Il contributo evidenzia come l’evoluzione della tutela penale del sentimento religioso - avvenuta, prima, in forza degli interventi della giurisprudenza costituzionale a partire dal 1995 e, poi, in forza delle novità legislative introdotte, nel 1999, in materia di depenalizzazione dei reati minori, e nel 2006, in materia di reati di opinione - abbia mirato, da un lato, a “contenere” il ricorso alla criminalizzazione delle condotte nei limiti (attuazione del principio di) della sussidiarietà, e d’altro lato, a “contenere” la tutela penale diretta del sentimento religioso individuale nei limiti della (attuazione del principio di) eguale libertà delle confessioni religiose. La scelta della depenalizzazione e della conversione in meri illeciti amministrativi dei reati contravvenzionali (di bestemmia, uso abusivo d’abito ecclesiastico e danneggiamento di affissioni confessionalmente disposte) viene descritta come sintomatica di un’evoluzione complessiva del nostro ordinamento giuridico tutt’altro che orientata nel senso di affermare un’assoluta ed aprioristica esclusione d’ogni ipotesi di rilevanza degli statuti personali non ancorabili ai precetti di un diritto confessionale. La tesi sviluppata nel lavoro è che la scelta in questione risponda all’esigenza generale di chiarire: per un verso, che il diritto penale può considerarsi idoneo ad intervenire in una materia così delicata qual è quella dell’esercizio del diritto di libertà religiosa soltanto in via residuale, sussidiaria, nei casi in cui risulti come assolutamente indispensabile far prevalere le istanze di prevenzione sulle istanze di partecipazione; ma, al tempo stesso, per altro verso, che il carico (in via) principale della tutela giuridica delle molteplici e svariate forme di espressione della libertà di religione dev’essere rimesso invece a tutti quegli “altri” rami dell’ordinamento che sono maggiormente idonei a garantire l’accoglienza delle istanze di partecipazione dei destinatari delle norme ai processi di determinazione (e di eventuale ragionevole accomodamento) dei contenuti di significato di queste. Da tale punto di vista, anche le questioni che riguardano la tutela del sentimento religioso potrebbero rivelarsi strettamente connesse alle questioni che investono in via principale la configurabilità del diritto di libertà religiosa come scriminante: quasi che la crescita dei dubbi intorno al primo tipo di questioni si mostri agli osservatori direttamente proporzionale alla conquista di certezze in merito al secondo tipo di questioni. In tanto, ad ogni statuto normativo (o sistema giuridico) può servire il sussidio estremo (del deterrente e della repressione) delle pene,solo in quanto ogni statuto o sistema, pur astrattamente formalizzato, deve necessariamente misurarsi con la propria capacità effettiva di porsi all’ascolto e farsi interprete (nel senso più specifico di: traduttore) delle molteplici, sempre nuove e spesso tra di esse contrapposte, istanze di partecipazione, siano queste ultime espresse in forme individuali, collettive ovvero istituzionali. Il contributo mette in luce come la tutela delle istanze (non già di prevenzione, bensì) di partecipazione, socialmente avanzate attraverso l’esercizio della libertà religiosa da parte di individui, gruppi e istituzioni, dipenda dalla capacità di tutti i rami dell’ordinamento, e soprattutto di quelli diversi dal diritto penale, di evitare il più possibile le collisioni con gli statuti normativi “altri”, diritti delle religioni in testa. E il tema specifico delle questioni ricondotte dalla dottrina e dalla giurisprudenza nell’ambito della fattispecie dell’esercizio del diritto di libertà religiosa come causa di esclusione dell’antigiuridicità di taluni comportamenti consente di evidenziare, al medesimo tempo, i limiti che è destinato ad incontrare, ma anche e soprattutto i margini entro i quali può essere fatto beneficamente operare il processo di “flessibilizzazione”persino delle leggi penali di un ordinamento giuridico sedicente liberaldemocratico. Può aiutare, cioè, a comprendere meglio fino a che punto e con quali vantaggi possiamo disporci senza paura ad accettare e addirittura a promuovere una relaxatio del diritto autoritariamente formalizzato secondo il modello repressivo della giustizia vendicativa, a fronte di comportamenti penalmente sanzionabili (che si dimostrino, però) giustificati dal bisogno spirituale della persona di conformarsi nel proprio agire a prescrizioni di diritti (considerati) “altri” (in quanto) positivizzati invece, libertariamente, secondo un modello curativo (o, se preferite, medicinale, intrinsecamente immunitario) di giustizia (“diversa” in quanto) riparativa (della fragilità umana), redentrice. Un modello capace, cioè, di far convivere forme di autoritarismo patriarcale e forme di indulgenza materna, elementi propri della cultura giuridica continentale ed elementi tipici della cultura giuridica anglosassone, disponendosi a sacrificare la certezza formale della norma in nome della certezza che si realizzi il bene della persona, sì da creare continuità terminologica tra penitenza e pena.Il complesso quadro casistico tracciato nel lavoro dimostra come la possibilità di ricondurre nell’alveo di uno statuto normativo confessionale le manifestazioni della libertà religiosa che pretendono di giustificare condotte sanzionate dal nostro ordinamento faciliti il cammino attraverso il quale lo Stato, per il tramite dei suoi operatori giuridici,può giungere a consentire una flessione delle proprie norme. L’operazione di bilanciamento da compiere “a valle”, in sede applicativa, è resa ancora più agevole quando è possibile rinvenire anche, all’interno del nostro ordinamento, una qualche fonte speciale, sia essa unilateralmente prodotta o bilateralmente negoziata tra stato e confessione, che giovi ad assicurare “a monte” la legittimazione e la tollerabilità delle eccezioni alla regola. Soltanto fuori da questi casi, similmente a quanto avviene per i cosiddetti reati culturali, è attraverso la consegna al mero e più insicuro diritto giurisprudenziale che si giocherà la partita dell’effettiva tutela di quelle situazioni giuridiche in cui risulterà più difficile cercare e trovare – fra le pieghe, fra gli spazi vuoti presenti all’interno degli elementi del reato (fatto, antigiuridicità,colpevolezza, punibilità) o, in subordine, nella fase di commisurazione della pena – le soluzioni idonee a conciliare le istanze di prevenzione con le istanze di partecipazione, disponendosi a modificare le regole per salvaguardare i rapporti, piuttosto che a sacrificare questi ultimi a favore delle prime, sì da sforzarsi di armonizzare la «giustizia come certezza (formale)» con la «certezza della giustizia (materiale)».

Dei Diritti e delle pene: note a margine del (paradosso del) valore medicinale laicamente riconoscibile all'uso della libertà religiosa come scriminante

DOMIANELLO, Rosaria Maria
2016-01-01

Abstract

Il contributo evidenzia come l’evoluzione della tutela penale del sentimento religioso - avvenuta, prima, in forza degli interventi della giurisprudenza costituzionale a partire dal 1995 e, poi, in forza delle novità legislative introdotte, nel 1999, in materia di depenalizzazione dei reati minori, e nel 2006, in materia di reati di opinione - abbia mirato, da un lato, a “contenere” il ricorso alla criminalizzazione delle condotte nei limiti (attuazione del principio di) della sussidiarietà, e d’altro lato, a “contenere” la tutela penale diretta del sentimento religioso individuale nei limiti della (attuazione del principio di) eguale libertà delle confessioni religiose. La scelta della depenalizzazione e della conversione in meri illeciti amministrativi dei reati contravvenzionali (di bestemmia, uso abusivo d’abito ecclesiastico e danneggiamento di affissioni confessionalmente disposte) viene descritta come sintomatica di un’evoluzione complessiva del nostro ordinamento giuridico tutt’altro che orientata nel senso di affermare un’assoluta ed aprioristica esclusione d’ogni ipotesi di rilevanza degli statuti personali non ancorabili ai precetti di un diritto confessionale. La tesi sviluppata nel lavoro è che la scelta in questione risponda all’esigenza generale di chiarire: per un verso, che il diritto penale può considerarsi idoneo ad intervenire in una materia così delicata qual è quella dell’esercizio del diritto di libertà religiosa soltanto in via residuale, sussidiaria, nei casi in cui risulti come assolutamente indispensabile far prevalere le istanze di prevenzione sulle istanze di partecipazione; ma, al tempo stesso, per altro verso, che il carico (in via) principale della tutela giuridica delle molteplici e svariate forme di espressione della libertà di religione dev’essere rimesso invece a tutti quegli “altri” rami dell’ordinamento che sono maggiormente idonei a garantire l’accoglienza delle istanze di partecipazione dei destinatari delle norme ai processi di determinazione (e di eventuale ragionevole accomodamento) dei contenuti di significato di queste. Da tale punto di vista, anche le questioni che riguardano la tutela del sentimento religioso potrebbero rivelarsi