La monografia sull'azione minoritaria di responsabilità rappresenta ad oggi l'unico lavoro organico sul tema, nel quale, peraltro, i profili di comparazione con il diritto straniero rivestono importanza centrale. Attraverso questo istituto, il legislatore della Riforma societaria del 2004 ha posto riparo all'assenza di un classico rimedio di tutela, recependo uno fra i principali indicatori di ‘competitività’ richiesti dalla moderna governance societaria, appunto da lungo tempo acquisito al patrimonio dell’esperienza straniera. Ciò nonostante, dopo quasi due lustri dalla sua introduzione, non si ha ancora notiza dell’esperimento di alcuna azione minoritaria contro amministratori di società per azioni. E, come ho tentato di dimostrare, tale circostanza non dipende dalla efficacia deterrente esercitata dallo strumento contro iniziative abusive o temerarie, bensì dalla endemica inefficacia normativa dello stesso. Si è inoltre assistito al proliferare di una letteratura a sfondo prevalentemente economico, che ha sovente spostato l'indagine sul terreno del mero “efficientismo” del governo societario, il che ha inevitabilmente fatto ombra alle radici storiche dell’istituto ed alle numerose implicazioni di carattere squisitamente giuscommercialistico. L’attribuzione ai soci di minoranza (od al socio come tale) della legittimazione ad esperire l’azione sociale di responsabilità (o semplicemente, a compulsarne l’esercizio) trova infatti le proprie origini in corrispondenza di fondamentali stagioni del diritto societario, durante le quali la materia andava assumendo un’autonoma fisionomia nell’ambito delle codificazioni civili europee e, oltre oceano, le relazioni fra investitori, proprietari e managers avrebbero formato oggetto di importanti studi di american jurisprudence. Nel 1832, per la prima volta, si affermava negli Stati Uniti il principio della risarcibilità del danno direttamente provocato al singolo azionista dall’attività degli amministratori; ne sarebbe derivata una cospicua giurisprudenza che, nel 1843, avrebbe portato in Inghilterra alla nota decisione Foss v. Harbottle e, sia pure nel contesto del rafforzamento del principio maggioritario, all’espresso riconoscimento circa l’ammissibilità di un’azione di responsabilità esercitabile in via derivativa; nel 1856, anche il diritto statunitense avrebbe recepito ufficialmente la derivative action. Dopo circa un decennio, in Francia, si tentava di interpretare la norma di riferimento nel senso del riconoscimento del diritto minoritario, ma soltanto nel 1937 il potere di esercitare l’azione sociale da parte dei soci di minoranza avrebbe conquistato piena consistenza. In epoca analoga, l’Art. 223, Allgemeines Deutsches Handelgesetzbuch del 1884 riconosceva ai soci minoritari un diritto di mero impulso, il cui esercizio produceva l’effetto di obbligare la società ad esercitare l’azione di responsabilità contro gli amministratori. In Italia, invece, soltanto con la stesura del “progetto Vivante” (1922) si sarebbe affacciata la proposta di introdurre uno strumento di legittimazione diretta dei soci di minoranza che, tenendo gli amministratori sotto la pressione dell’azione sociale di responsabilità, ne bilanciasse lo strapotere recuperandone altresì la reputazione. Successivamente, mentre anche la Spagna varava una legge societaria che avrebbe espressamente previsto la facoltà per i soci minoritari di esercitare l’azione sociale, ogni tentativo di introdurre in Italia il rimedio in parola sarebbe stato vanificato dalla mancata approvazione dei numerosi progetti di riforma. Anche Tullio Ascarelli, colpito dalle suggestioni di un noto contributo del realismo giuridico americano degli anni ’30 (A.A. Berle e G.C. Means, The Modern Corporation and Private Property), non riuscì nell'intento riformatore. La monografia si articola lungo una direttrice comparatistica ed interdisciplinare (diritto processuale) per approdare a soluzioni interpretative ancora oggi considerate originali.
