Le norme in commento non hanno subito modifiche. L’art. 196 fa riferimento alle ipotesi di concorso (ma sarebbe meglio dire di «conflitto») fra l.c.a. e fallimento. Si tratta delle fattispecie in cui la legge prevede che determinate imprese possano essere assoggettate ad entrambe le procedure, di guisa che, in presenza dei presupposti per l’apertura del fallimento (impresa commerciale insolvente e di «dimensioni» non piccole ai fini fallimentari) si pone il problema di stabilire quale procedura applicare. Si pensi al caso dei consorzi di cooperative (r.d. 1554/1926); alle s.p.a. ed alle s.a.p.a. debitrici dello Stato e garantite dallo stesso, che siano obbligate per un importo superiore al quadruplo del capitale sociale (r.d. 2/1935); alle cooperative esercenti attività commerciale (art. 2545 terdecies c.c.); oltre alle società in cui l’IRI partecipava per più del 50 per cento del capitale (r.d. 859/1933). In questa sede, non si esamineranno i rapporti tra l’art. 2 e l’art. 196, essendo già stati altrove trattati1. Si dedicherà maggiore attenzione, pertanto, all’esame del criterio elaborato sin dal 1942 per la risoluzione delle ipotesi di conflitto, peraltro espressamente recepito dall’art. 2545 terdecies, 3° co., c.c., con riferimento alle cooperative esercenti attività commerciale. Il legislatore ha stabilito la incompatibilità fra le due procedure, prevedendo che l’apertura di una fra le due, ugualmente possibili, precluda l’altra. Si tratta della c.d. litispendenza esecutiva fra procedimenti di natura giuspubblicistica, non importa se propriamente giudiziari ovvero di carattere amministrativo. Il riformatore non ha però colto l’occasione per colmare una lacuna normativa che ormai si trascina da decenni, con riguardo ai casi in cui entrambe le autorità (quella amministrativa, alla quale compete il potere di disporre la l.c.a., e quella giurisdizionale, cui spetta il potere di dichiarare il fallimento) ritengano di non essere competenti a provvedere, ovvero si dichiarino entrambe competenti ad attivare il rispettivo procedimento. Nella prima ipotesi, si ha un caso di conflitto negativo, pertanto la proposizione del ricorso per cassazione di cui all’art. 363, n. 2), c.p.c., risolverebbe la questione. Nella seconda ipotesi (conflitto positivo), l’autorità amministrativa potrebbe sollevare la questione di giurisdizione ex art. 368 c.p.c. Infine, nel caso di erronea declaratoria fallimentare di un’impresa sottoponibile in via esclusiva a liquidazione coatta, autorevole dottrina ha asserito che la conversione in liquidazione coatta possa essere effettuata soltanto qualora la legge espressamente lo preveda. Nell’ipotesi inversa, sarà invece sufficiente che l’autorità emanante il decreto di apertura della liquidazione lo revochi, anche dopo la trasmissione di copia autentica della sentenza dichiarativa ad opera del curatore.

COMMENTO AGLI ARTT. 196-197 L.FALL.

LATELLA, Dario
2007-01-01

Abstract

Le norme in commento non hanno subito modifiche. L’art. 196 fa riferimento alle ipotesi di concorso (ma sarebbe meglio dire di «conflitto») fra l.c.a. e fallimento. Si tratta delle fattispecie in cui la legge prevede che determinate imprese possano essere assoggettate ad entrambe le procedure, di guisa che, in presenza dei presupposti per l’apertura del fallimento (impresa commerciale insolvente e di «dimensioni» non piccole ai fini fallimentari) si pone il problema di stabilire quale procedura applicare. Si pensi al caso dei consorzi di cooperative (r.d. 1554/1926); alle s.p.a. ed alle s.a.p.a. debitrici dello Stato e garantite dallo stesso, che siano obbligate per un importo superiore al quadruplo del capitale sociale (r.d. 2/1935); alle cooperative esercenti attività commerciale (art. 2545 terdecies c.c.); oltre alle società in cui l’IRI partecipava per più del 50 per cento del capitale (r.d. 859/1933). In questa sede, non si esamineranno i rapporti tra l’art. 2 e l’art. 196, essendo già stati altrove trattati1. Si dedicherà maggiore attenzione, pertanto, all’esame del criterio elaborato sin dal 1942 per la risoluzione delle ipotesi di conflitto, peraltro espressamente recepito dall’art. 2545 terdecies, 3° co., c.c., con riferimento alle cooperative esercenti attività commerciale. Il legislatore ha stabilito la incompatibilità fra le due procedure, prevedendo che l’apertura di una fra le due, ugualmente possibili, precluda l’altra. Si tratta della c.d. litispendenza esecutiva fra procedimenti di natura giuspubblicistica, non importa se propriamente giudiziari ovvero di carattere amministrativo. Il riformatore non ha però colto l’occasione per colmare una lacuna normativa che ormai si trascina da decenni, con riguardo ai casi in cui entrambe le autorità (quella amministrativa, alla quale compete il potere di disporre la l.c.a., e quella giurisdizionale, cui spetta il potere di dichiarare il fallimento) ritengano di non essere competenti a provvedere, ovvero si dichiarino entrambe competenti ad attivare il rispettivo procedimento. Nella prima ipotesi, si ha un caso di conflitto negativo, pertanto la proposizione del ricorso per cassazione di cui all’art. 363, n. 2), c.p.c., risolverebbe la questione. Nella seconda ipotesi (conflitto positivo), l’autorità amministrativa potrebbe sollevare la questione di giurisdizione ex art. 368 c.p.c. Infine, nel caso di erronea declaratoria fallimentare di un’impresa sottoponibile in via esclusiva a liquidazione coatta, autorevole dottrina ha asserito che la conversione in liquidazione coatta possa essere effettuata soltanto qualora la legge espressamente lo preveda. Nell’ipotesi inversa, sarà invece sufficiente che l’autorità emanante il decreto di apertura della liquidazione lo revochi, anche dopo la trasmissione di copia autentica della sentenza dichiarativa ad opera del curatore.
2007
9788808201201
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