Ágnes Heller, la filosofa ed intellettuale ebrea ungherese, dal doloroso allontanamento dalla amata Ungheria sino agli ultimi istanti della sua vita si è sempre interessata alla “questione Europa”. La sua è stata l’accorata testimonianza di fedeltà alle “ragioni dell’Unione” e della solidarietà fra i popoli, come la critica senza riserve contro il sorgere di nuovi fanatismi e irrazionalismi. Una presa di coraggio, un atto di accusa senza tentennamenti, anche in nome di quella umanità che si era opposta, unendosi con tenacia e con forza, al suo presente di morte e di violenza alla fine della Seconda guerra mondiale, alla ricerca di un futuro meno fosco e ricco di promesse di pace e di collaborazione, come quelle sorte quando i carri armanti sovietici erano entrati nel campo di concentramento di Auschwitz scoprendo gli orrori della Shoah e liberando i sopravvissuti. O come quando la caduta del muro di Berlino del 1989, aveva finalmente segnato la fine della cortina di ferro e dell’impero sovietico. Fatti fra loro diversi, ma che hanno segnato la vita della filosofa ungherese e che hanno rappresentato la liberazione dalla follia nazista, nel primo caso, e la fine di una tirannia, nel secondo caso. E che hanno contribuito ad evocare nelle ricostruzioni e negli interventi della filosofa la possibilità per l’Europa di essere una terra di solidarietà fra i popoli e le culture nel rispetto della universalità dei diritti come del profugo di guerra e del migrante. Perché solo narrando storie di integrazioni riuscite e felici si potrà costruire una identità europea credibile per ogni suo cittadino.

Ágnes Heller e il “paradosso Europa”: fra identità, memoria e immaginazione

G. Costanzo
2019-01-01

Abstract

Ágnes Heller, la filosofa ed intellettuale ebrea ungherese, dal doloroso allontanamento dalla amata Ungheria sino agli ultimi istanti della sua vita si è sempre interessata alla “questione Europa”. La sua è stata l’accorata testimonianza di fedeltà alle “ragioni dell’Unione” e della solidarietà fra i popoli, come la critica senza riserve contro il sorgere di nuovi fanatismi e irrazionalismi. Una presa di coraggio, un atto di accusa senza tentennamenti, anche in nome di quella umanità che si era opposta, unendosi con tenacia e con forza, al suo presente di morte e di violenza alla fine della Seconda guerra mondiale, alla ricerca di un futuro meno fosco e ricco di promesse di pace e di collaborazione, come quelle sorte quando i carri armanti sovietici erano entrati nel campo di concentramento di Auschwitz scoprendo gli orrori della Shoah e liberando i sopravvissuti. O come quando la caduta del muro di Berlino del 1989, aveva finalmente segnato la fine della cortina di ferro e dell’impero sovietico. Fatti fra loro diversi, ma che hanno segnato la vita della filosofa ungherese e che hanno rappresentato la liberazione dalla follia nazista, nel primo caso, e la fine di una tirannia, nel secondo caso. E che hanno contribuito ad evocare nelle ricostruzioni e negli interventi della filosofa la possibilità per l’Europa di essere una terra di solidarietà fra i popoli e le culture nel rispetto della universalità dei diritti come del profugo di guerra e del migrante. Perché solo narrando storie di integrazioni riuscite e felici si potrà costruire una identità europea credibile per ogni suo cittadino.
2019
978-88-255-3191-6
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