INTRODUZIONE Broadcast Yourself . La fotografia come medium convergente «L’anima non pensa mai senza immagini». Aritostele La fotografia è un linguaggio visuale che ha subito e interpretato innumerevoli rivoluzioni tecnologiche e sociali configurandosi ora come causa ora come effetto dell’evoluzione del sentire umano. La fotografia, infatti, come medium è da considerarsi protesi delle facoltà fisiche e percettive dell’uomo. Essa assume, a seconda dell’occasione, il ruolo di estensione della memoria, degli affetti, dell’emozione, dell’identità del singolo individuo e possiede per sua natura la duplice capacità di essere emanazione diretta e allo stesso tempo rappresentazione della realtà. La possibilità del mezzo fotografico, dal punto di vista tecnico, di imprimere su un supporto materiale l’immagine del referente lo rende indice di tale referente. «Le fotografie [...] rassomigliano esattamente agli oggetti che rappresentano» (Peirce, 1931, p. 281). Ogni fotografia, in particolare, potenzia l’accesso visivo al mondo ma contemporaneamente ne fornisce anche una rappresentazione soggettiva, essendo il frutto della mano del fotografo che ritaglia, seleziona e poi scatta una parte di realtà. Le fotografie sono allo stesso tempo protesi visive e immagini rappresentative, rappresentazione e investigazione sulla realtà (Maynard, 1997). Lo sguardo contemporaneo influenza ma soprattutto è influenzato dal mezzo fotografico il quale rappresenta oggi quel potenziamento ottico ed empatico capace di soddisfare i nuovi bisogni dell’individuo singolo e della società attuale. Seppur in modo forse iperbolico, si vuole qui subito chiarire l’importanza del mezzo fotografico che oggi, innervato nel corpo umano attraverso lo smartphone, è probabilmente il medium più rappresentativo dell’era convergente, proprio perché capace di sintetizzare in sé tutte le necessità dell’individuo social. La fotografia si caratterizza oggi per la sua capacità di autodefinirsi: per scattare una fotografia non serve grande abilità tecnica, non serve più qualcuno che sviluppi i negativi e non è necessario un supporto particolare per fruirle, basta avere una macchina fotografica, ormai inclusa in ogni telefono cellulare. Il riconoscimento di questo potenziale interpretativo al mezzo fotografico non fu immediato quando la fotografia comparve nel panorama mediale dell’Ottocento. Essa, infatti, venne per lungo tempo considerata una mera riproduzione del reale capace di una funzione puramente documentaria e referenziale, mentre alla pittura veniva attribuita la ricerca formale e artistica. Non si percepiva come rilevante l’intervento diretto della mano dell’autore sulla foto e si considerava il processo chimico di impressione diretta della luce sul materiale sensibile un meccanismo esclusivamente tecnico sul quale il soggetto non poteva intervenire più di tanto. Oggi tale affermazione risulta evidentemente datata e l’immagine fotografica è ormai da lungo tempo riconosciuta quale potente strumento di trasformazione, di analisi e di interpretazione del reale. La fotografia è, come già accennato, un linguaggio che oggi più che mai diventa essenziale per le nuove generazioni che hanno identificato in essa il principale mezzo di comunicazione attraverso il quale tessere relazioni sociali. Le fotografie sono istantanee della mente che permettono di fermare un frammento di mondo, codificando la realtà in base alle intenzioni e alle emozioni del fotografo. Scattare una fotografia è un atto creativo e concettuale allo stesso tempo. È interessante osservare, in apertura di questo lavoro che fa della fotografia il suo oggetto di studio, come questo medium si sia evoluto nel tempo, o “rimediato” volendo usare un termine ormai di uso comune nei Media Studies, mantenendo invariate alcune funzioni di base. Nel presente lavoro si parlerà di memoria, di identificazione del sé, di empatia, di pixelizzazione del tempo e congelamento di momenti ed emozioni su supporti digitali, ma tali usi contemporanei sono in realtà insiti nel mezzo fotografico fin dalle sue origini. La fotografia non è propriamente la stessa del 1839, sono cambiati i supporti e i dispositivi ma il medium fotografico soddisfa vecchi bisogni. Per questo motivo il lungo dibattito sull’ontologia della fotografia e sui cambiamenti dovuti alla tanto celebrata “perdita dell’aura” e dell’indicalità dovuta alla digitalizzazione, è