Il tema di questo intervento, stimolato dall’importante e multiforme studio sulle Zecche del nostro Paese e sulla loro valenza in una prospettiva “unitaria”, edito nel 2011 dall’Istituto Poligrafico di Stato, si collega ad un’indagine politica e socio-economica sul regno meridionale che, ormai da decenni, è oggetto di fecondo dibattito da parte di storici, economisti e storici del diritto. Prima di entrare nel merito della questione, è parso opportuno ripercorre in estrema sintesi alcune tappe indicative che hanno segnato, pur attraverso vuoti secolari, il percorso millenario della Zecca di Messina sino all’epoca esaminata, soffermandosi soprattutto a delineare l’età normanno-sveva e gli anni particolarmente densi a cavallo tra la dominazione angioina e quella aragonese. Sotto il regno di Carlo I d’Angiò si realizzarono le trasformazioni più profonde legate all’attività della Zecca zanclea, le quali incisero profondamente, non tanto sotto il profilo strettamente numismatico ed iconografico, dove semmai si coglie una continuità che assimilando univa, quanto piuttosto sotto l’aspetto dell’evoluzione sociale, attraverso particolari dinamiche, destinate a modificare profondamente gli equilibri interni alla civitas e, nel lungo termine, ad assegnare un nuovo assetto unitario alla struttura socio-economica del regno ed alla sua dimensione culturale. Alla politica cittadina di Carlo d’Angiò si collegano particolari dinamiche, che portarono al consolida-mento del ceto media¬no ed alla promozione sociale di una casta composita di imprenditori peninsulari, burgenses e iurisperiti legati pro¬fessionalmente ai meliores cives e ad essi vicini per censo e cultu¬ra. Si costituì così, nella città del Faro, una potente élite loca¬le che rappresentò una novità per un centro urbano del Mezzogiorno d’Italia, con l’ascesa di un’oligarchia guidata da intrapren¬denti mercanti-burocrati (i cosiddetti Amalfitani), cioè da fa¬miglie rapidamente arricchite attraverso i traffici commerciali e la gestione in gabella di molti uffici pubblici, primi fra tutti quelli della secrezia, della portolania e -appunto- della zecca. In definitiva, le attività e le complesse vicende collegate alla Zecca di Messina, deputata al conio di monete che avrebbero dovuto esaltare la centralità della monarchia e farsi garante della sua inalienabilità, furono paradossalmente all’origine di una trasformazione sociale profonda, destinata a fissare nuovi equilibri istituzionali, a scardinare i tradizionali rapporti di potere tra sovrano e sudditi ed a fissare nuovi modelli culturali fortemente identitari, cui si sarebbe fatto riferimento per l’intera età aragonese.

La Zecca di Messina e i suoi operatori in età angioina.

Luciano Catalioto
2017-01-01

Abstract

Il tema di questo intervento, stimolato dall’importante e multiforme studio sulle Zecche del nostro Paese e sulla loro valenza in una prospettiva “unitaria”, edito nel 2011 dall’Istituto Poligrafico di Stato, si collega ad un’indagine politica e socio-economica sul regno meridionale che, ormai da decenni, è oggetto di fecondo dibattito da parte di storici, economisti e storici del diritto. Prima di entrare nel merito della questione, è parso opportuno ripercorre in estrema sintesi alcune tappe indicative che hanno segnato, pur attraverso vuoti secolari, il percorso millenario della Zecca di Messina sino all’epoca esaminata, soffermandosi soprattutto a delineare l’età normanno-sveva e gli anni particolarmente densi a cavallo tra la dominazione angioina e quella aragonese. Sotto il regno di Carlo I d’Angiò si realizzarono le trasformazioni più profonde legate all’attività della Zecca zanclea, le quali incisero profondamente, non tanto sotto il profilo strettamente numismatico ed iconografico, dove semmai si coglie una continuità che assimilando univa, quanto piuttosto sotto l’aspetto dell’evoluzione sociale, attraverso particolari dinamiche, destinate a modificare profondamente gli equilibri interni alla civitas e, nel lungo termine, ad assegnare un nuovo assetto unitario alla struttura socio-economica del regno ed alla sua dimensione culturale. Alla politica cittadina di Carlo d’Angiò si collegano particolari dinamiche, che portarono al consolida-mento del ceto media¬no ed alla promozione sociale di una casta composita di imprenditori peninsulari, burgenses e iurisperiti legati pro¬fessionalmente ai meliores cives e ad essi vicini per censo e cultu¬ra. Si costituì così, nella città del Faro, una potente élite loca¬le che rappresentò una novità per un centro urbano del Mezzogiorno d’Italia, con l’ascesa di un’oligarchia guidata da intrapren¬denti mercanti-burocrati (i cosiddetti Amalfitani), cioè da fa¬miglie rapidamente arricchite attraverso i traffici commerciali e la gestione in gabella di molti uffici pubblici, primi fra tutti quelli della secrezia, della portolania e -appunto- della zecca. In definitiva, le attività e le complesse vicende collegate alla Zecca di Messina, deputata al conio di monete che avrebbero dovuto esaltare la centralità della monarchia e farsi garante della sua inalienabilità, furono paradossalmente all’origine di una trasformazione sociale profonda, destinata a fissare nuovi equilibri istituzionali, a scardinare i tradizionali rapporti di potere tra sovrano e sudditi ed a fissare nuovi modelli culturali fortemente identitari, cui si sarebbe fatto riferimento per l’intera età aragonese.
2017
9788867173457
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