New York, 11 settembre 2001: l’indimenticabile crollo delle Twin Towers ha costituito un vulnus al cuore della democrazia americana, un sisma destinato a scuotere l’ordine planetario. Un evento che, nel presente contributo, J. Derrida aiuterà a rileggere: inanticipabile, improvviso, esso ha interrotto la pretesa continuità della storia, introducendovi la minaccia di un Nemico invisibile. Il messaggio simbolico dell’11 settembre è racchiuso nella caduta di entrambe le torri: i tratti del carnefice non sono più distinguibili da quelli delle vittime nella fossa comune del Ground Zero, né quelli dell’amico dal nemico. Resti umani indifferenti rievocano l’incubo di una violenza indifferenziata, pronta a riemergere quando le difese “immunitarie” dell’ordinamento statale entrano in crisi: il dispositivo politico moderno di protezione dalla violenza, volto ad espellere il nemico all’esterno, si è capovolto in terrorismo auto-immunitario. La sovranità dello Stato – e con essa l’integrità della democrazia – è stata messa in questione. Ma l’auto-immunità è solo un processo autodistruttivo? O in modo complementare – e tuttavia inscindibile – si può pensare un paradigma auto-immunitario che riesca persino a proteggere il politico, immunizzandolo dall’eccessiva immunità, la cui violenza estrema ha dato effetti devastanti nei suoi esiti totalitari? È su quanto l’intervento propone di riflettere in dialogo con J. Derrida. Se c’è un interrogativo che domina il percorso più direttamente politico del filosofo franco-maghrebino – a partire da Spettri di Marx (1994) sino ai seminari tenuti presso l’EHESS di Parigi dal titolo La Bestia e il Sovrano (2001-2003), per costituire infine il motore simbolico di Stati Canaglia (2003) – è proprio la sovranità nel suo legame strutturale con la logica auto-immunitaria della vita. Come il vivente, anche la comunità politica difende la propria vita rivolgendo i propri anticorpi a favore e contro se stessa, esponendosi al rischio dell’autodistruzione pur di sopravvivere. In modo quasi suicida, essa distrugge le proprie barriere per scoprire che solo l’apertura a ciò che minaccia la sua sicurezza le permette, paradossalmente, una chance di salvezza. La democrazia contemporanea ne costituisce un esempio paradigmatico: essa vincola la tensione verso un’auto-immunità “distruttiva” – come gli eventi dell’11 settembre hanno messo in scena – alla possibilità (forse impossibile) di un’auto-immunità “costruttiva”, intesa come istanza decostruente che, minacciando mortalmente ogni assetto stabile, ospita l’estraneo – partorisce il proprio nemico – e, con esso, si apre alla promessa dell’Av-venire. La fragilità e, al contempo, il diritto all’autocritica che caratterizzano il regime democratico costituiscono il terreno di un’autoimmunità costitutiva che ¬– secondo il pensiero derridiano – permette di inventare una politica dell’ospitalità senza riserve, una politica altra rispetto alla topolitica dell’ostilità. Essa ingiunge di assumere responsabilmente la scelta dell’abbattimento delle proprie frontiere, accogliendo persino il terrore che il peggio possa accadere, in nome di una Giustizia che, aldilà dell’orizzonte giuridico-politico, sollecita a fare, qui e ora, l’Impossibile. Fedele a uno dei molti spettri di Marx – all’urgenza messianica di un’apertura strutturale – Derrida confessa di non saper né poter pensare la democrazia. Eppure, attraverso una scrittura che apre varchi e fratture, che dice «Vieni!» all’Evento dell’Altro, insegna cosa resta da pensare nel vecchio nome, sempre nuovo di “democrazia”.

Sovranità in questione: J. Derrida e il paradigma auto-immunitario del politico

PACILE', Maria Teresa
2024-01-01

Abstract

New York, 11 settembre 2001: l’indimenticabile crollo delle Twin Towers ha costituito un vulnus al cuore della democrazia americana, un sisma destinato a scuotere l’ordine planetario. Un evento che, nel presente contributo, J. Derrida aiuterà a rileggere: inanticipabile, improvviso, esso ha interrotto la pretesa continuità della storia, introducendovi la minaccia di un Nemico invisibile. Il messaggio simbolico dell’11 settembre è racchiuso nella caduta di entrambe le torri: i tratti del carnefice non sono più distinguibili da quelli delle vittime nella fossa comune del Ground Zero, né quelli dell’amico dal nemico. Resti umani indifferenti rievocano l’incubo di una violenza indifferenziata, pronta a riemergere quando le difese “immunitarie” dell’ordinamento statale entrano in crisi: il dispositivo politico moderno di protezione dalla violenza, volto ad espellere il nemico all’esterno, si è capovolto in terrorismo auto-immunitario. La sovranità dello Stato – e con essa l’integrità della democrazia – è stata messa in questione. Ma l’auto-immunità è solo un processo autodistruttivo? O in modo complementare – e tuttavia inscindibile – si può pensare un paradigma auto-immunitario che riesca persino a proteggere il politico, immunizzandolo dall’eccessiva immunità, la cui violenza estrema ha dato effetti devastanti nei suoi esiti totalitari? È su quanto l’intervento propone di riflettere in dialogo con J. Derrida. Se c’è un interrogativo che domina il percorso più direttamente politico del filosofo franco-maghrebino – a partire da Spettri di Marx (1994) sino ai seminari tenuti presso l’EHESS di Parigi dal titolo La Bestia e il Sovrano (2001-2003), per costituire infine il motore simbolico di Stati Canaglia (2003) – è proprio la sovranità nel suo legame strutturale con la logica auto-immunitaria della vita. Come il vivente, anche la comunità politica difende la propria vita rivolgendo i propri anticorpi a favore e contro se stessa, esponendosi al rischio dell’autodistruzione pur di sopravvivere. In modo quasi suicida, essa distrugge le proprie barriere per scoprire che solo l’apertura a ciò che minaccia la sua sicurezza le permette, paradossalmente, una chance di salvezza. La democrazia contemporanea ne costituisce un esempio paradigmatico: essa vincola la tensione verso un’auto-immunità “distruttiva” – come gli eventi dell’11 settembre hanno messo in scena – alla possibilità (forse impossibile) di un’auto-immunità “costruttiva”, intesa come istanza decostruente che, minacciando mortalmente ogni assetto stabile, ospita l’estraneo – partorisce il proprio nemico – e, con esso, si apre alla promessa dell’Av-venire. La fragilità e, al contempo, il diritto all’autocritica che caratterizzano il regime democratico costituiscono il terreno di un’autoimmunità costitutiva che ¬– secondo il pensiero derridiano – permette di inventare una politica dell’ospitalità senza riserve, una politica altra rispetto alla topolitica dell’ostilità. Essa ingiunge di assumere responsabilmente la scelta dell’abbattimento delle proprie frontiere, accogliendo persino il terrore che il peggio possa accadere, in nome di una Giustizia che, aldilà dell’orizzonte giuridico-politico, sollecita a fare, qui e ora, l’Impossibile. Fedele a uno dei molti spettri di Marx – all’urgenza messianica di un’apertura strutturale – Derrida confessa di non saper né poter pensare la democrazia. Eppure, attraverso una scrittura che apre varchi e fratture, che dice «Vieni!» all’Evento dell’Altro, insegna cosa resta da pensare nel vecchio nome, sempre nuovo di “democrazia”.
2024
979-12-80899-13-2
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