L’estrema cuspide sud–orientale di Sicilia, corrispondente alle province di Siracusa e Ragusa e ad alcuni comuni sud–occidentali della provincia di Catania, è un territorio che presenta dei caratteri paesaggistici tipici e circoscritti. L’altipiano ibleo, con i suoi colori, le sue fattezze, la sua modesta statura, definisce e caratterizza questi spazi, che da esso prendono il nome di “regione iblea”. Ma non è solo la natura a conferire compattezza al territorio e a distaccarlo da altri. È sempre l’uomo che, nell’esplicazione del suo incessante operare, del suo abitare lo spazio, del suo attribuire significati, rimodella costantemente se stesso e il suo “intorno”, sospinge una storia, che qui, tra le dure movenze calcaree delle colline interne e le ampie pianure esterne protese sui due mari, è molto antica. E questa profondità storica si rintraccia facilmente nelle forme del territorio antropizzato, forgiato da un’urbanizzazione che, ci dicono gli archeologi, sia fra le più remote d’Italia. Un territorio che nasce, quasi, egemonizzato da Siracusa, ma che poi, lentamente, il divenire geopolitico mediterraneo e le derivanti riorganizzazioni funzionali interne rendono policentrico. Spazi equilibrati, plurali, dove non solo il sistema di relazioni interurbane appare discreto, ma anche il tradizionale rapporto città–campagna si mostra storicamente gentile, privo di vicendevoli soprusi. E mentre la campagna giunge alle soglie della contemporaneità stranamente frazionata, priva del latifondo e delle tipologie sociali che questo ha ingenerato nel resto dell’isola, le città arrivano agli inizi del secolo scorso, complici pure le vicende politiche pre e postunitarie, prive di una vera gerarchia strutturale. Ciò porterà, da un lato, alla nascita, per gemmazione, nel 1927 della provincia ragusana, comportando la divisione istituzionale dell’area iblea, dall’altro, a scala più ampia, al progressivo addensamento dei flussi su Catania, “capitale” vincente del Novecento siciliano, le cui funzioni, come tentacoli, irretiscono tutta la parte orientale dell’isola e anche oltre. Ma il territorio ibleo, con i suoi luoghi, urbani ed extraurbani, non perde la sua identità, le sue tradizioni, le sue logiche stratificate. Uno spazio, a un tempo, plurale e omogeneo, plurale come la sue città, che qui le morfologie della costa e della montagna e il ribollimento profondo del sottosuolo hanno, singolarmente, reso doppie. Una dicotomia ancora forte e attiva, come nel caso di Ragusa, Modica, Augusta e Siracusa, dove il dualismo è — in quest’ultimo caso — persino scolpito nell’originale pluralia tantum del toponimo greco e latino, o rarefatta, silenziosa, quasi scomparsa, come nel caso di Noto e Avola, risorte unicamente in loco novo (a differenza di Modica e Ragusa) dopo la catastrofe del 1693. Ma che hanno, comunque, lasciato nell’antico sito, avvolte tra la natura, le dure carcasse post–sismiche, presenze spettrali di un geosistema inquieto. Fino alla metà del xx secolo l’extraurbano era prevalentemente campagna, che produceva agrumi, uva per vini da taglio, mandorle, olive, ortaggi, carrube. Vi erano poi gli spazi dell’altopiano, legati, come ancora oggi, alla zootecnia. Infine, erano presenti lungo le coste attività tradizionali, come saline e tonnare. Sul finire degli anni Cinquanta l’extraurbano pianeggiante cambia, si fa plurale, trasforma le sue funzioni e il suo rapporto col territorio. Arriva, sul litorale nord fra Augusta e Siracusa, la grande industria moderna, che da lì riscrive la geografia iblea, ridisegna le gerarchie, muta contadini in operai, attira intere famiglie da Sicilie lontane, porta con sé il progresso, ma anche l’inquinamento delle acque, dell’atmosfera, dei terreni rimasti fedeli all’agricoltura. E su quelle terre, assieme alla ricchezza, pianta e coltiva la paura, la consapevolezza del rischio. L’industria non arriva da sola, è lo Stato che l’accompagna per mano, l’accudisce amorevolmente durante i primi anni di vita, poiché il territorio ibleo è uno di quei luoghi eletti alla rinascita del Mezzogiorno. Ma come i nubifragi si abbattono sui campi aperti, distruggendo i raccolti, disperdendo la semina degli agricoltori, così gli anni Settanta piombano con buia durezza sui poli petrolchimici del Sud. Improvvisamente cambiano le idee di sviluppo, le certezze vengono spazzate via. E mentre ciò accede, un fermento locale attraversa come un fremito le campagne delle coste meridionali iblee. È la rivoluzione delle serre, che gradualmente con i loro impianti trasfigurano l’agricoltura, la rendono più simile all’industria. È la rivalsa dei contadini che con tenacia sono rimasti nei propri campi, che hanno deciso di non partire. E la città? Timida, quasi