di accedere al mercato e di operare nel medesimo ed è la struttura del mercato che determina i comportamenti degli operatori economici e, poi, il contenuto degli accordi contrattuali. Nelle norme che per i contratti tra imprese autorizzano un sindacato sul contenuto economico o normativo del contratto – a iniziare dall’abuso di dipendenza economica – e poi la correzione del regolamento, ciò che si protegge non è (solo) l’impresa dominata; si tratta, piuttosto, di una disciplina volta a regolamentare le relazioni tra imprese in funzione della regolazione del mercato e, quindi, di norme poste a garanzia della struttura concorrenziale del medesimo. In questa direzione la gestione delle sopravvenienze passa attraverso il fenomeno della c.d. “rinegoziazione” che ha origine e sviluppo soprattutto nell’ambito del commercio internazionale, identificando l’operazione attraverso la quale le parti ridefiniscono il contenuto del regolamento contrattuale a seguito di sopravvenienze idonee ad incidere sull’equilibrio economico-giuridico prefissato al momento della stipulazione del contratto. Più precisamente, si tratta di una tecnica di gestione del rischio legato al mutamento delle circostanze intervenuto nella fase di esecuzione del vincolo contrattuale, che permette di conservare il rapporto “modificato”, evitando il ricorso a rimedi risolutori. La ragione di questa diffusione deriva essenzialmente dai caratteri che connotano le relazioni tra imprese e che possono indurre le parti a preferire, in presenza di determinati presupposti e circostanze concrete, modelli di adeguamento e modificazione del contenuto del contratto rispetto ad interventi mirati allo scioglimento del vincolo negoziale. La protrazione nel tempo del rapporto rende lo stesso maggiormente esposto alla possibile incidenza di fattori esterni perturbatori. Da qui la necessità di contemplare meccanismi di gestione delle sopravvenienze finalizzati alla conservazione del contratto. La preferenza per la conservazione nasce anche dal fatto che la risoluzione del vincolo impedirebbe il recupero integrale dei costi di investimento sostenuti in vista di una esecuzione destinata a durare nel tempo. La diffusione delle regole della rinegoziazione nella prassi del commercio internazionale ha indotto l’Istituto internazionale per il diritto privato (Unidroit) ad includere dette regole tra i principi elaborati al fine della realizzazione dell’ambizioso progetto di armonizzazione del diritto commerciale internazionale l’estensione temporale del rapporto unitamente alla sua complessità devono indurre l’interprete ad assegnare alla fase esecutiva una sua autonomia rispetto alla fase di conclusione dell’accordo, consentendo alle parti di godere di quei margini di flessibilità indispensabili per poter adeguare il contenuto del rapporto alle circostanze che possono sopravvenire nel corso dell’esecuzione Pur in assenza di un previsione legislativa di carattere generale, nessun dubbio può sussistere in ordine alla possibilità che le parti, nell’esercizio della propria autonomia contrattuale, inseriscano nei contratti (di durata) clausole di rinegoziazione, considerate meritevoli di tutela giuridica Pur in mancanza di una espressa previsione contrattuale, l’obbligo di rinegoziazione può nascere direttamente dalla clausola generale della buona fede. Sul punto, secondo la prevalente dottrina civilistica, la buona fede assolve ad una funzione integrativa del contenuto del contratto, con conseguente creazione di nuovi diritti e obblighi per le parti, ancorché non espressamente previsti nel contratto stesso e neppure risultanti dall’applicazione di disposizioni di legge analitiche ovvero dal dovere extracontrattuale del neminem ledere. L’integrazione avverrebbe mediante la creazione di nuovi doveri definiti ancillari ovvero accessori della prestazione principale. E nell’attività determinativa del contenuto della clausola generale di buona fede ruolo decisivo assumerebbero i valori esterni al contratto rappresentati dai principi costituzionali e, in particolare, dal dovere di solidarietà sancito dall’art. 2 della Costituzione, di natura inderogabile. Alla buona fede si può riconoscere funzione di integrazione cogente e l’obbligo di correttezza assolverebbe, dunque, anche alla funzione di limite e controllo dell’autonomia contrattuale; le parti non potrebbe prevedere una regolamento che contrasti con il dovere di correttezza, perché ciò significherebbe violare l’ordine pubblico (costituzionale). Più specificamente: la buona fede avrebbe la funzione di mera integrazione del contratto nel caso in cui vi sia una lacuna negoziale; avrebbe, invece, una funzione di integrazione cogente, nel caso in cui i contraenti abbiamo introdotto una clausola contraria alla buona fede stessa legittima una revisione negoziale effettuata nel fase esecutiva per la gestione di una sopravvenienza giuridicamente rilevante, soltanto se si rispettano talune condizioni e presupposti indispensabili affinché tale revisione non si trasformi in un mezzo elusivo delle regole della concorrenza. Se viene inserita espressamente nel contratto una clausola di rinegoziazione, la stessa – a prescindere dal suo contenuto generico o specifico – potrebbe già contenere in sé la previsione secondo cui qualora sopraggiunga un evento in grado di alterare l’assetto negoziale programmato, le parti hanno l’obbligo di modificare il contenuto del contratto rispettando l’equilibrio economico-giuridico stabilito al momento della conclusione del contratto stesso. Qualora l’obbligo di revisione negoziale non nasca da una fonte convenzionale, bensì dal dovere di buona fede, le peculiari modalità di determinazione del contenuto della correttezza contrattuale garantiscono il rispetto della condizione posta: assicurare l’originario equilibrio. Un sostegno a siffatta ricostruzione si può rinvenire nella codificazione degli usi commerciali internazionali che arricchisce il materiale normativo, imponendosi all’attenzione dell’interprete, poiché la disciplina della gross disparity – prevista all’art. 3.10 dei Principi Unidroit – detta una regola ritenuta prossima a quella dell’abuso di dipendenza economica, Il controllo sul contenuto economico e normativo del contratto si avvale, quale termine medio di concretizzazione, della buona fede oggettiva ed è proprio su questo piano che si registra un radicale ripensamento concettuale e sistematico. Altro è, infatti, il ricorso a tale clausola generale al fine di vagliare un comportamento, il che consente al giudice di sviluppare – coerentemente ad un criterio di normalità e adeguatezza sociale – gl’interessi impliciti e non esplicitati nel regolamento contrattuale. Altro è utilizzare la buona fede quale criterio per valutare nel merito il regolamento contrattuale in quanto tale e, allora, giustificare la correzione o l’invalidità d’una regola del contratto espressamente voluta dalle parti ovvero imporre un obbligo a concludere il contratto. I principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione e nell'interpretazione dei contratti rilevano sia sul piano dell'individuazione degli obblighi contrattuali, sia su quello del bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti. Sotto il primo profilo, essi impongono alle parti di adempiere obblighi anche non espressamente previsti dal contratto o dalla legge, ove ciò sia necessario per preservare gli interessi della controparte; sotto il secondo profilo, consentono al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sul contenuto del contratto, qualora ciò sia necessario per garantire l'equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l'abuso del diritto.
2003
9788834833179
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