ormai obsoleto e poco interessante. Analoga considerazione si può in parte fare per il concetto di dematerializzazione. L’avvento del digitale non ha significato la semplice sparizione dei supporti fisici bensì la loro “rimaterializzazione” (Minniti, 2016). Anche la fotografia digitale possiede, infatti, una dimensione materiale della quale fanno parte nuovi oggetti tecnologici, schermi in particolare, che stabiliscono rapporti tattili con gli individui e si sostituiscono alla vecchia pellicola. Le immagini fotografiche non vengono più archiviate nei vecchi e polverosi album di famiglia ma nuove forme di conservazione dei ricordi continuano ad essere applicate tramite archivi digitali spesso connessi in nuvole di dati condivisi e accessibili da molteplici dispositivi in ogni luogo. Chiunque voglia indagare la fotografia oggi, dunque, non deve preoccuparsi della sua essenza e origine ma di come essa agisca sull’uomo e sulla società, delle azioni che “rimedia”, dei nuovi e vecchi bisogni che soddisfa e delle pratiche cognitivo/sensoriali che amplifica. Non serve descrivere la fotografia come impronta tecnicamente definita della realtà (considerando poi che il digitale ha messo in crisi questo assunto di base), perché sono le forme di questa impronta che ne fanno un oggetto di senso. E allora interessarsi di fotografia vuol dire interessarsi dei nuovi oggetti estetici, quali ad esempio il selfie, del loro ruolo nella società mediata e della loro influenza sull’evoluzione del sentire umano in generale. Alla base di questo potenziale fotografico c’è l’assunto secondo il quale tutte le immagini hanno un effetto retroattivo sulla mente dell’essere umano in quanto plasmano il modo stesso in cui l’uomo immagina (Malafouris, 2007). Le immagini amplificano e perfezionano l’occhio umano e sono allo stesso tempo causa ed effetto del potenziamento cognitivo dell’homo sapiens. In particolare, le immagini fotografiche sono un mezzo per ottenere un potenziamento ottico e, come si vedrà meglio nel corso di questa introduzione, anche empatico dell’individuo che le crea e di colui che le fruisce. Protagonista di questo cammino di studio sul mezzo fotografico è la svolta iconica della società contemporanea, segnata da alcune date che permettono di descrivere quelle che sono le tappe evolutive del mezzo fotografico che hanno portato allo sviluppo della fotografia social, della quale si interessa nel particolare il presente lavoro di ricerca. Consapevole di non fornire un’esaustiva definizione dell’oggetto di studio o la descrizione di una teoria ad esso legata, questo lavoro intende piuttosto mostrare il profondo legame fra l’uomo e il mezzo fotografico, delineando un collegamento diretto fra i bisogni insiti nella natura umana e l’uso della fotografia social, attraverso l’osservazione dei meccanismi cognitivi che ne guidano la decodifica, alla luce dell’evidente invasività di tale medium nella società contemporanea nella quale la fotografia è letteralmente ovunque. Si intende qui mettere in relazione discipline che spesso non dialogano, scienze cognitive e studi sui media, ricercando nelle prime l’universalità dei bisogni che rendono i media protesi del corpo umano. Tante sono le difficoltà di coloro che decidono di adottare un approccio multidisciplinare alla propria materia ma, quasi sempre, guardare alle cose da punti di vista insoliti può risultare produttivo. L’assunto di base che guida ogni approccio di tipo cognitivo è che l’uomo condivide con i suoi simili le strutture biologiche e fisiologiche adibite alla decodifica dell’ambiente che lo circonda. Per questo motivo, alla base dell’utilizzo di un medium specifico, o ancora di un supporto particolare, ci sono meccanismi cognitivi e bisogni universali. Era il 2002 quando la fotocamera viene stabilmente inserita nei telefoni cellulari. La fotografia, già digitalizzata e accessibile a tutti grazie a dispositivi economici e facili da usare, diventa parte del corpo umano che si abitua abbastanza rapidamente a fare del cellulare un prolungamento del braccio. Nei suoi primi anni di vita la macchina fotografica era appartenuta ad un élite selezionata, solo poche classi sociali potevano permettersi di acquistare un dispositivo tecnologico così costoso per uso familiare e anche quando potevano si parlava di una sola macchina fotografica per famiglia. Si può, quindi, ben comprendere l’enorme