Uno studio sistematico di fonti bibliografiche e archivistiche hanno permesso all’Autore di ricostruire alcuni aspetti fondamentali della vita economica della Calabria settecentesca. Ne scaturisce da una parte l’immagine di una terra dotata di abbondanti risorse però male convogliate e prive di efficaci politiche di investimento; dall’altra un territorio inserito nei grandi circuiti commerciali napoletani e internazionali in uno schema di relazioni funzionali alla sopravvivenza di forme feudali d’ancien régime. L’agricoltura era potenzialmente il fulcro dello sviluppo economico, ma per accrescere la produzione calabrese si doveva intervenire sul riassetto e la distribuzione della proprietà fondiaria. Quella della Calabria era invece un’economia all’insegna della precarietà, e poteva bastare una congiuntura climatica per metterla in ginocchio. Mentre in altre parti d’Europa cambiava il modo di produrre e di trasformare le materie prime, la regione rimase condizionata da procedure ancorate a vecchi sistemi. Gli imprenditori calabresi, anziché intervenire incisivamente nel processo di produzione-trasformazione delle materie prime preferirono l’accumulazione fondiaria e la trasformazione dei seminativi in arboreti: una direzione che consolidò i sedimenti feudali fino a farli sopravvivere anche dopo le leggi eversive. Per tutto il secolo ci fu anche il dominio incondizionato del contrabbando di derrate e di beni, alimentato dalle smisurate restrizioni e dai pesi fiscali che frenavano la stessa espansione mercantile. La Cassa Sacra, istituita in seguito al terremoto del 1783, permise un’operazione di trasferimento della proprietà ecclesiastica a quella privata nobiliare e borghese fra le più ardite effettuate in Europa nel Settecento, non consentendo l’accesso ai contadini, impossibilitati di concorrere all’acquisto delle terre per mancanza di liquidi, che vanificò così un’occasione epocale per costruire la media proprietà terriera.

Contratti e rapporti di produzione nella Calabria del XVIII secolo

2012-01-01

Abstract

Uno studio sistematico di fonti bibliografiche e archivistiche hanno permesso all’Autore di ricostruire alcuni aspetti fondamentali della vita economica della Calabria settecentesca. Ne scaturisce da una parte l’immagine di una terra dotata di abbondanti risorse però male convogliate e prive di efficaci politiche di investimento; dall’altra un territorio inserito nei grandi circuiti commerciali napoletani e internazionali in uno schema di relazioni funzionali alla sopravvivenza di forme feudali d’ancien régime. L’agricoltura era potenzialmente il fulcro dello sviluppo economico, ma per accrescere la produzione calabrese si doveva intervenire sul riassetto e la distribuzione della proprietà fondiaria. Quella della Calabria era invece un’economia all’insegna della precarietà, e poteva bastare una congiuntura climatica per metterla in ginocchio. Mentre in altre parti d’Europa cambiava il modo di produrre e di trasformare le materie prime, la regione rimase condizionata da procedure ancorate a vecchi sistemi. Gli imprenditori calabresi, anziché intervenire incisivamente nel processo di produzione-trasformazione delle materie prime preferirono l’accumulazione fondiaria e la trasformazione dei seminativi in arboreti: una direzione che consolidò i sedimenti feudali fino a farli sopravvivere anche dopo le leggi eversive. Per tutto il secolo ci fu anche il dominio incondizionato del contrabbando di derrate e di beni, alimentato dalle smisurate restrizioni e dai pesi fiscali che frenavano la stessa espansione mercantile. La Cassa Sacra, istituita in seguito al terremoto del 1783, permise un’operazione di trasferimento della proprietà ecclesiastica a quella privata nobiliare e borghese fra le più ardite effettuate in Europa nel Settecento, non consentendo l’accesso ai contadini, impossibilitati di concorrere all’acquisto delle terre per mancanza di liquidi, che vanificò così un’occasione epocale per costruire la media proprietà terriera.
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