strettamente connesse alle questioni che investono in via principale la configurabilità del diritto di libertà religiosa come scriminante: quasi che la crescita dei dubbi intorno al primo tipo di questioni si mostri agli osservatori direttamente proporzionale alla conquista di certezze in merito al secondo tipo di questioni. In tanto, ad ogni statuto normativo (o sistema giuridico) può servire il sussidio estremo (del deterrente e della repressione) delle pene,solo in quanto ogni statuto o sistema, pur astrattamente formalizzato, deve necessariamente misurarsi con la propria capacità effettiva di porsi all’ascolto e farsi interprete (nel senso più specifico di: traduttore) delle molteplici, sempre nuove e spesso tra di esse contrapposte, istanze di partecipazione, siano queste ultime espresse in forme individuali, collettive ovvero istituzionali. Il contributo mette in luce come la tutela delle istanze (non già di prevenzione, bensì) di partecipazione, socialmente avanzate attraverso l’esercizio della libertà religiosa da parte di individui, gruppi e istituzioni, dipenda dalla capacità di tutti i rami dell’ordinamento, e soprattutto di quelli diversi dal diritto penale, di evitare il più possibile le collisioni con gli statuti normativi “altri”, diritti delle religioni in testa. E il tema specifico delle questioni ricondotte dalla dottrina e dalla giurisprudenza nell’ambito della fattispecie dell’esercizio del diritto di libertà religiosa come causa di esclusione dell’antigiuridicità di taluni comportamenti consente di evidenziare, al medesimo tempo, i limiti che è destinato ad incontrare, ma anche e soprattutto i margini entro i quali può essere fatto beneficamente operare il processo di “flessibilizzazione”persino delle leggi penali di un ordinamento giuridico sedicente liberaldemocratico. Può aiutare, cioè, a comprendere meglio fino a che punto e con quali vantaggi possiamo disporci senza paura ad accettare e addirittura a promuovere una relaxatio del diritto autoritariamente formalizzato secondo il modello repressivo della giustizia vendicativa, a fronte di comportamenti penalmente sanzionabili (che si dimostrino, però) giustificati dal bisogno spirituale della persona di conformarsi nel proprio agire a prescrizioni di diritti (considerati) “altri” (in quanto) positivizzati invece, libertariamente, secondo un modello curativo (o, se preferite, medicinale, intrinsecamente immunitario) di giustizia (“diversa” in quanto) riparativa (della fragilità umana), redentrice. Un modello capace, cioè, di far convivere forme di autoritarismo patriarcale e forme di indulgenza materna, elementi propri della cultura giuridica continentale ed elementi tipici della cultura giuridica anglosassone, disponendosi a sacrificare la certezza formale della norma in nome della certezza che si realizzi il bene della persona, sì da creare continuità terminologica tra penitenza e pena.Il complesso quadro casistico tracciato nel lavoro dimostra come la possibilità di ricondurre nell’alveo di uno statuto normativo confessionale le manifestazioni della libertà religiosa che pretendono di giustificare condotte sanzionate dal nostro ordinamento faciliti il cammino attraverso il quale lo Stato, per il tramite dei suoi operatori giuridici,può giungere a consentire una flessione delle proprie norme. L’operazione di bilanciamento da compiere “a valle”, in sede applicativa, è resa ancora più agevole quando è possibile rinvenire anche, all’interno del nostro ordinamento, una qualche fonte speciale, sia essa unilateralmente prodotta o bilateralmente negoziata tra stato e confessione, che giovi ad assicurare “a monte” la legittimazione e la tollerabilità delle eccezioni alla regola. Soltanto fuori da questi casi, similmente a quanto avviene per i cosiddetti reati culturali, è attraverso la consegna al mero e più insicuro diritto giurisprudenziale che si giocherà la partita dell’effettiva tutela di quelle situazioni giuridiche in cui risulterà più difficile cercare e trovare – fra le pieghe, fra gli spazi vuoti presenti all’interno degli elementi del reato (fatto, antigiuridicità,colpevolezza, punibilità) o, in subordine, nella fase di commisurazione della pena – le soluzioni idonee a conciliare le istanze di prevenzione con le istanze di partecipazione, disponendosi a modificare le regole per salvaguardare i rapporti, piuttosto che a sacrificare questi ultimi a favore delle prime, sì da sforzarsi di armonizzare la «giustizia come certezza (formale)» con la «certezza della giustizia (materiale)».
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