Una didattica condivisa Nel testo sull’assegno di ricerca “Architettura come continuità” il sottotitolo “Note sull’esperienza di ricerca ed il rapporto con i materiali di base” segnala un voler cogliere l’occasione per riflettere su una specificità, quella dei materiali di base che si utilizzano per tessere un ragionamento e giungere al ritrovamento di un nuovo, di un qualcosa prima mai detto o più semplicemente celato. Qui se ne faceva riferimento lì, interessa porre l’attenzione su una forma di comunicazione del sapere che trova nei seminari e particolarmente in quelli a più voci, una formula di particolare efficacia. Il testo su cui si compie questo esercizio esplicita da subito che ci si occuperà di qualcosa di antico che trova posto nel futuro, anzi, fa presumere una sorta di antichità che si insedia letteralmente nel futuro. I due autori, Antonio Fabiano e Giuseppe Arcidiacono dialogano tra loro ma principalmente chiedono al loro interlocutore; quel “conversazione con Gianni Accasto” lo svela, il racconto da parte di un protagonista della vicenda, l’apparizione di Kahn sulla scena anche europea, intorno agli anni sessanta in cui lui, Gianni Accasto, assieme ad altri allora studenti di architettura cominciò a guardare a quelle architetture e a quel pensiero che da subito apparvero dirompenti, mettendo in crisi quelli che si erano affermati come valori del Movimento Moderno, in realtà già trasmigranti verso International Style. Cosa trova il lettore in questo libro? Una serie di questioni che attraversa periodicamente il pensare ed il fare architettura (il leggere e lo scrivere architettonici): antichità futura, è espressione usata da Accasto per ragionare sulla forma di rapporto di Kahn con le architetture della storia e per intraprendere da esse il progresso che conformerà il futuro e più di ciò. Da Gianni Accasto è intesa non tanto come ripresa e continuazione di qualcosa che è stato, quanto senso del suo prolungamento nel tempo; il senso dell’opera di Louis Kahn è stato di costruire perché le cose rimangano è cioè ciò che permane, che si attualizza perennemente, portatore all’interno di se di qualcosa che contiene una possibilità di mutamento che noi non conosciamo ancora. Segue la contestualizzazione degli eventi, ossia il racconto di cosa avveniva, di ciò in cui si credeva. Erano gli anni a cavallo del 1960 in cui si teorizzava “l’architettura variabile” qualcosa che doveva servire all’immediatezza delle esigenze e per tale motivo doveva essere flessibile, mutare, muoversi come nel teatro di Sacripanti per Cagliari o il grattacielo Peugeot per Buenos Aires prevedente una facciata di pannelli pubblicitari mutanti, era cioè contraddetto proprio lo statuto del costruire, la sua “statica”. È consequenziale che non venisse capita la doppia riproposizione che Rossi pubblicava su Casabella; il grattacielo a forma di colonna dorica di Adolf Loos per il concorso del Chicago Tribune. In questo contesto apparvero con tutta la loro “fermezza” le grandi costruzioni kahniane, che col loro esistere si opponevano alla scomparsa…dell’architettura. Un altro quadro a cui si rivolge l’attenzione è quello del come muta la città in relazione al mutare dell’architettura per riflettere sul dato che, fino alla contemporaneità, il senso della città, di ciascuna di esse, è comunque testimoniato dal suo centro storico; peraltro la città muta sotto i nostri occhi tanto che noi non riconosciamo più nella presente quella della nostra infanzia, ossia quella in cui si sono formati i nostri pensieri e ci siamo fatti una prima immagine del mondo; e Baudelaire già avvertiva la necessità di “fare i ricordi di pietra” perché la sua Parigi si trasformava e consumava. Questo che dice Antonio Fabiano, fa riflettere Gianni Accasto sui modi secondo cui parti entrano a far parte di nuove entità sino a permanere anche come materiale nella rovina, un attimo prima di tornare ad essere materia e quindi natura; un ultimo atto di volontà di partecipazione al costruito. Riflette anche