L'AZIONE SOCIALE DI RESPONSABILITA' ESERCITATA DALLA MINORANZA
LATELLA, Dario
2007-01-01
Abstract
La monografia sull'azione minoritaria di responsabilità rappresenta ad oggi l'unico lavoro organico sul tema, nel quale, peraltro, i profili di comparazione con il diritto straniero rivestono importanza centrale. Attraverso questo istituto, il legislatore della Riforma societaria del 2004 ha posto riparo all'assenza di un classico rimedio di tutela, recependo uno fra i principali indicatori di ‘competitività’ richiesti dalla moderna governance societaria, appunto da lungo tempo acquisito al patrimonio dell’esperienza straniera. Ciò nonostante, dopo quasi due lustri dalla sua introduzione, non si ha ancora notiza dell’esperimento di alcuna azione minoritaria contro amministratori di società per azioni. E, come ho tentato di dimostrare, tale circostanza non dipende dalla efficacia deterrente esercitata dallo strumento contro iniziative abusive o temerarie, bensì dalla endemica inefficacia normativa dello stesso. Si è inoltre assistito al proliferare di una letteratura a sfondo prevalentemente economico, che ha sovente spostato l'indagine sul terreno del mero “efficientismo” del governo societario, il che ha inevitabilmente fatto ombra alle radici storiche dell’istituto ed alle numerose implicazioni di carattere squisitamente giuscommercialistico. L’attribuzione ai soci di minoranza (od al socio come tale) della legittimazione ad esperire l’azione sociale di responsabilità (o semplicemente, a compulsarne l’esercizio) trova infatti le proprie origini in corrispondenza di fondamentali stagioni del diritto societario, durante le quali la materia andava assumendo un’autonoma fisionomia nell’ambito delle codificazioni civili europee e, oltre oceano, le relazioni fra investitori, proprietari e managers avrebbero formato oggetto di importanti studi di american jurisprudence. Nel 1832, per la prima volta, si affermava negli Stati Uniti il principio della risarcibilità del danno direttamente provocato al singolo azionista dall’attività degli amministratori; ne sarebbe derivata una cospicua giurisprudenza che, nel 1843, avrebbe portato in Inghilterra alla nota decisione Foss v. Harbottle e, sia pure nel contesto del rafforzamento del principio maggioritario, all’espresso riconoscimento circa l’ammissibilità di un’azione di responsabilità esercitabile in via derivativa; nel 1856, anche il diritto statunitense avrebbe recepito ufficialmente la derivative action. Dopo circa un decennio, in Francia, si tentava di interpretare la norma di riferimento nel senso del riconoscimento del diritto minoritario, ma soltanto nel 1937 il potere di esercitare l’azione sociale da parte dei soci di minoranza avrebbe conquistato piena consistenza. In epoca analoga, l’Art. 223, Allgemeines Deutsches Handelgesetzbuch del 1884 riconosceva ai soci minoritari un diritto di mero impulso, il cui esercizio produceva l’effetto di obbligare la società ad esercitare l’azione di responsabilità contro gli amministratori. In Italia, invece, soltanto con la stesura del “progetto Vivante” (1922) si sarebbe affacciata la proposta di introdurre uno strumento di legittimazione diretta dei soci di minoranza che, tenendo gli amministratori sotto la pressione dell’azione sociale di responsabilità, ne bilanciasse lo strapotere recuperandone altresì la reputazione. Successivamente, mentre anche la Spagna varava una legge societaria che avrebbe espressamente previsto la facoltà per i soci minoritari di esercitare l’azione sociale, ogni tentativo di introdurre in Italia il rimedio in parola sarebbe stato vanificato dalla mancata approvazione dei numerosi progetti di riforma. Anche Tullio Ascarelli, colpito dalle suggestioni di un noto contributo del realismo giuridico americano degli anni ’30 (A.A. Berle e G.C. Means, The Modern Corporation and Private Property), non riuscì nell'intento riformatore. La monografia si articola lungo una direttrice comparatistica ed interdisciplinare (diritto processuale) per approdare a soluzioni interpretative ancora oggi considerate originali.Pubblicazioni consigliate
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