Per delineare un percorso è necessario ricordare i primi passi. Così come, per costruire un edificio, è inevitabile partire dalle fondamenta. Questa è la ragione per cui ritengo opportuno un breve riassunto delle mie riflessioni iniziali, che costituiscono la base della ricerca condotta. Punto di partenza è da considerarsi il rapporto nous e dianoia nel pensiero aristotelico. I due termini, non sono di facile traduzione; per renderli al meglio è necessario contestualizzarli all’interno del Corpus aristotelico, il che significa tenere conto dell’ambito scientifico in cui occorrono. In un primo momento, l’attenzione è stata posta sulle opere biologiche e su alcune di quelle cosiddette linguistiche , con l’idea di cercare e trovare un fondamento biologico – linguistico della facoltà noetico – dianoetica, peculiare della specie umana. La definirei in tal modo secondo quanto ho potuto dedurre dai miei studi: nous e dianoia non sono due diverse facoltà dell’anima umana, non due diverse disposizioni del conoscere. Piuttosto dovremmo pensare a due aspetti di un’unica disposizione, di una sola attitudine conoscitiva, che si compenetrano a vicenda (confermato dal fatto che non esistono oggetti correlativi nebe determinati, come nel caso delle altre facoltà dell’anima, compresa la phantasia). Si tratta piuttosto di uno “sdoppiamento” della medesima facoltà, o meglio ancora di un dispiegamento temporale del nous che, perdendo il proprio carattere di immediatezza, si temporalizza, sia nella dimensione discorsiva, dunque nel logos, sia, come ho avuto modo di costatare continuando gli studi, in quella dell’azione, praxis . Il nous si configura come capacità di cogliere e di comprendere in modo puntuale e intuitivo. Tale considerazione sulla natura del nous verte sul significato originario del termine nella tradizione greca. In Omero tale facoltà indica una particolare e caratteristica modalità del vedere, cioè il “vedere come”, nel senso di “cogliere in un colpo d’occhio”, “riconoscere istantaneamente”, traduzioni che sottolineano questa dimensione di puntualità e immediatezza. Nella sua traduzione del poema di Parmenide, Giovanni Cerri (1997) traduce nous e noēsis con 'comprensione', rendendo così il legame tra leghein, noein e einai in Parmenide. Ci sono buoni motivi per riferire una simile interpretazione anche al nous aristotelico. Sul piano linguistico quindi, del tutto affine a quello biologico se pensiamo al linguaggio come prodotto naturale e peculiare dell’uomo, renderei il termine con “intelletto”, la proposta che storicamente ha avuto più fortuna tra gli interpeti o con “comprensione”, per mettere in evidenza l’idea che il nous capti qualcosa in modo istantaneo. Ecco che interviene la dianoia, come capacità di dispiegamento e articolazione linguistica, come facoltà che consente di mediare nel tempo (anche il dia esprime nella lingua greca tale mediazione, quindi una mediazione di un atto intuitivo come quello noetico) l’immediatezza della comprensione noetica. Il nous coglie nell’attimo, la dianoia traduce, articolando e dispiegando nel tempo. Il linguaggio sembra essere per Aristotele la chiave di lettura della realtà. Su esso si basa la conoscenza, l’interpretazione, la comunicazione, anche l’azione. E’ imprescindibile infatti, in ottica aristotelica, che ogni cosa esistente sia definibile, e la definizione diviene il fondamento per la costruzione di senso di ogni discorso. La definizione , che rivela l’essenza di ogni cosa esistente, è, linguisticamente, un sostrato, potremmo dire una “sostanza” linguistica, una certezza su cui fondare il nostro linguaggio. Quest’ultimo è sempre nuovo, dinamico, legato all’azione, legato al contesto, ma quando si parla, si ha la consapevolezza che la definizione esprime ciò che sempre è, è stato e sarà; esprime i cosiddetti “predicati dell’essenza”, che teniamo bene a mente ogni volta che parliamo. Interessante, quando affrontiamo il tema del linguaggio nella filosofia