Il presente lavoro è volto ad approfondire il tema della libertà religiosa e della discriminazione di genere nei rapporti di lavoro. Viene dapprima esaminata la tutela antidiscriminatoria, quale terreno classico di incidenza del diritto europeo, rispetto al quale il diritto interno nutre ineludibili obblighi di adeguamento. L’ Autrice evidenzia come, rispetto alla libertà religiosa, la ricerca di un equilibrio tra principio di non discriminazione e libertà di impresa costituisce da diversi anni un significativo banco di prova. L’opera di bilanciamento, che ha interessato tutti i fattori di svantaggio presi in considerazione dalle direttive comunitarie, si è mostrata particolarmente complessa proprio nelle questioni in materia di credo religioso e convinzioni personali. Viene poi affrontato l’approccio alla tematica da parte dell’ordinamento giuridico italiano, che non si limita a proteggere le varie confessioni in maniera generale e indiscriminata, ma tende ad esaltarne le differenze e le peculiarità. Si guarda al contesto giuslavoristico, laddove il datore di lavoro, seppur soggetto privato, è chiamato a prestare attenzione affinché lo svolgimento del rapporto non tenda ad infirmare la libertà religiosa. I principali riflessi sul contratto di lavoro del fattore religioso attengono sia a questioni di carattere meramente organizzativo che alla potenziale discriminatorietà di eventuali provvedimenti comminati dal datore. Viene esaminato tutto il dibattito che attiene al diritto di esprimere la propria appartenenza per mezzo di simboli religiosi sul luogo di lavoro e, per converso, la possibilità o meno per il datore di inibire l’utilizzo di tali segni distintivi. L’indagine viene condotta in un’ottica di bilanciamento tra le esigenze datoriali e la tutela della libertà religiosa del lavoratore. Si è dato conto di una serie di pronunce della Corte di Giustizia Europea, che hanno riguardato principalmente i confini dell’esercizio della libertà d’iniziativa economica del datore di lavoro, sia in fase di selezione che nel corso dello svolgimento del rapporto. Nelle vicende processuali esaminate è emerso un dato inconfutabile ossia che gli episodi più discriminanti riguardano il genere femminile, spesso di religione musulmana e pertanto “condizionato” dalla presenza del velo. Tali episodi, spesso inquadrati e trattati come discriminazioni religiose, si estrinsecano in molte circostanze come un’intersezione tra discriminazione religiosa e di genere. Si sostiene pertanto che specialmente nei luoghi di lavoro, diventa indispensabile partire da un presupposto inderogabile. Affinché il trattamento di manifestare esteriormente l’appartenenza ad un determinato credo sia giustificato, e quindi costituisca un obiettivo legittimamente perseguibile nell’esercizio dell’attività d’impresa, occorre che la restrizione sia applicata in modo “oggettivo”, coerente e sistematico, coinvolgendo soltanto i dipendenti che hanno rapporti diretti con il pubblico, sempre che non sia possibile ricollocare questi ultimi su altre posizioni lavorative che non implichino un contatto visivo, senza costi aggiuntivi per l’impresa. La libertà religiosa va promossa e orientata verso uno sviluppo sostenibile dei luoghi di lavoro. Non a caso, l’obiettivo 5 dell’Agenda ONU promuove l’uguaglianza di genere e l’obiettivo 8 auspica un lavoro dignitoso per tutti. In ogni caso la libertà religiosa, quale bisogno fondamentale degli individui, assume un ruolo determinante nelle dinamiche di transizione dei mercati delle moderne società interculturali e rientra a pieno titolo nel dibattito internazionale dello sviluppo sostenibile, quale fattore capacitante e idoneo a promuovere il pluralismo culturale.

Libertà religiosa e discriminazione di genere nei rapporti di lavoro. Quale sostenibilità ?

A. MARCIANO'
2022-01-01

Abstract

Il presente lavoro è volto ad approfondire il tema della libertà religiosa e della discriminazione di genere nei rapporti di lavoro. Viene dapprima esaminata la tutela antidiscriminatoria, quale terreno classico di incidenza del diritto europeo, rispetto al quale il diritto interno nutre ineludibili obblighi di adeguamento. L’ Autrice evidenzia come, rispetto alla libertà religiosa, la ricerca di un equilibrio tra principio di non discriminazione e libertà di impresa costituisce da diversi anni un significativo banco di prova. L’opera di bilanciamento, che ha interessato tutti i fattori di svantaggio presi in considerazione dalle direttive comunitarie, si è mostrata particolarmente complessa proprio nelle questioni in materia di credo religioso e convinzioni personali. Viene poi affrontato l’approccio alla tematica da parte dell’ordinamento giuridico italiano, che non si limita a proteggere le varie confessioni in maniera generale e indiscriminata, ma tende ad esaltarne le differenze e le peculiarità. Si guarda al contesto giuslavoristico, laddove il datore di lavoro, seppur soggetto privato, è chiamato a prestare attenzione affinché lo svolgimento del rapporto non tenda ad infirmare la libertà religiosa. I principali riflessi sul contratto di lavoro del fattore religioso attengono sia a questioni di carattere meramente organizzativo che alla potenziale discriminatorietà di eventuali provvedimenti comminati dal datore. Viene esaminato tutto il dibattito che attiene al diritto di esprimere la propria appartenenza per mezzo di simboli religiosi sul luogo di lavoro e, per converso, la possibilità o meno per il datore di inibire l’utilizzo di tali segni distintivi. L’indagine viene condotta in un’ottica di bilanciamento tra le esigenze datoriali e la tutela della libertà religiosa del lavoratore. Si è dato conto di una serie di pronunce della Corte di Giustizia Europea, che hanno riguardato principalmente i confini dell’esercizio della libertà d’iniziativa economica del datore di lavoro, sia in fase di selezione che nel corso dello svolgimento del rapporto. Nelle vicende processuali esaminate è emerso un dato inconfutabile ossia che gli episodi più discriminanti riguardano il genere femminile, spesso di religione musulmana e pertanto “condizionato” dalla presenza del velo. Tali episodi, spesso inquadrati e trattati come discriminazioni religiose, si estrinsecano in molte circostanze come un’intersezione tra discriminazione religiosa e di genere. Si sostiene pertanto che specialmente nei luoghi di lavoro, diventa indispensabile partire da un presupposto inderogabile. Affinché il trattamento di manifestare esteriormente l’appartenenza ad un determinato credo sia giustificato, e quindi costituisca un obiettivo legittimamente perseguibile nell’esercizio dell’attività d’impresa, occorre che la restrizione sia applicata in modo “oggettivo”, coerente e sistematico, coinvolgendo soltanto i dipendenti che hanno rapporti diretti con il pubblico, sempre che non sia possibile ricollocare questi ultimi su altre posizioni lavorative che non implichino un contatto visivo, senza costi aggiuntivi per l’impresa. La libertà religiosa va promossa e orientata verso uno sviluppo sostenibile dei luoghi di lavoro. Non a caso, l’obiettivo 5 dell’Agenda ONU promuove l’uguaglianza di genere e l’obiettivo 8 auspica un lavoro dignitoso per tutti. In ogni caso la libertà religiosa, quale bisogno fondamentale degli individui, assume un ruolo determinante nelle dinamiche di transizione dei mercati delle moderne società interculturali e rientra a pieno titolo nel dibattito internazionale dello sviluppo sostenibile, quale fattore capacitante e idoneo a promuovere il pluralismo culturale.
2022
978-88-495-5234-8
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