in disparte, subisce e asseconda i cambiamenti mossi dal suo “fuori”. Già, perché l’extraurbano non può più definirsi semplicemente campagna, in quanto gli spazi rurali del passato, periferici e ubbidienti, legati a filiere e a scelte locali, non esistono quasi più! Il fuori diventa per molti aspetti anche città, nella regolarità delle sue trame, nell’organizzazione del lavoro, nel modo in cui viene vissuto da chi lo abita (Mininni, 2006, pp. xvi – xvii). Ma la città vera, quella storica, centrale, rimane il simbolo dell’identità territoriale e a partire dai Novanta, grazie alle politiche rigenerative e al turismo torna a essere protagonista. Dalla città al suo fuori e dal fuori alla città! È questa la periegesi nel sud–est siciliano proposta in questo libro, un viaggio lungo circa mezzo secolo, capace di raccogliere le grandi narrazioni iblee contemporanee: l’industrializzazione, la serricoltura, la città. Lo scopo non è, dunque, quello di presentare una geografia degli Iblei o una ricostruzione storica delle dinamiche economiche recenti di questo pezzo di Sicilia e, tantomeno, una minuziosa trattazione delle politiche territoriali che hanno riguardato le città che puntellano questi spazi. Semmai, l’intento è quello di suggerire una prospettiva geografica alternativa da cui osservare il territorio, differente sia da una ristretta angolazione provinciale, che da una sfocata visione regionale. Ricondotto alle sue storiche dimensioni, il sud–est siciliano diventa un campione ideale, un vetrino da laboratorio su cui scrutare quelle trasformazioni sociali, territoriali ed economiche indotte, nella provincia meridionale contemporanea, dalle logiche di sviluppo perrousiane e post–perrousiane. Ma suggerisce anche l’esatta dimensione da cui immaginare, costruire, articolare qualunque idea di sviluppo, poiché nonostante le frammentazioni, le destrutturazioni, le fratture generate dal secondo dopoguerra, esiste un sentimento di appartenenza a un territorio omogeneo, confermato pure dalla percezione dei siciliani altri, che identificano reciprocamente “vicine” Siracusa e Ragusa, nonostante queste siano separate da un tragitto lungo 83 km, che attraversa spazi comuni, benché plurali.

Geografie della città e del suo fuori. Narrazioni iblee contemporanee

ARANGIO, ALESSANDRO
2013-01-01

Abstract

L’estrema cuspide sud–orientale di Sicilia, corrispondente alle province di Siracusa e Ragusa e ad alcuni comuni sud–occidentali della provincia di Catania, è un territorio che presenta dei caratteri paesaggistici tipici e circoscritti. L’altipiano ibleo, con i suoi colori, le sue fattezze, la sua modesta statura, definisce e caratterizza questi spazi, che da esso prendono il nome di “regione iblea”. Ma non è solo la natura a conferire compattezza al territorio e a distaccarlo da altri. È sempre l’uomo che, nell’esplicazione del suo incessante operare, del suo abitare lo spazio, del suo attribuire significati, rimodella costantemente se stesso e il suo “intorno”, sospinge una storia, che qui, tra le dure movenze calcaree delle colline interne e le ampie pianure esterne protese sui due mari, è molto antica. E questa profondità storica si rintraccia facilmente nelle forme del territorio antropizzato, forgiato da un’urbanizzazione che, ci dicono gli archeologi, sia fra le più remote d’Italia. Un territorio che nasce, quasi, egemonizzato da Siracusa, ma che poi, lentamente, il divenire geopolitico mediterraneo e le derivanti riorganizzazioni funzionali interne rendono policentrico. Spazi equilibrati, plurali, dove non solo il sistema di relazioni interurbane appare discreto, ma anche il tradizionale rapporto città–campagna si mostra storicamente gentile, privo di vicendevoli soprusi. E mentre la campagna giunge alle soglie della contemporaneità stranamente frazionata, priva del latifondo e delle tipologie sociali che questo ha ingenerato nel resto dell’isola, le città arrivano agli inizi del secolo scorso, complici pure le vicende politiche pre e postunitarie, prive di una vera gerarchia strutturale. Ciò porterà, da un lato, alla nascita, per gemmazione, nel 1927 della provincia ragusana, comportando la divisione istituzionale dell’area iblea, dall’altro, a scala più ampia, al progressivo addensamento dei flussi su Catania, “capitale” vincente del Novecento siciliano, le cui funzioni, come tentacoli, irretiscono tutta la parte orientale dell’isola e anche oltre. Ma il territorio ibleo, con i suoi luoghi, urbani ed extraurbani, non perde la sua identità, le sue tradizioni, le sue logiche stratificate. Uno spazio, a un tempo, plurale e omogeneo, plurale come la sue città, che qui le morfologie della costa e della montagna e il ribollimento profondo del