aristotelica, è questa tensione tra ciò che resta sempre identico nel linguaggio, e la vivacità che accompagna la mutevolezza del nostro parlare. È tra questi estremi che si colloca il ponte dianoetico. L’aspetto che riguarda l’ immutabilità, anche se rischia di risultare meno stimolante e meno attuale del secondo, non va sottovalutato parlando di Aristotele, che resta, ricordiamo, innamorato dell’eternità, e a supporto di ciò, possiamo riportare moltissimi esempi riguardanti non solo la filosofia del linguaggio, direttamente legata, come si evince, alla sua ontologia ma anche alla teologia / astronomia. Nel corpo linguistico troviamo il divenire che si fonde con l’immutabile, lo stesso in ogni essere vivente. La vita infatti è continuamente rinnovata, si nasce, si vive e si muore . La vita è eterna nella sua essenza, biologicamente nella specie, e mutevole nel singolo individuo. Lo stesso avviene nel linguaggio. Dunque sembra appropriato parlare di “corpo linguistico” come corpo vivente . Il discorso è vivo: porta con sé l’immutabile (dato dalle definizioni), ma le infinite combinazioni linguistiche lo rendono, se vogliamo anche imprevedibile, sempre nuovo e fonte di arricchimento. Secondo quanto lo stesso Aristotele afferma, vi sono due tipi di predicazione, quella essenziale, con cui uniamo quello che non è (e non sarà mai) separabile in natura, e questo è il caso delle definizioni, o accidentale, quando rendiamo un predicato inerente ad un sostrato senza alcuna necessità. In questo caso possiamo facilmente commettere errore nel nostro parlare. Se pensiamo che secondo Aristotele il principio delle scienze è “ciò con cui conosciamo le definizioni” , inoltre, “come nelle altre cose il principio è semplice, nella scienza e nella dimostrazione è il nous” , la scelta di rendere il termine con ‘comprensione linguistica’ pare giustificata. Anche l’idea della natura linguistica della dianoia, di conseguenza (si tratta infatti della medesima facoltà), è supportata dalle parole di Aristotele: “διανοεῖσθαι δ' ἐνδέχεται καὶ ψευδῶς, καὶ οὐδενὶ ὑπάρχει ᾧ μὴ καὶ λόγος”, quindi “La comprensione / articolazione non si ammette per nessuno al quale non appartiene la facoltà linguistica” . Aristotele distingue inoltre la dianoia dalla phantasia, dicendo di quest’ultima che non è sensazione, ma nemmeno dianoia. Infatti attraverso essa costruiamo strutture simil-predicative, con la dianoia costruiamo il linguaggio. Vi sarebbe anche, a proposito del rapporto nous / dianoia, una questione tecnica riguardante gli elementi costitutivi del linguaggio, presentati da Aristotele con assoluta congruenza in Poetica XX, 2, 16a 4-17a 8 e in De Interpretatione, 1. Il nome viene definito come “voce composta, dotata significato, senza nozione di tempo, nessuna parte della quale è di per sé significante” . Esso è una nozione semplice, autonoma sul piano semantico e anche su quello morfologico. Il significato in esso è inesteso e puntuale e morfologicamente il nome è una parola. In An. Post., 93b 29-31, viene detto della definizione che essa è “la proposizione che esprime ciò che la parola significa”, confermato da Met., VIII, 1045a 26-27: “il nome è segno della definizione”. I nomi sono temporalmente inestesi e il loro significato è contratto, dato nella immediatezza. Viene da pensare ad una possibile correlazione tra il nome e il nous, come se la natura del nome, così come delineata da Aristotele suggerisse che il nous ne sia la facoltà di riferimento, come se i nomi si cogliessero nell’istante (secondo quanto detto in precedenza sulla istantaneità del nous). Non che la comprensione immediata debba necessariamente essere considerata alinguistica in Aristotele, il nome d'altronde, nella sua massima semplicità di determinatezza semantica è già voce articolata. Ma nel nome la definizione è espressa senza tempo. Quest'ultima come logos, come struttura linguistica dotata anche di verbo (rema), definito come “voce composta dotata di