I processi interculturali nel nostro Paese, meta ormai da anni di flussi migratori, hanno messo in luce problematiche che, se in precedenza ignorate, oggi necessitano di una attenta analisi da parte degli studiosi ed, in particolare, dei giuristi. Il presente lavoro ha ad oggetto la legge n. 7 del 2006 relativa alla prevenzione e divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile, che ha diviso la dottrina con accesi dibattiti in ordine agli strumenti di tutela predisposti. Preliminarmente l’indagine è stata condotta con metodo comparatistico, rivelando una vera osmosi tra le singole legislazioni nazionali, anche di Paesi del terzo mondo, e le Carte internazionali in materia di salvaguardia dei diritti dell’uomo. Lo studio si è poi soffermato sul bilanciamento operato dalla legge n. 7 del 2006, vero nodo gordiano da un punto di vista costituzionalistico, in quanto la previsione normativa, con un connotato chiaramente repressivo piuttosto che preventivo, ha sacrificato il diritto al mantenimento della identità culturale degli immigrati a fronte della salvaguardia della dignità quale punto archimedico dell’ordinamento ed in specie della dignità della donna. Per tale motivazione la disciplina può essere vissuta dagli immigrasti come una politica solo persecutoria ed autoritativa. Ne consegue che l’impossibilità di procedere ad un bilanciamento “mite” che assicuri un qualche spazio al cd. diritto alle radici delle minoranze culturali porta con sé inevitabilmente il rischio di spinte verso la clandestinità, con condotte di mutilazione ancora più cruente e pericolose per la salute delle bambine e donne adulte. La legge prevede che qualora l’intervento sia inflitto a minorenni su richiesta e con il consenso dei genitori non potranno essere invocate cause di giustificazione; mentre nel caso di ragazze maggiorenni la prestazione del consenso non può avere rilievo ai fini della concessione di attenuanti, laddove la condotta integri le ipotesi previste da tale disciplina. Oltretutto il bilanciamento de quo va operato tenendo conto del diritto di autodeterminazione della persona anche in tema di atti di disposizione del proprio corpo. Ne deriva una contrapposizione netta tra la possibilità di disporre del proprio corpo in virtù degli artt. 13 e 32 della Costituzione, posto che in tali casi si presume sino a prova contraria che il paziente si sottoponga liberamente e volontariamente all’intervento nella convinzione di migliorare il proprio benessere psico-fisico, e tra la fattispecie incriminatrice per condotte quali l’infibulazione la clitoridectomia et similia in cui vale sempre la presunzione contraria. La pubblicazione ha il merito di evidenziare le criticità del disposto normativo. Nonostante il tentativo di prevedere delle soluzioni preventive, attraverso campagne informative atte a diffondere la conoscenza dei diritti fondamentali della persona umana, la normativa esaminata si contraddistingue per il suo carattere particolarmente repressivo, frutto di una politica scevra da un dialettico confronto interculturale con le comunità di immigrati che, se pur presenti nel nostro Paese da lungo tempo, sono svantaggiate dal loro retaggio culturale. A tal fine le politiche di sensibilizzazione atte ad individuare una valida e possibile alternativa all’utilizzazione di una pratica cruenta, quale ad esempio il compimento di un semplice rito simbolico, avrebbero sicuramente dato una soluzione “mite” al problema contemperando le opposte esigenze religiose, culturali, sociali e di tutela della salute. In conclusione è stato messo in evidenza come nella tutela dei “diritti delle donne” non è sufficiente promuovere gli interventi, pur apprezzabili previsti nella suddetta disciplina, bensì appare necessario individuare nel superamento delle discriminazioni di genere uno dei principali obiettivi delle strategie di intervento, sotto forma di sostegno economico-finanziario e culturale.
Quale "mitezza" dinanzi alla dignità mutilata delle donne? Brevi note sulla L. N. 7/2006 ("Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile")
QUATTROCCHI, Maria Letteria
2010-01-01
Abstract
I processi interculturali nel nostro Paese, meta ormai da anni di flussi migratori, hanno messo in luce problematiche che, se in precedenza ignorate, oggi necessitano di una attenta analisi da parte degli studiosi ed, in particolare, dei giuristi. Il presente lavoro ha ad oggetto la legge n. 7 del 2006 relativa alla prevenzione e divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile, che ha diviso la dottrina con accesi dibattiti in ordine agli strumenti di tutela predisposti. Preliminarmente l’indagine è stata condotta con metodo comparatistico, rivelando una vera osmosi tra le singole legislazioni nazionali, anche di Paesi del terzo mondo, e le Carte internazionali in materia di salvaguardia dei diritti dell’uomo. Lo studio si è poi soffermato sul bilanciamento operato dalla legge n. 7 del 2006, vero nodo gordiano da un punto di vista costituzionalistico, in quanto la previsione normativa, con un connotato chiaramente repressivo piuttosto che preventivo, ha sacrificato il diritto al mantenimento della identità culturale degli immigrati a fronte della salvaguardia della dignità quale punto archimedico dell’ordinamento ed in specie della dignità della donna. Per tale motivazione la disciplina può essere vissuta dagli immigrasti come una politica solo persecutoria ed autoritativa. Ne consegue che l’impossibilità di procedere ad un bilanciamento “mite” che assicuri un qualche spazio al cd. diritto alle radici delle minoranze culturali porta con sé inevitabilmente il rischio di spinte verso la clandestinità, con condotte di mutilazione ancora più cruente e pericolose per la salute delle bambine e donne adulte. La legge prevede che qualora l’intervento sia inflitto a minorenni su richiesta e con il consenso dei genitori non potranno essere invocate cause di giustificazione; mentre nel caso di ragazze maggiorenni la prestazione del consenso non può avere rilievo ai fini della concessione di attenuanti, laddove la condotta integri le ipotesi previste da tale disciplina. Oltretutto il bilanciamento de quo va operato tenendo conto del diritto di autodeterminazione della persona anche in tema di atti di disposizione del proprio corpo. Ne deriva una contrapposizione netta tra la possibilità di disporre del proprio corpo in virtù degli artt. 13 e 32 della Costituzione, posto che in tali casi si presume sino a prova contraria che il paziente si sottoponga liberamente e volontariamente all’intervento nella convinzione di migliorare il proprio benessere psico-fisico, e tra la fattispecie incriminatrice per condotte quali l’infibulazione la clitoridectomia et similia in cui vale sempre la presunzione contraria. La pubblicazione ha il merito di evidenziare le criticità del disposto normativo. Nonostante il tentativo di prevedere delle soluzioni preventive, attraverso campagne informative atte a diffondere la conoscenza dei diritti fondamentali della persona umana, la normativa esaminata si contraddistingue per il suo carattere particolarmente repressivo, frutto di una politica scevra da un dialettico confronto interculturale con le comunità di immigrati che, se pur presenti nel nostro Paese da lungo tempo, sono svantaggiate dal loro retaggio culturale. A tal fine le politiche di sensibilizzazione atte ad individuare una valida e possibile alternativa all’utilizzazione di una pratica cruenta, quale ad esempio il compimento di un semplice rito simbolico, avrebbero sicuramente dato una soluzione “mite” al problema contemperando le opposte esigenze religiose, culturali, sociali e di tutela della salute. In conclusione è stato messo in evidenza come nella tutela dei “diritti delle donne” non è sufficiente promuovere gli interventi, pur apprezzabili previsti nella suddetta disciplina, bensì appare necessario individuare nel superamento delle discriminazioni di genere uno dei principali obiettivi delle strategie di intervento, sotto forma di sostegno economico-finanziario e culturale.Pubblicazioni consigliate
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