I media, dall’avvento della modernità, hanno rivestito un ruolo centrale nei meccanismi di costruzione sociale della realtà e di formazione del senso comune. Sotto questo profilo, la loro dimensione istituzionale ha finito con l’essere determinante nei processi di significazione di concetti e situazioni complesse come, ad esempio, la cultura mafiosa. La stereotipizzazione permette di ricondurre storie e personaggi a strutture narrative facilmente fruibili, in cui però si perdono le sfumature e nelle quali i meccanismi sincretici rischiano di deformare i contenuti originari. Si pensi, per citare uno tra i casi più noti, a Il Padrino – uno dei contenuti dedicati al tema della mafia maggiormente diffusi a livello mondiale – in cui la figura del capofamiglia rischiava di assumere toni quasi macchiettistici. Anche nell’era del digitale, i media mainstream continuano in parte a proporre logiche tipiche dell’industria culturale della seconda metà del Novecento e, quindi, a replicare determinati meccanismi interpretativi, sfruttando generi (la fiction, ad esempio) che stanno resistendo alla sfida del web. Nel racconto della mafia, delle storie di mafia tali logiche sembrano funzionare particolarmente e le alternative di carattere innovativo sono poche. Si resta ancorati, quindi, a canovacci tradizionali, in cui la figura del cattivo a volte finisce addirittura con il passare in primo piano rispetto a quella di chi offre il proprio sacrificio per combattere la mafia. Anche nel racconto di vicende le quali sono ormai divenute verità storiche, appare quasi inevitabile per i media il ricorso a elementi standardizzati (la storia d’amore, le scene d’azione, ecc.). Partendo da questi presupposti, il contributo intende prendere in esame alcune proposte originali, come ad esempio i film “La mafia uccide solo d’estate”, “Placido Rizzotto” e “I cento passi” per comprendere se essi possono rappresentare un superamento degli abituali cliché e, allo stesso tempo, segnare una svolta culturale che porti a una strada utile per le rappresentazioni di fenomeni complessi da destinare, in particolare, a pubblici “deboli” come quello costituito dai minori.
La rappresentazione mediale delle storie di mafia nell’ottica dell’industria culturale
centorrino marco
2020-01-01
Abstract
I media, dall’avvento della modernità, hanno rivestito un ruolo centrale nei meccanismi di costruzione sociale della realtà e di formazione del senso comune. Sotto questo profilo, la loro dimensione istituzionale ha finito con l’essere determinante nei processi di significazione di concetti e situazioni complesse come, ad esempio, la cultura mafiosa. La stereotipizzazione permette di ricondurre storie e personaggi a strutture narrative facilmente fruibili, in cui però si perdono le sfumature e nelle quali i meccanismi sincretici rischiano di deformare i contenuti originari. Si pensi, per citare uno tra i casi più noti, a Il Padrino – uno dei contenuti dedicati al tema della mafia maggiormente diffusi a livello mondiale – in cui la figura del capofamiglia rischiava di assumere toni quasi macchiettistici. Anche nell’era del digitale, i media mainstream continuano in parte a proporre logiche tipiche dell’industria culturale della seconda metà del Novecento e, quindi, a replicare determinati meccanismi interpretativi, sfruttando generi (la fiction, ad esempio) che stanno resistendo alla sfida del web. Nel racconto della mafia, delle storie di mafia tali logiche sembrano funzionare particolarmente e le alternative di carattere innovativo sono poche. Si resta ancorati, quindi, a canovacci tradizionali, in cui la figura del cattivo a volte finisce addirittura con il passare in primo piano rispetto a quella di chi offre il proprio sacrificio per combattere la mafia. Anche nel racconto di vicende le quali sono ormai divenute verità storiche, appare quasi inevitabile per i media il ricorso a elementi standardizzati (la storia d’amore, le scene d’azione, ecc.). Partendo da questi presupposti, il contributo intende prendere in esame alcune proposte originali, come ad esempio i film “La mafia uccide solo d’estate”, “Placido Rizzotto” e “I cento passi” per comprendere se essi possono rappresentare un superamento degli abituali cliché e, allo stesso tempo, segnare una svolta culturale che porti a una strada utile per le rappresentazioni di fenomeni complessi da destinare, in particolare, a pubblici “deboli” come quello costituito dai minori.Pubblicazioni consigliate
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