significato, con nozione di tempo, è una unità semantica che conosce sviluppo temporale. Sono proprio le espressioni “aneu chronou” in riferimento al nome e “meta chronou” in riferimento al verbo che potrebbero suggerirci l'intervento della dianoia nel processo di costruzione del linguaggio. Il verbo conferisce certo una linearità al nostro parlare. La dianoia non interviene solo nella formulazione di ogni logos, ma anche nella formulazione delle definizioni (proprio in quanto logoi); anche se teniamo bene a mente che Aristotele le definisce come oggetto del nous. Dopo quest’ultima parentesi torniamo all’idea di dianoia come facoltà di articolazione. Significative, ai fini del mio lavoro, sono state le rflessioni di Guido Calogero . Egli propone una definizione sistematica di dianoia, che invece non troviamo in Aristotele, e dice: “L’attività del nous è infatti la pura intuizione e appercezione intellettuale. La dianoia è invece la funzione che unisce o divide questi elementi unitari in una sintesi predicativa, coincidendo quindi senz’altro con l’attività di giudizio (…)”. La dianoia viene presentata come funzione. Funzione è innanzitutto uno dei concetti più importanti della matematica, indica un legame, tra termini o elementi. In questo caso, in ambito linguistico, il significato matematico della funzione si conserva intatto. La dianoia può sia unire – affermando – sia dividere – negando – elementi unitari, laddove l’unitarietà fa certamente riferimento all’immediatezza e al carattere intuitivo che Calogero riconosce al nous, come tratto distintivo rispetto al carattere dialogico / discorsivo della dianoia. Ma non è tutto, riaccostandoci al testo aristotelico ci accorgiamo che Aristotele parla di funzioni in modo molto chiaro, intendendo l’attività, o le attività, esplicate da ogni facoltà. Infatti quando in apertura del II libro del De Anima, presenta la facoltà nutritiva, immediatamente chiarisce la natura del suo oggetto di indagine e ci dice che dobbiamo in primo luogo considerare le attività o funzioni corrispondenti, cioè la nutrizione nel caso della facoltà nutritiva, la sensazione nel caso di quella sensitiva e l'intellezione per quanto riguarda l'intellettiva. Ma prima ancora dobbiamo rivolgerci agli oggetti correlativi, l'alimento, il sensibile e l'intelligibile. La scelta di questo criterio di ricerca dipende certamente dal fatto che sia l'attività, sia gli oggetti correlativi sono entità sensibili, facilmente osservabili empiricamente. La facoltà (dunamis) è invece una disposizione, qualcosa potenzialmente realizzabile ma di fatto non ancora realizzata. Seguendo questa interpretazione, si potrebbe pensare di individuare il ruolo della dianoia proprio come funzione del nous, indagando circa l’attività o piuttosto le attività che essa svolge a livello conoscitivo e nel contesto dell’azione. Tutto è in via di approfondimento. Proporrei, per chiudere questa prima parte, una sorta di uguaglianza: come ontologicamente (e potremmo dire, sottolineando gli interessi aristotelici, biologicamente) l’eternità sta alla mutevolezza, così, linguisticamente, la capacità di definire sta alla capacità di formulare discorsi sempre nuovi. Così, in ultima analisi, il nous sta alla dianoia. Mentre attraverso le definizioni cogliamo ciò che non cambia, allo stesso modo, parlando, prendiamo atto che la realtà è soggetta a un continuo cambiamento. Il discorso non è solo compreso; la comprensione del discorso fine a sé stessa, ha in sé poco valore a livello pratico, ma acquisisce maggiore importanza se la pensiamo legata all’azione. E’ la dianoia il ponte che consente l’attuarsi di un determinato comportamento, di una determinata azione. Dunque la dianoia è anche la guida che orienta la nostra vita pratica. Alla parola (logos) segue l’azione. Per cui la dianoia potrebbe configurarsi, anche come la capacità di prevedere gli effetti che seguono ad una azione, oltre ad essere disposizione comunicativa che interviene