Decenni di studi di filosofia del linguaggio e di dibattiti sulla questione dell’indeterminatezza quineana hanno portato alla conclusione che, nonostante la grande variabilità delle lingue storico-naturali, deve pur esserci qualcosa di universale nella facoltà del linguaggio che ci consenta di passare da una lingua ad un’altra attraverso le traduzioni. Se così non fosse, ovvero se non ci fossero strutture costanti ed universali, allora quella della traduzione sarebbe davvero un’impresa impossibile ed ogni popolo con la sua lingua rimarrebbe chiuso nel proprio microcosmo. Addirittura, portando alle estreme conseguenze l’ipotesi del relativismo e del determinismo linguistico alla Whorf, ogni popolo avrebbe letteralmente un’immagine del mondo diversa da quella di popoli parlanti idiomi differenti. Sarebbe, insomma, negata di principio la possibilità di capirsi perché ciascuno disporrebbe di modalità di rappresentazione del mondo diverse. Tradurre da una lingua ad un’altra senza presupporre elementi universali ed invariabili sarebbe come voler tradurre in italiano l’abbaiare di un cane. C’è poi un’altra questione importante che è stata gettata sul tappeto da filosofi e linguisti di tradizione chomskiana: che cosa consente ad un bambino alle prese con il compito di acquisizione della prima lingua di estrapolare dagli stimoli linguistici cui è sottoposto le giuste regole grammaticali e di generalizzare l’uso dei nomi in modo corretto? Noto come argomento della povertà dello stimolo, questo ragionamento punta il dito sul fatto che un bambino nei primi mesi di vita si trova davvero nella posizione del linguista di Quine. Che cosa gli consente di capire a cosa si riferisca la mamma quando gli indica un coniglietto e accompagna il gesto con la parola italiana “coniglio”? La soluzione a questo problema avanzata all’interno della scuola chomskiana ci propone l’idea del linguaggio quale modulo cognitivo, appunto, innato ed autonomo rispetto al resto della nostra cognitività. La proposta che avanzeremo in questa sede è un po’ diversa. Il linguaggio si è evoluto in un organismo che disponeva già di alcuni sistemi cognitivi quali quello visivo o del controllo sensori-motorio. Riteniamo che la struttura e le categorie del nostro linguaggio siano vincolate a queste capacità e che se queste ultime fossero ipoteticamente state diverse, allora diverse sarebbero state le categorie e la struttura del linguaggio. Questa ipotesi di carattere generale sul vincolo cognitivo cui la facoltà del linguaggio sarebbe sottoposta sarà argomentata facendo ricorso all’analisi di un caso particolare: quello della rappresentazione dello spazio. Se quanto detto sopra è vero, allora le modalità di espressione linguistica dello spazio dovrebbero essere vincolate alle modalità non-linguistiche di rappresentazione dello spazio.
Titolo: | La rappresentazione dello spazio e la sua espressione linguistica: l’invarianza nella variabilità |
Autori: | CUCCIO, Valentina (Primo) |
Data di pubblicazione: | 2010 |
Abstract: | Decenni di studi di filosofia del linguaggio e di dibattiti sulla questione dell’indeterminatezza quineana hanno portato alla conclusione che, nonostante la grande variabilità delle lingue storico-naturali, deve pur esserci qualcosa di universale nella facoltà del linguaggio che ci consenta di passare da una lingua ad un’altra attraverso le traduzioni. Se così non fosse, ovvero se non ci fossero strutture costanti ed universali, allora quella della traduzione sarebbe davvero un’impresa impossibile ed ogni popolo con la sua lingua rimarrebbe chiuso nel proprio microcosmo. Addirittura, portando alle estreme conseguenze l’ipotesi del relativismo e del determinismo linguistico alla Whorf, ogni popolo avrebbe letteralmente un’immagine del mondo diversa da quella di popoli parlanti idiomi differenti. Sarebbe, insomma, negata di principio la possibilità di capirsi perché ciascuno disporrebbe di modalità di rappresentazione del mondo diverse. Tradurre da una lingua ad un’altra senza presupporre elementi universali ed invariabili sarebbe come voler tradurre in italiano l’abbaiare di un cane. C’è poi un’altra questione importante che è stata gettata sul tappeto da filosofi e linguisti di tradizione chomskiana: che cosa consente ad un bambino alle prese con il compito di acquisizione della prima lingua di estrapolare dagli stimoli linguistici cui è sottoposto le giuste regole grammaticali e di generalizzare l’uso dei nomi in modo corretto? Noto come argomento della povertà dello stimolo, questo ragionamento punta il dito sul fatto che un bambino nei primi mesi di vita si trova davvero nella posizione del linguista di Quine. Che cosa gli consente di capire a cosa si riferisca la mamma quando gli indica un coniglietto e accompagna il gesto con la parola italiana “coniglio”? La soluzione a questo problema avanzata all’interno della scuola chomskiana ci propone l’idea del linguaggio quale modulo cognitivo, appunto, innato ed autonomo rispetto al resto della nostra cognitività. La proposta che avanzeremo in questa sede è un po’ diversa. Il linguaggio si è evoluto in un organismo che disponeva già di alcuni sistemi cognitivi quali quello visivo o del controllo sensori-motorio. Riteniamo che la struttura e le categorie del nostro linguaggio siano vincolate a queste capacità e che se queste ultime fossero ipoteticamente state diverse, allora diverse sarebbero state le categorie e la struttura del linguaggio. Questa ipotesi di carattere generale sul vincolo cognitivo cui la facoltà del linguaggio sarebbe sottoposta sarà argomentata facendo ricorso all’analisi di un caso particolare: quello della rappresentazione dello spazio. Se quanto detto sopra è vero, allora le modalità di espressione linguistica dello spazio dovrebbero essere vincolate alle modalità non-linguistiche di rappresentazione dello spazio. |
Handle: | http://hdl.handle.net/11570/3151261 |
ISBN: | 978-88-548-3384-5 |
Appare nelle tipologie: | 14.b.1 Contributo in volume (Capitolo o Saggio) |