La questione meridionale nasce con l’Unità d’Italia e caratterizza la storia della Nazione per tutto il XX secolo, fino ai giorni nostri, conferendo al Paese una struttura dualistica mai superata. Se noti sono i cardini del meridionalismo classico, che raggiunse nelle formulazioni di intellettuali del calibro di Antonio Gramsci, Gaetano Salvemini, Francesco Saverio Nitti, il suo momento più alto e che finì per influenzare nel secondo dopoguerra orientamenti neomarxisti tesi a interpretare il dualismo italiano alla luce delle teorie del sottosviluppo, meno noto è il fatto che ancor prima della questione meridionale esistesse nel nostro Paese una “questione siciliana”, che ha ispirato, a partire dagli anni a cavallo tra il XIX e il XX secolo, una letteratura originale, che si è distaccata nettamente dalla cultura nazionale dominante di matrice romantica ed idealista e che ha intrapreso la strada di un evoluzionismo vuoto, di un positivismo nichilista che ha letto la Sicilia refrattaria ad ogni forma di progresso. È già la cultura politica borbonica a denunciare, a partire dai moti del 1848-49, la tremenda combinazione di feudalità e barbarie che si nasconde dietro ogni forma di istanza autonomista siciliana, che impone pertanto una repressione energica, manu militari. Anche la cultura politica del nuovo Stato italiano ripropone l’immagine di una Sicilia selvaggia, dominata dal latifondo che assedia delle realtà urbane (ritenute a torto) soggiogate e intimidite da una campagna violenta. Ciò spiega la durissima repressione del movimento dei Fasci, visti inizialmente con diffidenza della stessa sinistra italiana del tempo. Da questo momento, però, la questione siciliana tenderà a fondersi con quella meridionale, lasciando tuttavia dei segni indelebili nella cultura dell’isola, che a partire dai lavori del Verga, di De Roberto, di Tomasi di Lampedusa, di Sciascia sono ancora visibili nella filmografia siciliana più recente. È però proprio la campagna che, dopo i fallimenti della riforma agraria e dopo il declino dei poli di sviluppo di perrousiana ispirazione, è parsa in grado di offrire una via di uscita, un modello di crescita autocentrato capace di rilanciare l’economia di una parte della regione. Uno dei fatti più importanti della storia economica recente della Sicilia è stato, infatti, lo sviluppo del sistema agricolo dell’area iblea. Il territorio ragusano ha conosciuto, a partire dagli ultimi decenni dello scorso secolo, dei trend di crescita non indifferenti, che hanno distinto la provincia di Ragusa dalle altre province siciliane: il motore di questo sviluppo è stato il sistema ortofrutticolo e floricolo ibleo che, attraverso la serricoltura, ha fortemente trasformato il paesaggio rurale di questo territorio e che ha avuto il suo centro di gravitazione nel mercato di Vittoria che, con un bacino di utenza che va da Ispica a Licata, commercializza in media circa 2,5 milioni di quintali di prodotti all’anno, il 70% dei quali è destinato ai grandi mercati europei. Le statistiche socio-economiche della provincia di Ragusa appaiono migliori rispetto alla media regionale e questo territorio, storicamente poco interessato dal fenomeno mafioso, è stato negli ultimi anni meta di flussi migratori provenienti soprattutto dal nord Africa. Tuttavia la crisi economica che ha colpito l’Italia nell’ultimo periodo ha avuto degli effetti fortemente negativi sull’economia iblea, il cui sistema delle imprese è stato duramente colpito. La concorrenza euro-mediterranea appare, infatti, particolarmente agguerrita e la sensazione è quella che le imprese ragusane non siano state in grado di avviare una fase adeguata di riorganizzazione produttiva, investendo in innovazione. Il sistema ibleo ha evidenziato un elemento di debolezza strutturale: l’anello forte della catena è, difatti, costituito da poche imprese che si occupano della commercializzazione dei prodotti agricoli, mentre le molte imprese produttrici, che hanno tratto profitto negli ultimi anni soprattutto dal basso costo della forza lavoro stagionale extracomunitaria, manifestano i segni della crisi. C’è da chiedersi se ancora una volta i progressi degli ultimi anni saranno vanificati, confermando il modello di una Sicilia “Gattopardesca” e “Verista”, tragica scenografia barocca di una realtà immutabile e refrattaria al progresso.