tecnicamente nei processi di articolazione linguistica, e nel ragionamento dimostrativo. Giungo alla conclusione che essa adempia alle funzioni pratiche della vita dell’uomo e che abbia un ruolo assolutamente attivo. Le sole opere biologiche e linguistiche sono risultate dunque insufficienti per l’analisi della dianoia nel pensiero aristotelico. L’orizzonte si è aperto includendo l’Ethica Nicomachea. Fonte di interesse nella prima il rapporto tra virtù etiche e virtù dianoetiche: molto brevemente, le prime si configurano come virtù del carattere, e sono quelle virtù che delineano i tratti distintivi dell’uomo nella sua individualità, tendono infatti alla medietà, al giusto mezzo, riguardando le passioni e le azioni; non così quelle dianoetiche, la cui natura è essenzialmente diversa. Queste ultime sono virtù (intendendo aristotelicamente la virtù come ciò che è proprio di una cosa in rapporto alla sua funzione) dedite alla conoscenza e sembra che siano costitutive della natura umana. Aristotele le definisce “virtù che caratterizzano il pensiero” . Ne concludiamo che tali virtù sono proprie del pensiero in rapporto alla funzione del pensiero stesso, tale funzione è la verità , che chiaramente è una qualità esclusivamente linguistica, una qualità degli enunciati. Il linguaggio continua ad essere il filo conduttore, non ci siamo spostati dal piano linguistico, stiamo piuttosto cercando di legarlo al piano dell’azione. Si tratta di virtù linguistiche che orientano la persona verso un’azione. Interessante notare come il νοῦς sia annoverato tra queste disposizioni (insieme a techne, epistemē, phronesis e sophia) che vengono chiamate, non a caso, dianoetiche. Del nous vengono dette un paio di cose essenziali, ovvero che esso tende al vero sempre attraverso l’enunciato, e che tramite esso cogliamo i principi. Questi ultimi sono quindi i suoi oggetti, oggetti comprensibili solo attraverso l’atto noetico. In Ethica Nicomachea, I, si parla inoltre di un’altra virtù dianoetica, la sunesis, che indica la comprensione della parola detta. Syniemi, verbo corradicale e capostipite, ha un significato molto specifico nel lessico greco, indica la comprensione uditiva, con una doppia valenza bio – linguistica, linguistica in quanto comprensione della parola detta, biologica in quanto comprensione attraverso l’orecchio, organo dell’udito. Ai fini dell’azione moralmente buona è necessario un convergere del desiderio retto – è chiaro che le passioni influenzano la vita dell’uomo – e di discorso vero. La verità, propria del linguaggio, concorre alla determinazione della la giusta scelta. Dice infatti Aristotele: “Perciò la scelta è intelletto che desidera o desiderio che ragiona (…)” . Interessante a questo proposito il confronto con gli ultimi capitoli del III libro del De Anima, dedicati alla facoltà appetitiva, alla capacità di movimento, e alla deliberazione. Il nous e il desiderio sono dette le cause del movimento, inoltre si dice anche che il nous pratico è differente da quello teoretico per lo scopo e “ordina di resistere in vista del futuro, mentre il desiderio comanda sulla basa del presente (…)” . Infine, fonte di interesse in Poetica, come vedremo nell’ultimo paragrafo, il ruolo della dianoia, annoverata tra gli elementi costituivi della tragedia, come pensiero che serve “per dimostrare qualcosa o per presentare un’opinione”. Questa prima definizione mostra, confermandolo ancora una volta, il carattere linguistico della dianoia. Sia il ‘dimostrare’, sia il ‘proporre un’opinione’, sono infatti atti linguistici, che hanno un enorme risvolto nel concreto. Successivamente, la dianoia viene proposta come “capacità di dire cose adatte”, e in tal modo essa viene configurata come discorso orientato verso un fine preciso, e che guida la scelta pratica. Anzi più precisamente sembra che veicoli il contenuto proprio del discorso, morale, nel caso della tragedia, se pensiamo al ruolo catartico che Aristotele attribuisce ad essa.

