Attraverso l’azione sociale di responsabilità esercitata dai soci di minoranza, il legislatore delle recenti riforme societarie ha posto riparo all'assenza di questo classico rimedio nel nostro ordinamento, recependo uno fra i principali indicatori di ‘competitività’ richiesti dalla moderna governance societaria, da lungo tempo acquisito al patrimonio dell’esperienza straniera. La novità ha prodotto un entusiasmo corale, che ha indotto molti a ravvisarvi parentele strette con la shareholder derivative action di diritto nordamericano, sovente immaginata quale strumento salvifico per le minoranze azionarie “oppresse” dal socio di comando. Non è un caso che, specularmente, siano presto giunte talune preoccupate prognosi sull’utilizzo abusivo dell’azione minoritaria e larghi settori dell’economia industriale e bancaria abbiano proposto con successo il mantenimento di elevate aliquote capitalistiche di accesso al rimedio. Ad oggi, tuttavia, non si ha notiza dell’esperimento di alcuna azione minoritaria contro amministratori di società per azioni. E, come si vedrà, tale circostanza non risulta certo attribuibile alla efficacia deterrente che lo strumento è riuscito ad esprimere contro la proposizione di iniziative temerarie . Per altro verso, si è assistito al proliferare di una letteratura a sfondo prevalentemente economico, che ha sovente spostato il punto di attacco al tema d’indagine sul terreno delle ragioni di mero “efficientismo” del governo societario, le quali hanno inevitabilmente fatto ombra alle radici storiche dell’istituto ed alle numerose implicazioni apprezzabili sul piano squisitamente giuscommercialistico. L’attribuzione ai soci di minoranza (od al socio come tale) della legittimazione ad esperire l’azione sociale di responsabilità (o semplicemente, a compulsarne l’esercizio) trova infatti le proprie origini in corrispondenza di fondamentali stagioni del diritto societario, durante le quali la materia andava assumendo un’autonoma fisionomia nell’ambito delle codificazioni civili europee e, oltre oceano, le relazioni fra investitori, proprietari e managers avrebbero formato oggetto di importanti studi di american jurisprudence . Nel 1832, per la prima volta, si affermava negli Stati Uniti il principio della risarcibilità del danno direttamente provocato al singolo azionista dall’attività degli amministratori; ne sarebbe derivata una cospicua giurisprudenza che, nel 1843, avrebbe portato in Inghilterra alla nota decisione Foss v. Harbottle e, sia pure nel contesto del rafforzamento del principio maggioritario, all’espresso riconoscimento circa l’ammissibilità di un’azione di responsabilità esercitabile in via derivativa; nel 1856, anche il diritto statunitense avrebbe recepito ufficialmente la derivative action. Dopo circa un decennio, in Francia, si tentava di interpretare la norma di riferimento (art. 17, co. 1, legge 24 luglio 1867) nel senso del riconoscimento del diritto minoritario, ma soltanto nel 1937 il potere di esercitare l’azione sociale da parte dei soci di minoranza avrebbe conquistato piena consistenza. In epoca analoga, l’Art. 223, Allgemeines Deutsches Handelgesetzbuch del 1884 riconosceva ai soci minoritari un diritto di mero impulso, il cui esercizio produceva l’effetto di obbligare la società ad esercitare l’azione di responsabilità contro gli amministratori. In Italia, soltanto con la stesura del “progetto Vivante” (1922) si sarebbe affacciata la proposta di introdurre uno strumento di legittimazione diretta dei soci di minoranza che, tenendo gli amministratori sotto la pressione dell’azione sociale di responsabilità, ne bilanciasse lo strapotere recuperandone altresì il prestigio alla considerazione della collettività. Successivamente, mentre anche la Spagna varava una legge societaria che, ispirata al modello tedesco, avrebbe espressamente previsto la facoltà per i minoritari di esercitare l’azione sociale vincendo l’inerzia della società (artt. 80 e 110, LSA del 1951), ogni ulteriore tentativo di introdurre in Italia il rimedio in parola sarebbe stato vanificato dalla mancata approvazione dei numerosi progetti di riforma. Lo stesso Tullio Ascarelli, favorevolmente colpito dalle suggestioni provocate sul tema da un noto contributo del realismo giuridico americano dei primi anni ’30 di Adolf A. Berle e Gardiner C. Means (The Modern Corporation and Private Property), non riuscì a fare accogliere nel nostro ordinamento un meccanismo che, già allora, si presentava quale clausola essenziale di garanzia per la effettiva corrispondenza fra potere di gestione e responsabilità.

