«(...) Iubet imperator ut omnes qui secum erant ydolis immolarent (...). Quod sancti milites audientes (...) qui se non posse facere responderunt utpote qui fidem Christi haberent» . Il rifiuto di sacrificare agli idoli, così com’è esemplificato in questo passaggio della Vita di Maurizio e compagni, inserita da Iacopo da Varazze nella Legenda aurea, era per ovvie ragioni il momento centrale, il simbolo stesso dell’attestazione della fede dei primi cristiani. Il culto degli idoli, il suo significato, la sua origine erano stati oggetto di frequenti considerazioni sin dai primi secoli del medioevo. Isidoro di Siviglia ricordava come alcuni facessero derivare la parola “idolo” da dolus: «Quidam (…) imperite dicunt idolum ex dolo sumpsisse nomen, quod diabolo creaturae cultum divini nominis invexit» ; precisava poi che, al contrario di quanto credevano rispettivamente gli ebrei e i pagani, non a Ismaele o a Prometeo si doveva la prima immagine di una divinità, bensì al re dei babilonesi Nino, primo inventore dell’idolatria, e aggiungeva come il culto pagano si rivolgesse a figure in principio umane, che dopo la morte erano state venerate e divinizzate in base a meriti particolari. Molti secoli più tardi, tra XII e XIII, Pietro Comestore e Vincenzo di Beauvais riprendevano questo mito sulle origini del paganesimo, anche da essi legato alla figura di Nino: in un tempo susseguente al diluvio e al tempo di Abramo, alla morte del sovrano della Siria Belo, il figlio di questi, (Nino, appunto), aveva ordinato un’immagine d’oro in memoria del padre, che servisse ai sudditi per vederlo come vivo; da qui l’abitudine di rendere omaggio a questo simulacro come si trattasse di una divinità . L’idea che le statue antiche fossero immagini speculari rispetto agli esseri viventi (e che questo le rendesse in qualche modo “pericolose” ) rispecchiava in fondo una convinzione piuttosto comune al tempo, espressa bene dal celebre testo di mirabilia Romae del viaggiatore inglese noto come Magister Gregorius, il quale scriveva per esempio di esser tornato tre volte ad ammirare la statua di Venere, catturato da una sorta di “magica persuasione” : la bellezza, l’accuratezza formali, l’estrema verosimiglianza erano infatti il segno della natura non completamente umana, e dunque demoniaca, dell’arte antropomorfa prodotta dai pagani.

Sacrificare agli idoli. La visione del paganesimo nella “Legenda aurea”

MONTESANO, Marina
2001-01-01

Abstract

«(...) Iubet imperator ut omnes qui secum erant ydolis immolarent (...). Quod sancti milites audientes (...) qui se non posse facere responderunt utpote qui fidem Christi haberent» . Il rifiuto di sacrificare agli idoli, così com’è esemplificato in questo passaggio della Vita di Maurizio e compagni, inserita da Iacopo da Varazze nella Legenda aurea, era per ovvie ragioni il momento centrale, il simbolo stesso dell’attestazione della fede dei primi cristiani. Il culto degli idoli, il suo significato, la sua origine erano stati oggetto di frequenti considerazioni sin dai primi secoli del medioevo. Isidoro di Siviglia ricordava come alcuni facessero derivare la parola “idolo” da dolus: «Quidam (…) imperite dicunt idolum ex dolo sumpsisse nomen, quod diabolo creaturae cultum divini nominis invexit» ; precisava poi che, al contrario di quanto credevano rispettivamente gli ebrei e i pagani, non a Ismaele o a Prometeo si doveva la prima immagine di una divinità, bensì al re dei babilonesi Nino, primo inventore dell’idolatria, e aggiungeva come il culto pagano si rivolgesse a figure in principio umane, che dopo la morte erano state venerate e divinizzate in base a meriti particolari. Molti secoli più tardi, tra XII e XIII, Pietro Comestore e Vincenzo di Beauvais riprendevano questo mito sulle origini del paganesimo, anche da essi legato alla figura di Nino: in un tempo susseguente al diluvio e al tempo di Abramo, alla morte del sovrano della Siria Belo, il figlio di questi, (Nino, appunto), aveva ordinato un’immagine d’oro in memoria del padre, che servisse ai sudditi per vederlo come vivo; da qui l’abitudine di rendere omaggio a questo simulacro come si trattasse di una divinità . L’idea che le statue antiche fossero immagini speculari rispetto agli esseri viventi (e che questo le rendesse in qualche modo “pericolose” ) rispecchiava in fondo una convinzione piuttosto comune al tempo, espressa bene dal celebre testo di mirabilia Romae del viaggiatore inglese noto come Magister Gregorius, il quale scriveva per esempio di esser tornato tre volte ad ammirare la statua di Venere, catturato da una sorta di “magica persuasione” : la bellezza, l’accuratezza formali, l’estrema verosimiglianza erano infatti il segno della natura non completamente umana, e dunque demoniaca, dell’arte antropomorfa prodotta dai pagani.
2001
8876891358
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