Nous e dianoia in Aristotele Un’interpretazione linguistica

SANDONATO, LUCIA
2017-09-28

Abstract

Per delineare un percorso è necessario ricordare i primi passi. Così come, per costruire un edificio, è inevitabile partire dalle fondamenta. Questa è la ragione per cui ritengo opportuno un breve riassunto delle mie riflessioni iniziali, che costituiscono la base della ricerca condotta. Punto di partenza è da considerarsi il rapporto nous e dianoia nel pensiero aristotelico. I due termini, non sono di facile traduzione; per renderli al meglio è necessario contestualizzarli all’interno del Corpus aristotelico, il che significa tenere conto dell’ambito scientifico in cui occorrono. In un primo momento, l’attenzione è stata posta sulle opere biologiche e su alcune di quelle cosiddette linguistiche , con l’idea di cercare e trovare un fondamento biologico – linguistico della facoltà noetico – dianoetica, peculiare della specie umana. La definirei in tal modo secondo quanto ho potuto dedurre dai miei studi: nous e dianoia non sono due diverse facoltà dell’anima umana, non due diverse disposizioni del conoscere. Piuttosto dovremmo pensare a due aspetti di un’unica disposizione, di una sola attitudine conoscitiva, che si compenetrano a vicenda (confermato dal fatto che non esistono oggetti correlativi nebe determinati, come nel caso delle altre facoltà dell’anima, compresa la phantasia). Si tratta piuttosto di uno “sdoppiamento” della medesima facoltà, o meglio ancora di un dispiegamento temporale del nous che, perdendo il proprio carattere di immediatezza, si temporalizza, sia nella dimensione discorsiva, dunque nel logos, sia, come ho avuto modo di costatare continuando gli studi, in quella dell’azione, praxis . Il nous si configura come capacità di cogliere e di comprendere in modo puntuale e intuitivo. Tale considerazione sulla natura del nous verte sul significato originario del termine nella tradizione greca. In Omero tale facoltà indica una particolare e caratteristica modalità del vedere, cioè il “vedere come”, nel senso di “cogliere in un colpo d’occhio”, “riconoscere istantaneamente”, traduzioni che sottolineano questa dimensione di puntualità e immediatezza. Nella sua traduzione del poema di Parmenide, Giovanni Cerri (1997) traduce nous e noēsis con 'comprensione', rendendo così il legame tra leghein, noein e einai in Parmenide. Ci sono buoni motivi per riferire una simile interpretazione anche al nous aristotelico. Sul piano linguistico quindi, del tutto affine a quello biologico se pensiamo al linguaggio come prodotto naturale e peculiare dell’uomo, renderei il termine con “intelletto”, la proposta che storicamente ha avuto più fortuna tra gli interpeti o con “comprensione”, per mettere in evidenza l’idea che il nous capti qualcosa in modo istantaneo. Ecco che interviene la dianoia, come capacità di dispiegamento e articolazione linguistica, come facoltà che consente di mediare nel tempo (anche il dia esprime nella lingua greca tale mediazione, quindi una mediazione di un atto intuitivo come quello noetico) l’immediatezza della comprensione noetica. Il nous coglie nell’attimo, la dianoia traduce, articolando e dispiegando nel tempo. Il linguaggio sembra essere per Aristotele la chiave di lettura della realtà. Su esso si basa la conoscenza, l’interpretazione, la comunicazione, anche l’azione. E’ imprescindibile infatti, in ottica aristotelica, che ogni cosa esistente sia definibile, e la definizione diviene il fondamento per la costruzione di senso di ogni discorso. La definizione , che rivela l’essenza di ogni cosa esistente, è, linguisticamente, un sostrato, potremmo dire una “sostanza” linguistica, una certezza su cui fondare il nostro linguaggio. Quest’ultimo è sempre nuovo, dinamico, legato all’azione, legato al contesto, ma quando si parla, si ha la consapevolezza che la definizione esprime ciò che sempre è, è stato e sarà; esprime i cosiddetti “predicati dell’essenza”, che teniamo bene a mente ogni volta che parliamo. Interessante, quando affrontiamo il tema