L'AZIONE SOCIALE DI RESPONSABILITA' ESERCITATA DALLA MINORANZA

LATELLA, Dario
2005-01-01

Abstract

Attraverso l’azione sociale di responsabilità esercitata dai soci di minoranza, il legislatore delle recenti riforme societarie ha posto riparo all'assenza di questo classico rimedio nel nostro ordinamento, recependo uno fra i principali indicatori di ‘competitività’ richiesti dalla moderna governance societaria, da lungo tempo acquisito al patrimonio dell’esperienza straniera. La novità ha prodotto un entusiasmo corale, che ha indotto molti a ravvisarvi parentele strette con la shareholder derivative action di diritto nordamericano, sovente immaginata quale strumento salvifico per le minoranze azionarie “oppresse” dal socio di comando. Non è un caso che, specularmente, siano presto giunte talune preoccupate prognosi sull’utilizzo abusivo dell’azione minoritaria e larghi settori dell’economia industriale e bancaria abbiano proposto con successo il mantenimento di elevate aliquote capitalistiche di accesso al rimedio. Ad oggi, tuttavia, non si ha notiza dell’esperimento di alcuna azione minoritaria contro amministratori di società per azioni. E, come si vedrà, tale circostanza non risulta certo attribuibile alla efficacia deterrente che lo strumento è riuscito ad esprimere contro la proposizione di iniziative temerarie . Per altro verso, si è assistito al proliferare di una letteratura a sfondo prevalentemente economico, che ha sovente spostato il punto di attacco al tema d’indagine sul terreno delle ragioni di mero “efficientismo” del governo societario, le quali hanno inevitabilmente fatto ombra alle radici storiche dell’istituto ed alle numerose implicazioni apprezzabili sul piano squisitamente giuscommercialistico. L’attribuzione ai soci di minoranza (od al socio come tale) della legittimazione ad esperire l’azione sociale di responsabilità (o semplicemente, a compulsarne l’esercizio) trova infatti le proprie origini in corrispondenza di fondamentali stagioni del diritto societario, durante le quali la materia andava assumendo un’autonoma fisionomia nell’ambito delle codificazioni civili europee e, oltre oceano, le relazioni fra investitori, proprietari e managers avrebbero formato oggetto di importanti studi di american jurisprudence . Nel 1832, per la prima volta, si affermava negli Stati Uniti il principio della risarcibilità del danno direttamente provocato al singolo azionista dall’attività degli amministratori; ne sarebbe derivata una cospicua giurisprudenza che, nel 1843, avrebbe portato in Inghilterra alla nota decisione Foss v. Harbottle e, sia pure nel contesto del rafforzamento del principio maggioritario, all’espresso riconoscimento circa l’ammissibilità di un’azione di responsabilità esercitabile in via derivativa; nel 1856, anche il diritto statunitense avrebbe recepito ufficialmente la derivative action. Dopo circa un decennio, in Francia, si tentava di interpretare la norma di riferimento (art. 17, co. 1, legge 24 luglio 1867) nel senso del riconoscimento del diritto minoritario, ma soltanto nel 1937 il potere di esercitare l’azione sociale da parte dei soci di minoranza avrebbe conquistato piena consistenza. In epoca analoga, l’Art. 223, Allgemeines Deutsches Handelgesetzbuch del 1884 riconosceva ai soci minoritari un diritto di mero impulso, il cui esercizio produceva l’effetto di obbligare la società ad esercitare l’azione di responsabilità contro gli amministratori. In Italia, soltanto con la stesura del “progetto Vivante” (1922) si sarebbe affacciata la proposta di introdurre uno strumento di legittimazione diretta dei soci di minoranza che, tenendo gli amministratori sotto la pressione dell’azione sociale di responsabilità, ne bilanciasse lo strapotere recuperandone altresì il prestigio alla considerazione della collettività. Successivamente, mentre anche la Spagna varava una legge societaria che, ispirata al modello tedesco, avrebbe espressamente previsto la facoltà per i minoritari di esercitare l’azione sociale vincendo l’inerzia della società (artt. 80 e 110, LSA del 1951), ogni ulteriore tentativo di introdurre in Italia il rimedio in parola sarebbe stato vanificato dalla mancata approvazione dei numerosi progetti di riforma. Lo stesso Tullio Ascarelli, favorevolmente colpito dalle suggestioni provocate sul tema da un noto contributo del realismo giuridico americano dei primi anni ’30 di Adolf A. Berle e Gardiner C. Means (The Modern Corporation and Private Property), non riuscì a fare accogliere nel nostro ordinamento un meccanismo che, già allora, si presentava quale clausola essenziale di garanzia per la effettiva corrispondenza fra potere di gestione e responsabilità.
2005
DIRITTO DEL COMMERCIO INTERNO E INTERNAZIONALE
8834853717
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