Il sistema agricolo dell’area iblea: ascesa e crisi di un modello di sviluppo

DI BLASI, Elena;ARANGIO, ALESSANDRO
2013-01-01

Abstract

La questione meridionale nasce con l’Unità d’Italia e caratterizza la storia della Nazione per tutto il XX secolo, fino ai giorni nostri, conferendo al Paese una struttura dualistica mai superata. Se noti sono i cardini del meridionalismo classico, che raggiunse nelle formulazioni di intellettuali del calibro di Antonio Gramsci, Gaetano Salvemini, Francesco Saverio Nitti, il suo momento più alto e che finì per influenzare nel secondo dopoguerra orientamenti neomarxisti tesi a interpretare il dualismo italiano alla luce delle teorie del sottosviluppo, meno noto è il fatto che ancor prima della questione meridionale esistesse nel nostro Paese una “questione siciliana”, che ha ispirato, a partire dagli anni a cavallo tra il XIX e il XX secolo, una letteratura originale, che si è distaccata nettamente dalla cultura nazionale dominante di matrice romantica ed idealista e che ha intrapreso la strada di un evoluzionismo vuoto, di un positivismo nichilista che ha letto la Sicilia refrattaria ad ogni forma di progresso. È già la cultura politica borbonica a denunciare, a partire dai moti del 1848-49, la tremenda combinazione di feudalità e barbarie che si nasconde dietro ogni forma di istanza autonomista siciliana, che impone pertanto una repressione energica, manu militari. Anche la cultura politica del nuovo Stato italiano ripropone l’immagine di una Sicilia selvaggia, dominata dal latifondo che assedia delle realtà urbane (ritenute a torto) soggiogate e intimidite da una campagna violenta. Ciò spiega la durissima repressione del movimento dei Fasci, visti inizialmente con diffidenza della stessa sinistra italiana del tempo. Da questo momento, però, la questione siciliana tenderà a fondersi con quella meridionale, lasciando tuttavia dei segni indelebili nella cultura dell’isola, che a partire dai lavori del Verga, di De Roberto, di Tomasi di Lampedusa, di Sciascia sono ancora visibili nella filmografia siciliana più recente. È però proprio la campagna che, dopo i fallimenti della riforma agraria e dopo il declino dei poli di sviluppo di perrousiana ispirazione, è parsa in grado di offrire una via di uscita, un modello di crescita autocentrato capace di rilanciare l’economia di una parte della regione. Uno dei fatti più importanti della storia economica recente della Sicilia è stato, infatti, lo sviluppo del sistema agricolo dell’area iblea. Il territorio ragusano ha conosciuto, a partire dagli ultimi decenni dello scorso secolo, dei trend di crescita non indifferenti, che hanno distinto la provincia di Ragusa dalle altre province siciliane: il motore di questo sviluppo è stato il sistema ortofrutticolo e floricolo ibleo che, attraverso la serricoltura, ha fortemente trasformato il paesaggio rurale di questo territorio e che ha avuto il suo centro di gravitazione nel mercato di Vittoria che, con un bacino di utenza che va da Ispica a Licata, commercializza in media circa 2,5 milioni di quintali di prodotti all’anno, il 70% dei quali è destinato ai grandi mercati europei. Le statistiche socio-economiche della provincia di Ragusa appaiono migliori rispetto alla media regionale e questo territorio, storicamente poco interessato dal fenomeno mafioso, è stato negli ultimi anni meta di flussi migratori provenienti soprattutto dal nord Africa. Tuttavia la crisi economica che ha colpito l’Italia nell’ultimo periodo ha avuto degli effetti fortemente negativi sull’economia iblea, il cui sistema delle imprese è stato duramente colpito. La concorrenza euro-mediterranea appare, infatti, particolarmente agguerrita e la sensazione è quella che le imprese ragusane non siano state in grado di avviare una fase adeguata di riorganizzazione produttiva, investendo in innovazione. Il sistema ibleo ha evidenziato un elemento di debolezza strutturale: l’anello forte della catena è, difatti, costituito da poche imprese che si occupano della commercializzazione dei prodotti agricoli, mentre le molte imprese produttrici, che hanno tratto profitto negli ultimi anni soprattutto dal basso costo della forza lavoro stagionale extracomunitaria, manifestano i segni della crisi. C’è da chiedersi se ancora una volta i progressi degli ultimi anni saranno vanificati, confermando il modello di una Sicilia “Gattopardesca” e “Verista”, tragica scenografia barocca di una realtà immutabile e refrattaria al progresso.
2013
9788854862029
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