del linguaggio nella filosofia aristotelica, è questa tensione tra ciò che resta sempre identico nel linguaggio, e la vivacità che accompagna la mutevolezza del nostro parlare. È tra questi estremi che si colloca il ponte dianoetico. L’aspetto che riguarda l’ immutabilità, anche se rischia di risultare meno stimolante e meno attuale del secondo, non va sottovalutato parlando di Aristotele, che resta, ricordiamo, innamorato dell’eternità, e a supporto di ciò, possiamo riportare moltissimi esempi riguardanti non solo la filosofia del linguaggio, direttamente legata, come si evince, alla sua ontologia ma anche alla teologia / astronomia. Nel corpo linguistico troviamo il divenire che si fonde con l’immutabile, lo stesso in ogni essere vivente. La vita infatti è continuamente rinnovata, si nasce, si vive e si muore . La vita è eterna nella sua essenza, biologicamente nella specie, e mutevole nel singolo individuo. Lo stesso avviene nel linguaggio. Dunque sembra appropriato parlare di “corpo linguistico” come corpo vivente . Il discorso è vivo: porta con sé l’immutabile (dato dalle definizioni), ma le infinite combinazioni linguistiche lo rendono, se vogliamo anche imprevedibile, sempre nuovo e fonte di arricchimento. Secondo quanto lo stesso Aristotele afferma, vi sono due tipi di predicazione, quella essenziale, con cui uniamo quello che non è (e non sarà mai) separabile in natura, e questo è il caso delle definizioni, o accidentale, quando rendiamo un predicato inerente ad un sostrato senza alcuna necessità. In questo caso possiamo facilmente commettere errore nel nostro parlare. Se pensiamo che secondo Aristotele il principio delle scienze è “ciò con cui conosciamo le definizioni” , inoltre, “come nelle altre cose il principio è semplice, nella scienza e nella dimostrazione è il nous” , la scelta di rendere il termine con ‘comprensione linguistica’ pare giustificata. Anche l’idea della natura linguistica della dianoia, di conseguenza (si tratta infatti della medesima facoltà), è supportata dalle parole di Aristotele: “διανοεῖσθαι δ' ἐνδέχεται καὶ ψευδῶς, καὶ οὐδενὶ ὑπάρχει ᾧ μὴ καὶ λόγος”, quindi “La comprensione / articolazione non si ammette per nessuno al quale non appartiene la facoltà linguistica” . Aristotele distingue inoltre la dianoia dalla phantasia, dicendo di quest’ultima che non è sensazione, ma nemmeno dianoia. Infatti attraverso essa costruiamo strutture simil-predicative, con la dianoia costruiamo il linguaggio. Vi sarebbe anche, a proposito del rapporto nous / dianoia, una questione tecnica riguardante gli elementi costitutivi del linguaggio, presentati da Aristotele con assoluta congruenza in Poetica XX, 2, 16a 4-17a 8 e in De Interpretatione, 1. Il nome viene definito come “voce composta, dotata significato, senza nozione di tempo, nessuna parte della quale è di per sé significante” . Esso è una nozione semplice, autonoma sul piano semantico e anche su quello morfologico. Il significato in esso è inesteso e puntuale e morfologicamente il nome è una parola. In An. Post., 93b 29-31, viene detto della definizione che essa è “la proposizione che esprime ciò che la parola significa”, confermato da Met., VIII, 1045a 26-27: “il nome è segno della definizione”. I nomi sono temporalmente inestesi e il loro significato è contratto, dato nella immediatezza. Viene da pensare ad una possibile correlazione tra il nome e il nous, come se la natura del nome, così come delineata da Aristotele suggerisse che il nous ne sia la facoltà di riferimento, come se i nomi si cogliessero nell’istante (secondo quanto detto in precedenza sulla istantaneità del nous). Non che la comprensione immediata debba necessariamente essere considerata alinguistica in Aristotele, il nome d'altronde, nella sua massima semplicità di determinatezza semantica è già voce articolata. Ma nel nome la definizione è espressa senza tempo. Quest'ultima come logos, come struttura linguistica dotata anche di verbo (rema), definito come “voce composta dotata di significato, con nozione di tempo, è una unità