su di una sua personale esperienza della Roma nuova dell’EUR in cui accanto alle bianche architetture compiute, altre che non furono mai finite, ma che con il proprio carattere di non-finito ricordavano la magnifica rovina del muro di Villa Adriana possono dare l’avvio alle riflessioni su Louis Kahn. Un Kahn che è un personaggio anomalo: c’è chi lo ha definito come l’ultimo dei Maestri; l’ultimo di una generazione che ha prodotto Maestri, costruttori di architetture esemplari per un pubblico planetario, il pubblico dello Stile Internazionale. Uno stile internazionale in cui andava prevalendo una sorta di volontà di uniformarsi, rispetto a cui Kahn esprime una volontà di radicamento delle sue architetture, quindi irripetibili. “un Maestro per chiudere un capitolo” Così l’effetto che sortì l’architettura di Kahn fu quello di qualcosa che già c’era, e che spiazzava molti dei problemi ritenuti portanti per l’architettura in quegli anni. Arcidiacono apre il fronte del Kahn funzionalista. In merito al travisamento funzionalista degli spazi serventi e spazi serviti di Kahn si chiarisce come rivendichi una pariteticità di ruolo rimettendo sotto gli occhi di tutti come ciò è riscontrabile in tutta l’architettura del passato. Rispetto all’applicazione sulla città del pensiero kahniano ed ai rapporti con le arti, praticati con superficialità da chi genera le piante dei quartieri “moderni”, si evidenzia come il disegno di Kahn istituisca il legame, “allude sempre ad essa”. Kahn Maestro per sostituire i Maestri, ma anche Kahn perché si muoveva in una dimensione di ricerca di architettura, rimetteva in circolo la storia come ha meglio chiarito più di ogni altro Francesco Tentori nell’articolo Il passato come amico: Voglio aggiungere anche che l’operazione kahniana è profondamente “antistorica” perché i rapporti con le architetture sono stabiliti con il metodo e il lavoro dell’architetto, non dello storico.

ANTICHITà FUTURAConversazioni con Gianni Accasto

MARCHESE, CLAUDIO
2011-01-01

Abstract

Una didattica condivisa Nel testo sull’assegno di ricerca “Architettura come continuità” il sottotitolo “Note sull’esperienza di ricerca ed il rapporto con i materiali di base” segnala un voler cogliere l’occasione per riflettere su una specificità, quella dei materiali di base che si utilizzano per tessere un ragionamento e giungere al ritrovamento di un nuovo, di un qualcosa prima mai detto o più semplicemente celato. Qui se ne faceva riferimento lì, interessa porre l’attenzione su una forma di comunicazione del sapere che trova nei seminari e particolarmente in quelli a più voci, una formula di particolare efficacia. Il testo su cui si compie questo esercizio esplicita da subito che ci si occuperà di qualcosa di antico che trova posto nel futuro, anzi, fa presumere una sorta di antichità che si insedia letteralmente nel futuro. I due autori, Antonio Fabiano e Giuseppe Arcidiacono dialogano tra loro ma principalmente chiedono al loro interlocutore; quel “conversazione con Gianni Accasto” lo svela, il racconto da parte di un protagonista della vicenda, l’apparizione di Kahn sulla scena anche europea, intorno agli anni sessanta in cui lui, Gianni Accasto, assieme ad altri allora studenti di architettura cominciò a guardare a quelle architetture e a quel pensiero che da subito apparvero dirompenti, mettendo in crisi quelli che si erano affermati come valori del Movimento Moderno, in realtà già trasmigranti verso International Style. Cosa trova il lettore in questo libro? Una serie di questioni che attraversa periodicamente il pensare ed il fare architettura (il leggere e lo scrivere architettonici): antichità futura, è espressione usata da Accasto per ragionare sulla forma di rapporto di Kahn con le architetture della storia e per intraprendere da esse il progresso che conformerà il futuro e più di ciò. Da Gianni Accasto è intesa non tanto come ripresa e continuazione di qualcosa che è stato, quanto senso del suo prolungamento nel tempo; il senso dell’opera di Louis