sottosuolo hanno, singolarmente, reso doppie. Una dicotomia ancora forte e attiva, come nel caso di Ragusa, Modica, Augusta e Siracusa, dove il dualismo è — in quest’ultimo caso — persino scolpito nell’originale pluralia tantum del toponimo greco e latino, o rarefatta, silenziosa, quasi scomparsa, come nel caso di Noto e Avola, risorte unicamente in loco novo (a differenza di Modica e Ragusa) dopo la catastrofe del 1693. Ma che hanno, comunque, lasciato nell’antico sito, avvolte tra la natura, le dure carcasse post–sismiche, presenze spettrali di un geosistema inquieto. Fino alla metà del xx secolo l’extraurbano era prevalentemente campagna, che produceva agrumi, uva per vini da taglio, mandorle, olive, ortaggi, carrube. Vi erano poi gli spazi dell’altopiano, legati, come ancora oggi, alla zootecnia. Infine, erano presenti lungo le coste attività tradizionali, come saline e tonnare. Sul finire degli anni Cinquanta l’extraurbano pianeggiante cambia, si fa plurale, trasforma le sue funzioni e il suo rapporto col territorio. Arriva, sul litorale nord fra Augusta e Siracusa, la grande industria moderna, che da lì riscrive la geografia iblea, ridisegna le gerarchie, muta contadini in operai, attira intere famiglie da Sicilie lontane, porta con sé il progresso, ma anche l’inquinamento delle acque, dell’atmosfera, dei terreni rimasti fedeli all’agricoltura. E su quelle terre, assieme alla ricchezza, pianta e coltiva la paura, la consapevolezza del rischio. L’industria non arriva da sola, è lo Stato che l’accompagna per mano, l’accudisce amorevolmente durante i primi anni di vita, poiché il territorio ibleo è uno di quei luoghi eletti alla rinascita del Mezzogiorno. Ma come i nubifragi si abbattono sui campi aperti, distruggendo i raccolti, disperdendo la semina degli agricoltori, così gli anni Settanta piombano con buia durezza sui poli petrolchimici del Sud. Improvvisamente cambiano le idee di sviluppo, le certezze vengono spazzate via. E mentre ciò accede, un fermento locale attraversa come un fremito le campagne delle coste meridionali iblee. È la rivoluzione delle serre, che gradualmente con i loro impianti trasfigurano l’agricoltura, la rendono più simile all’industria. È la rivalsa dei contadini che con tenacia sono rimasti nei propri campi, che hanno deciso di non partire. E la città? Timida, quasi in disparte, subisce e asseconda i cambiamenti mossi dal suo “fuori”. Già, perché l’extraurbano non può più definirsi semplicemente campagna, in quanto gli spazi rurali del passato, periferici e ubbidienti, legati a filiere e a scelte locali, non esistono quasi più! Il fuori diventa per molti aspetti anche città, nella regolarità delle sue trame, nell’organizzazione del lavoro, nel modo in cui viene vissuto da chi lo abita (Mininni, 2006, pp. xvi – xvii). Ma la città vera, quella storica, centrale, rimane il simbolo dell’identità territoriale e a partire dai Novanta, grazie alle politiche rigenerative e al turismo torna a essere protagonista. Dalla città al suo fuori e dal fuori alla città! È questa la periegesi nel sud–est siciliano proposta in questo libro, un viaggio lungo circa mezzo secolo, capace di raccogliere le grandi narrazioni iblee contemporanee: l’industrializzazione, la serricoltura, la città. Lo scopo non è, dunque, quello di presentare una geografia degli Iblei o una ricostruzione storica delle dinamiche economiche recenti di questo pezzo di Sicilia e, tantomeno, una minuziosa trattazione delle politiche territoriali che hanno riguardato le città che puntellano questi spazi. Semmai, l’intento è quello di suggerire una prospettiva geografica alternativa da cui osservare il territorio, differente sia da una ristretta angolazione provinciale, che da una sfocata visione regionale. Ricondotto alle sue storiche dimensioni, il sud–est siciliano diventa un campione ideale, un vetrino da laboratorio su cui scrutare quelle trasformazioni sociali, territoriali ed economiche indotte, nella provincia meridionale contemporanea, dalle logiche di sviluppo perrousiane e post–perrousiane. Ma suggerisce anche l’esatta dimensione da cui immaginare, costruire, articolare qualunque idea di sviluppo, poiché nonostante le frammentazioni, le destrutturazioni, le fratture generate dal secondo dopoguerra, esiste un sentimento di appartenenza a un territorio omogeneo, confermato pure dalla percezione dei siciliani altri, che identificano reciprocamente “vicine” Siracusa e Ragusa, nonostante queste siano separate da un tragitto lungo 83 km, che attraversa spazi comuni, benché plurali.
2013
Geografia economico-politica
9788854864221
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11570/2576568
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