semantica che conosce sviluppo temporale. Sono proprio le espressioni “aneu chronou” in riferimento al nome e “meta chronou” in riferimento al verbo che potrebbero suggerirci l'intervento della dianoia nel processo di costruzione del linguaggio. Il verbo conferisce certo una linearità al nostro parlare. La dianoia non interviene solo nella formulazione di ogni logos, ma anche nella formulazione delle definizioni (proprio in quanto logoi); anche se teniamo bene a mente che Aristotele le definisce come oggetto del nous. Dopo quest’ultima parentesi torniamo all’idea di dianoia come facoltà di articolazione. Significative, ai fini del mio lavoro, sono state le rflessioni di Guido Calogero . Egli propone una definizione sistematica di dianoia, che invece non troviamo in Aristotele, e dice: “L’attività del nous è infatti la pura intuizione e appercezione intellettuale. La dianoia è invece la funzione che unisce o divide questi elementi unitari in una sintesi predicativa, coincidendo quindi senz’altro con l’attività di giudizio (…)”. La dianoia viene presentata come funzione. Funzione è innanzitutto uno dei concetti più importanti della matematica, indica un legame, tra termini o elementi. In questo caso, in ambito linguistico, il significato matematico della funzione si conserva intatto. La dianoia può sia unire – affermando – sia dividere – negando – elementi unitari, laddove l’unitarietà fa certamente riferimento all’immediatezza e al carattere intuitivo che Calogero riconosce al nous, come tratto distintivo rispetto al carattere dialogico / discorsivo della dianoia. Ma non è tutto, riaccostandoci al testo aristotelico ci accorgiamo che Aristotele parla di funzioni in modo molto chiaro, intendendo l’attività, o le attività, esplicate da ogni facoltà. Infatti quando in apertura del II libro del De Anima, presenta la facoltà nutritiva, immediatamente chiarisce la natura del suo oggetto di indagine e ci dice che dobbiamo in primo luogo considerare le attività o funzioni corrispondenti, cioè la nutrizione nel caso della facoltà nutritiva, la sensazione nel caso di quella sensitiva e l'intellezione per quanto riguarda l'intellettiva. Ma prima ancora dobbiamo rivolgerci agli oggetti correlativi, l'alimento, il sensibile e l'intelligibile. La scelta di questo criterio di ricerca dipende certamente dal fatto che sia l'attività, sia gli oggetti correlativi sono entità sensibili, facilmente osservabili empiricamente. La facoltà (dunamis) è invece una disposizione, qualcosa potenzialmente realizzabile ma di fatto non ancora realizzata. Seguendo questa interpretazione, si potrebbe pensare di individuare il ruolo della dianoia proprio come funzione del nous, indagando circa l’attività o piuttosto le attività che essa svolge a livello conoscitivo e nel contesto dell’azione. Tutto è in via di approfondimento. Proporrei, per chiudere questa prima parte, una sorta di uguaglianza: come ontologicamente (e potremmo dire, sottolineando gli interessi aristotelici, biologicamente) l’eternità sta alla mutevolezza, così, linguisticamente, la capacità di definire sta alla capacità di formulare discorsi sempre nuovi. Così, in ultima analisi, il nous sta alla dianoia. Mentre attraverso le definizioni cogliamo ciò che non cambia, allo stesso modo, parlando, prendiamo atto che la realtà è soggetta a un continuo cambiamento. Il discorso non è solo compreso; la comprensione del discorso fine a sé stessa, ha in sé poco valore a livello pratico, ma acquisisce maggiore importanza se la pensiamo legata all’azione. E’ la dianoia il ponte che consente l’attuarsi di un determinato comportamento, di una determinata azione. Dunque la dianoia è anche la guida che orienta la nostra vita pratica. Alla parola (logos) segue l’azione. Per cui la dianoia potrebbe configurarsi, anche come la capacità di prevedere gli effetti che seguono ad una azione, oltre ad essere disposizione comunicativa che interviene tecnicamente nei processi di articolazione linguistica, e nel ragionamento dimostrativo. Giungo alla conclusione