Kahn è stato di costruire perché le cose rimangano è cioè ciò che permane, che si attualizza perennemente, portatore all’interno di se di qualcosa che contiene una possibilità di mutamento che noi non conosciamo ancora. Segue la contestualizzazione degli eventi, ossia il racconto di cosa avveniva, di ciò in cui si credeva. Erano gli anni a cavallo del 1960 in cui si teorizzava “l’architettura variabile” qualcosa che doveva servire all’immediatezza delle esigenze e per tale motivo doveva essere flessibile, mutare, muoversi come nel teatro di Sacripanti per Cagliari o il grattacielo Peugeot per Buenos Aires prevedente una facciata di pannelli pubblicitari mutanti, era cioè contraddetto proprio lo statuto del costruire, la sua “statica”. È consequenziale che non venisse capita la doppia riproposizione che Rossi pubblicava su Casabella; il grattacielo a forma di colonna dorica di Adolf Loos per il concorso del Chicago Tribune. In questo contesto apparvero con tutta la loro “fermezza” le grandi costruzioni kahniane, che col loro esistere si opponevano alla scomparsa…dell’architettura. Un altro quadro a cui si rivolge l’attenzione è quello del come muta la città in relazione al mutare dell’architettura per riflettere sul dato che, fino alla contemporaneità, il senso della città, di ciascuna di esse, è comunque testimoniato dal suo centro storico; peraltro la città muta sotto i nostri occhi tanto che noi non riconosciamo più nella presente quella della nostra infanzia, ossia quella in cui si sono formati i nostri pensieri e ci siamo fatti una prima immagine del mondo; e Baudelaire già avvertiva la necessità di “fare i ricordi di pietra” perché la sua Parigi si trasformava e consumava. Questo che dice Antonio Fabiano, fa riflettere Gianni Accasto sui modi secondo cui parti entrano a far parte di nuove entità sino a permanere anche come materiale nella rovina, un attimo prima di tornare ad essere materia e quindi natura; un ultimo atto di volontà di partecipazione al costruito. Riflette anche su di una sua personale esperienza della Roma nuova dell’EUR in cui accanto alle bianche architetture compiute, altre che non furono mai finite, ma che con il proprio carattere di non-finito ricordavano la magnifica rovina del muro di Villa Adriana possono dare l’avvio alle riflessioni su Louis Kahn. Un Kahn che è un personaggio anomalo: c’è chi lo ha definito come l’ultimo dei Maestri; l’ultimo di una generazione che ha prodotto Maestri, costruttori di architetture esemplari per un pubblico planetario, il pubblico dello Stile Internazionale. Uno stile internazionale in cui andava prevalendo una sorta di volontà di uniformarsi, rispetto a cui Kahn esprime una volontà di radicamento delle sue architetture, quindi irripetibili. “un Maestro per chiudere un capitolo” Così l’effetto che sortì l’architettura di Kahn fu quello di qualcosa che già c’era, e che spiazzava molti dei problemi ritenuti portanti per l’architettura in quegli anni. Arcidiacono apre il fronte del Kahn funzionalista. In merito al travisamento funzionalista degli spazi serventi e spazi serviti di Kahn si chiarisce come rivendichi una pariteticità di ruolo rimettendo sotto gli occhi di tutti come ciò è riscontrabile in tutta l’architettura del passato. Rispetto all’applicazione sulla città del pensiero kahniano ed ai rapporti con le arti, praticati con superficialità da chi genera le piante dei quartieri “moderni”, si evidenzia come il disegno di Kahn istituisca il legame, “allude sempre ad essa”. Kahn Maestro per sostituire i Maestri, ma anche Kahn perché si muoveva in una dimensione di ricerca di architettura, rimetteva in circolo la storia come ha meglio chiarito più di ogni altro Francesco Tentori nell’articolo Il passato come amico: Voglio aggiungere anche che l’operazione kahniana è profondamente “antistorica” perché i rapporti con le architetture sono stabiliti con il metodo e il lavoro dell’architetto, non dello storico.
2011
9788864940625
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