Jacques Derrida è l’autore che forse più di ogni altro ha pensato il rapporto tra Filosofia e Letteratura, non come un mero dialogo tra due ambiti ben definiti, ma come un’inevitabile contaminazione tra due ambiti dai margini smagliati, in cui non c’è mai una riduzione dell’uno all’altro. Derrida ha anche praticato questo rapporto, esibendo la contaminazione tra filosofemi in Letteratura ed espedienti letterari in Filosofia, come in Glas o in Timpano, dove più testi sono innestati nella stessa pagina, in un gioco continuo di scarti e rimandi. Del resto, anche negli scritti in cui l’innesto non è mostrato graficamente, la scrittura derridiana non è mai né puramente filosofica né puramente letteraria. Derrida decreta la fine del libro come totalità trattatistica e della Filosofia come scienza rigorosa od ontologia fondamentale, perché pensa la Filosofia come “un genere di scrittura”, a cui sono strutturali la non-padroneggiabilità e la non-trasparenza. La Filosofia, poiché si scrive, avanza, infatti, in assenza dell’autore, della sua intenzione, del suo voler-dire, in assenza del destinatario, così come di un senso univoco (Margini della filosofia). Certamente il rapporto tra Filosofia e Letteratura va inquadrato all’interno di un cammino di pensiero che comincia con la decostruzione del logofonocentrismo, il primato della voce e della scrittura fonetica legato a quello della presenza a sé, e con la formulazione del “concetto” di archi-scrittura, come movimento della dif-ferenza, parola che non scaccia il suo altro (Della grammatologia). A chiudere la parabola di questo cammino è La letteratura al segreto, seconda parte di Donare la morte, laddove Derrida osserva che la Letteratura ha la prerogativa di attestare il segreto senza toglierlo o tradirlo, di testimoniare il segreto custodendolo, mentre la Filosofia è una sorta di spergiuro rispetto a questa vocazione di testimonianza e custodia, poiché è un esercizio di scoprimento, che aspira a svelare il segreto. Singolare è che, per Derrida, questa prerogativa derivi alla Letteratura non già da un’eredità greca, ma ebraica, abramitica in particolare. Il patriarca Abramo, che riceve da Dio la richiesta di sacrificare il proprio figlio Isacco, è segregato nel silenzio, costretto a mantenere un segreto assoluto, un doppio segreto. Abramo, infatti, non può condividere con nessuno questo comando inconcepibile per tutti gli altri, e, al tempo stesso, non riesce a comprendere la ragione o il senso della richiesta di questo sacrificio, che lo costringe a immolare quel che di più ama. Abramo è chiamato a custodire in segreto, quel che resta un segreto per lui, a condividerlo senza possibile condivisione con Dio. Un’affinità elettiva imparenta, secondo Derrida, il segreto dell’alleanza tra Dio e Abramo e il segreto della Letteratura. La Letteratura, tuttavia, ‘rinnega’ la sua filiazione abramitica e, nella misura in cui essa implica in principio il diritto democratico di dire tutto e di nascondere tutto, il registro della finzione che le è proprio la espone anche al rischio dell’irresponsabilità. La Filosofia, da parte sua, ‘denega’ il segreto, perché prova a concettualizzarlo, il che significa violarlo o violentarlo, là dove la Letteratura può testimoniare il segreto senza saperne nulla e senza appropriarsene. Se la Letteratura è chiamata incessantemente a chiedere «perdono per non voler dire…», non diversamente occorre che la Filosofia chieda sempre perdono nella sua pretesa di voler dire tutto e per ignorare il suo limite: si dà un segreto che le è inaccessibile. Entrambe, seppure in modo diverso, hanno il compito di custodire il segreto inviolabile di una “chiamata assolutamente singolare” cui occorre rispondere.
Mantenere il segreto. Filosofia e Letteratura in Jacques Derrida
SURACE V
2024-01-01
Abstract
Jacques Derrida è l’autore che forse più di ogni altro ha pensato il rapporto tra Filosofia e Letteratura, non come un mero dialogo tra due ambiti ben definiti, ma come un’inevitabile contaminazione tra due ambiti dai margini smagliati, in cui non c’è mai una riduzione dell’uno all’altro. Derrida ha anche praticato questo rapporto, esibendo la contaminazione tra filosofemi in Letteratura ed espedienti letterari in Filosofia, come in Glas o in Timpano, dove più testi sono innestati nella stessa pagina, in un gioco continuo di scarti e rimandi. Del resto, anche negli scritti in cui l’innesto non è mostrato graficamente, la scrittura derridiana non è mai né puramente filosofica né puramente letteraria. Derrida decreta la fine del libro come totalità trattatistica e della Filosofia come scienza rigorosa od ontologia fondamentale, perché pensa la Filosofia come “un genere di scrittura”, a cui sono strutturali la non-padroneggiabilità e la non-trasparenza. La Filosofia, poiché si scrive, avanza, infatti, in assenza dell’autore, della sua intenzione, del suo voler-dire, in assenza del destinatario, così come di un senso univoco (Margini della filosofia). Certamente il rapporto tra Filosofia e Letteratura va inquadrato all’interno di un cammino di pensiero che comincia con la decostruzione del logofonocentrismo, il primato della voce e della scrittura fonetica legato a quello della presenza a sé, e con la formulazione del “concetto” di archi-scrittura, come movimento della dif-ferenza, parola che non scaccia il suo altro (Della grammatologia). A chiudere la parabola di questo cammino è La letteratura al segreto, seconda parte di Donare la morte, laddove Derrida osserva che la Letteratura ha la prerogativa di attestare il segreto senza toglierlo o tradirlo, di testimoniare il segreto custodendolo, mentre la Filosofia è una sorta di spergiuro rispetto a questa vocazione di testimonianza e custodia, poiché è un esercizio di scoprimento, che aspira a svelare il segreto. Singolare è che, per Derrida, questa prerogativa derivi alla Letteratura non già da un’eredità greca, ma ebraica, abramitica in particolare. Il patriarca Abramo, che riceve da Dio la richiesta di sacrificare il proprio figlio Isacco, è segregato nel silenzio, costretto a mantenere un segreto assoluto, un doppio segreto. Abramo, infatti, non può condividere con nessuno questo comando inconcepibile per tutti gli altri, e, al tempo stesso, non riesce a comprendere la ragione o il senso della richiesta di questo sacrificio, che lo costringe a immolare quel che di più ama. Abramo è chiamato a custodire in segreto, quel che resta un segreto per lui, a condividerlo senza possibile condivisione con Dio. Un’affinità elettiva imparenta, secondo Derrida, il segreto dell’alleanza tra Dio e Abramo e il segreto della Letteratura. La Letteratura, tuttavia, ‘rinnega’ la sua filiazione abramitica e, nella misura in cui essa implica in principio il diritto democratico di dire tutto e di nascondere tutto, il registro della finzione che le è proprio la espone anche al rischio dell’irresponsabilità. La Filosofia, da parte sua, ‘denega’ il segreto, perché prova a concettualizzarlo, il che significa violarlo o violentarlo, là dove la Letteratura può testimoniare il segreto senza saperne nulla e senza appropriarsene. Se la Letteratura è chiamata incessantemente a chiedere «perdono per non voler dire…», non diversamente occorre che la Filosofia chieda sempre perdono nella sua pretesa di voler dire tutto e per ignorare il suo limite: si dà un segreto che le è inaccessibile. Entrambe, seppure in modo diverso, hanno il compito di custodire il segreto inviolabile di una “chiamata assolutamente singolare” cui occorre rispondere.Pubblicazioni consigliate
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