che essa adempia alle funzioni pratiche della vita dell’uomo e che abbia un ruolo assolutamente attivo. Le sole opere biologiche e linguistiche sono risultate dunque insufficienti per l’analisi della dianoia nel pensiero aristotelico. L’orizzonte si è aperto includendo l’Ethica Nicomachea. Fonte di interesse nella prima il rapporto tra virtù etiche e virtù dianoetiche: molto brevemente, le prime si configurano come virtù del carattere, e sono quelle virtù che delineano i tratti distintivi dell’uomo nella sua individualità, tendono infatti alla medietà, al giusto mezzo, riguardando le passioni e le azioni; non così quelle dianoetiche, la cui natura è essenzialmente diversa. Queste ultime sono virtù (intendendo aristotelicamente la virtù come ciò che è proprio di una cosa in rapporto alla sua funzione) dedite alla conoscenza e sembra che siano costitutive della natura umana. Aristotele le definisce “virtù che caratterizzano il pensiero” . Ne concludiamo che tali virtù sono proprie del pensiero in rapporto alla funzione del pensiero stesso, tale funzione è la verità , che chiaramente è una qualità esclusivamente linguistica, una qualità degli enunciati. Il linguaggio continua ad essere il filo conduttore, non ci siamo spostati dal piano linguistico, stiamo piuttosto cercando di legarlo al piano dell’azione. Si tratta di virtù linguistiche che orientano la persona verso un’azione. Interessante notare come il νοῦς sia annoverato tra queste disposizioni (insieme a techne, epistemē, phronesis e sophia) che vengono chiamate, non a caso, dianoetiche. Del nous vengono dette un paio di cose essenziali, ovvero che esso tende al vero sempre attraverso l’enunciato, e che tramite esso cogliamo i principi. Questi ultimi sono quindi i suoi oggetti, oggetti comprensibili solo attraverso l’atto noetico. In Ethica Nicomachea, I, si parla inoltre di un’altra virtù dianoetica, la sunesis, che indica la comprensione della parola detta. Syniemi, verbo corradicale e capostipite, ha un significato molto specifico nel lessico greco, indica la comprensione uditiva, con una doppia valenza bio – linguistica, linguistica in quanto comprensione della parola detta, biologica in quanto comprensione attraverso l’orecchio, organo dell’udito. Ai fini dell’azione moralmente buona è necessario un convergere del desiderio retto – è chiaro che le passioni influenzano la vita dell’uomo – e di discorso vero. La verità, propria del linguaggio, concorre alla determinazione della la giusta scelta. Dice infatti Aristotele: “Perciò la scelta è intelletto che desidera o desiderio che ragiona (…)” . Interessante a questo proposito il confronto con gli ultimi capitoli del III libro del De Anima, dedicati alla facoltà appetitiva, alla capacità di movimento, e alla deliberazione. Il nous e il desiderio sono dette le cause del movimento, inoltre si dice anche che il nous pratico è differente da quello teoretico per lo scopo e “ordina di resistere in vista del futuro, mentre il desiderio comanda sulla basa del presente (…)” . Infine, fonte di interesse in Poetica, come vedremo nell’ultimo paragrafo, il ruolo della dianoia, annoverata tra gli elementi costituivi della tragedia, come pensiero che serve “per dimostrare qualcosa o per presentare un’opinione”. Questa prima definizione mostra, confermandolo ancora una volta, il carattere linguistico della dianoia. Sia il ‘dimostrare’, sia il ‘proporre un’opinione’, sono infatti atti linguistici, che hanno un enorme risvolto nel concreto. Successivamente, la dianoia viene proposta come “capacità di dire cose adatte”, e in tal modo essa viene configurata come discorso orientato verso un fine preciso, e che guida la scelta pratica. Anzi più precisamente sembra che veicoli il contenuto proprio del discorso, morale, nel caso della tragedia, se pensiamo al ruolo catartico che Aristotele attribuisce ad essa.
28-set-2017
Storia della filosofia antica; storia della filosofia; filosofia del linguaggio; filosofia; aristotele; nous; dianoia
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