I primi testi comici per musica (o commedeje pe’ mmuseca, poi opere buffe) fioriscono a Napoli agli inizi del XVIII secolo, perlopiù in dialetto napoletano ma quasi sempre con parti anche in italiano e talora in altri dialetti, coniugando elementi del teatro comico di parola, del dramma per musica, della commedia dell’arte e anticipando, anche per influenze francesi, fermenti del teatro borghese e di mezzo carattere. Il genere, destinato a enorme fortuna europea, riscrive i concetti stessi di testo scenico, opera lirica e il rapporto tra autori e pubblico, nonché segna la nascita, prima ancora delle commedie goldoniane (esplicitamente debitrici agli esempi napoletani), del parlato recitato nostrano. Il corpus dei 69 libretti digitalizzati dal Centro di Musica antica (www.operabuffaturchini.it) è una vera miniera, in parte inesplorata (cfr. peraltro Rossi 2021, Cotticelli/Maione 2009 e altri), di neologismi, tecnicismi, colloquialismi che consentono di retrodatare, talora di oltre un secolo, le correnti attestazioni dei dizionari. Di particolare rilievo sono le prefazioni al lettore di tali libretti e anche alcune considerazioni metalinguistiche nelle battute dei personaggi. Di questi testi (e anche di taluni libretti coevi fuori corpus) si occuperà il presente contributo, con particolare accento sulla consapevolezza, da parte degli autori, di un nuovo parlato scenico. Tra le prime, spiccano le esaltazioni del napoletano come lingua della naturalezza e della verisimiglianza teatrale, rispetto al toscano, lingua della letteratura e degli inganni: «cierte bote è meglio a sentì quatto chiacchiere de n’aggrazejato pecciottolo [giovanotto grazioso], che cientemila sentenzeje de no gruosso letterummeco [letterato in senso spreg.]» (Li zite ’n galera, 1722, di A. Belmudes, sotto lo pseudonimo di B. Saddùmene, musica di L. Vinci). D’altro canto l’italiano necessita, ancor più del dialetto, d’esser giustificato in quest’ambito; perciò la prima commedia in italiano (Il gemino amore, 1718, di F. A. Tullio, sotto lo pseudonimo di Col’Antonio Ferlantisco, musica di A. Orefice) rivendica l’uso dell’«idioma Toscano, non già» riferito ad «azioni eroiche, e Regali, ma [a] successi domestici, e familiari, ne’ quali, fra i Personaggi sodi, e ridicoli, si spera, che riesca egualmente piacevole, e la sodezza, e la lepidezza». Esilaranti sono le scene in cui i personaggi napoletani fanno il verso ai toscani, stigmatizzandone i tratti linguistici, come in L’Odoardo, del citato Saddùmene, 1738, III 14 (mi scuseggi, me ne dilletto un quanco), oppure nel Baron della Trocciola, di T. Mariani, 1736. Nella Maestra, di A, Palomba, 1747, II 4, Drusilla «insegn[a] a favellare con la Crusca», con scarsi risultati su Pistone, che così fraintende e deforma: «ajeri io mi mangiò / un minestra di caoli», «a me mi piacerebbemi», «le darebbimo / un carrozzo» ecc. La sconsolata maestra prova invano a correggere «la grammatica», la «discordanza in genere», la «cacafunia», il «mal suono», rassegnandosi alla fine ad ammettere che l’allievo «infastell[a] più spropositi / che parole».

Teatro musicale e variazione linguistica: parlato recitato e metalinguaggio nei libretti napoletani di primo Settecento

Rossi, Fabio
2024-01-01

Abstract

I primi testi comici per musica (o commedeje pe’ mmuseca, poi opere buffe) fioriscono a Napoli agli inizi del XVIII secolo, perlopiù in dialetto napoletano ma quasi sempre con parti anche in italiano e talora in altri dialetti, coniugando elementi del teatro comico di parola, del dramma per musica, della commedia dell’arte e anticipando, anche per influenze francesi, fermenti del teatro borghese e di mezzo carattere. Il genere, destinato a enorme fortuna europea, riscrive i concetti stessi di testo scenico, opera lirica e il rapporto tra autori e pubblico, nonché segna la nascita, prima ancora delle commedie goldoniane (esplicitamente debitrici agli esempi napoletani), del parlato recitato nostrano. Il corpus dei 69 libretti digitalizzati dal Centro di Musica antica (www.operabuffaturchini.it) è una vera miniera, in parte inesplorata (cfr. peraltro Rossi 2021, Cotticelli/Maione 2009 e altri), di neologismi, tecnicismi, colloquialismi che consentono di retrodatare, talora di oltre un secolo, le correnti attestazioni dei dizionari. Di particolare rilievo sono le prefazioni al lettore di tali libretti e anche alcune considerazioni metalinguistiche nelle battute dei personaggi. Di questi testi (e anche di taluni libretti coevi fuori corpus) si occuperà il presente contributo, con particolare accento sulla consapevolezza, da parte degli autori, di un nuovo parlato scenico. Tra le prime, spiccano le esaltazioni del napoletano come lingua della naturalezza e della verisimiglianza teatrale, rispetto al toscano, lingua della letteratura e degli inganni: «cierte bote è meglio a sentì quatto chiacchiere de n’aggrazejato pecciottolo [giovanotto grazioso], che cientemila sentenzeje de no gruosso letterummeco [letterato in senso spreg.]» (Li zite ’n galera, 1722, di A. Belmudes, sotto lo pseudonimo di B. Saddùmene, musica di L. Vinci). D’altro canto l’italiano necessita, ancor più del dialetto, d’esser giustificato in quest’ambito; perciò la prima commedia in italiano (Il gemino amore, 1718, di F. A. Tullio, sotto lo pseudonimo di Col’Antonio Ferlantisco, musica di A. Orefice) rivendica l’uso dell’«idioma Toscano, non già» riferito ad «azioni eroiche, e Regali, ma [a] successi domestici, e familiari, ne’ quali, fra i Personaggi sodi, e ridicoli, si spera, che riesca egualmente piacevole, e la sodezza, e la lepidezza». Esilaranti sono le scene in cui i personaggi napoletani fanno il verso ai toscani, stigmatizzandone i tratti linguistici, come in L’Odoardo, del citato Saddùmene, 1738, III 14 (mi scuseggi, me ne dilletto un quanco), oppure nel Baron della Trocciola, di T. Mariani, 1736. Nella Maestra, di A, Palomba, 1747, II 4, Drusilla «insegn[a] a favellare con la Crusca», con scarsi risultati su Pistone, che così fraintende e deforma: «ajeri io mi mangiò / un minestra di caoli», «a me mi piacerebbemi», «le darebbimo / un carrozzo» ecc. La sconsolata maestra prova invano a correggere «la grammatica», la «discordanza in genere», la «cacafunia», il «mal suono», rassegnandosi alla fine ad ammettere che l’allievo «infastell[a] più spropositi / che parole».
2024
979-12-5496-143-8
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