rivoluzione delle macchine Kodak prima e del digitale poi, su cui si tornerà più dettagliatamente nel corso del Capitolo Terzo. Nel 2006, infine, l’arrivo del Wi-Fi, degli smartphone e dei social network completa il quadro evolutivo della società connessa e la fotografia più di altri media assume un ruolo importantissimo nella definizione del nuovo linguaggio della rete, presentandosi come elemento di media densità fra la complessità del testo scritto e la lunghezza/lentezza del video (Menduni, 2016). La democratizzazione del mezzo fotografico e la sua accessibilità rende chiunque un possibile fotografo e aumenta la capacità testimoniale del mezzo. La convergenza digitale permette una fluidità prima impensabile per le immagini fotografiche che iniziano a viaggiare in un non-tempo su nuovi supporti e dispositivi sempre a portata di mano. Cambiano, quindi, elementi tecnologici e aspetti sociali ma la fotografia quale strumento di riproduzione tecnica del reale rimane sostanzialmente la stessa. È quindi nell’elemento tecnologico e nella società che si devono rintracciare le differenze rispetto al passato, ammesso che siano esse interessanti al fine di definire la realtà contemporanea. A volte, come si spiegherà meglio nei capitoli successivi, la storia dei media è un’arbitraria ricostruzione dell’uomo e, inoltre, oggi alla luce della convergenza digitale (Jenkins, 2006) diventa sempre più complesso separare in modo netto quelli che in passato erano media differenti. La tecnologia cui ci si riferisce in primis è l’istantanea di molto antecedente al digitale ma al tempo stesso sua parte integrante. Il più grande limite della prima fotografia, infatti, era il tempo di posa troppo lungo. La fotografia istantanea o snapshot introdusse, invece, già verso la fine del XIX secolo, la possibilità di cogliere le immagini in modo rapido. Questa nuova tecnologia produsse in tempi non poi così brevi il nascere di una nuova cultura legata al mezzo fotografico. Venne, infatti, superata la rivalità con la pittura e le mire artistiche del nuovo mezzo visuale virarono su una pratica che si caratterizza più come privata, amatoriale, familiare e autobiografica piuttosto che artistica. Tutto ciò avviene in concomitanza con il crescere di una società sempre più individualista e dominata da relazioni sempre meno stabili, liquide (Bauman, 2000) e più fugaci. Il digitale, i social network, Instagram, il selfie sono solo risvolti contemporanei di una rimediazione del mezzo fotografico iniziata con l’avvento di tale “stile istantaneo”, potenziato poi sempre di più dalla tecnologia connessa in rete. Oggi si parla di Ubiquitous Photography (Hand, 2012) perché le tecnologie visive hanno reso la fotografia onnipresente. Essa non è una pratica sporadica e familiare volta alla sacralizzazione rituale delle pratiche sociali (Bordieu, 1972) ma un’abitudine comunicativa quotidiana, un linguaggio sempre più forte che si sostituisce spesso a quello verbale dal vivo. Istantaneo vuol dire libertà del creatore dell’immagine fotografica ma anche spesso banalità dei soggetti, senso di immediatezza e di narrazione in tempo reale. Questi elementi vengono portati all’eccesso con il digitale e con l’avvento della networked camera, di cui si discuterà nel Capitolo Terzo. L’esperienza fotografica è entrata in una nuova era. Ciò non vuol dire che è scomparsa la funzione di cassetto dei ricordi della fotografia. Essa rimane ancora estensione della memoria umana ma dal “desiderio di memorizzare” gli istanti della vita più significativi attraverso la condivisione di una collezione di immagini fotografiche, si è giunti oggi al bisogno di “esperire” quegli istanti di vita “attraverso” la fotografia stessa e vivere costruendo un’identità con quelle stesse immagini (Muzzarelli, 2016). La fotografia non è parte della vita, essa è la vita di tutti i giorni che non può non essere immaginata, esperita e poi comunicata sotto forma di foto. Da materializzazione di memorie e ricordi che si desidera mantenere immortali, la fotografia è diventata esperienza quotidiana immediata, non un atto programmato ma istantaneo, quasi automatico. Il digitale e la rete hanno dotato il singolo individuo della possibilità di essere allo stesso tempo fruitore e creatore di contenuti, ovvero un prosumer, con la possibilità aggiunta di condividere e diffondere in tempo reale e con semplicità tali contenuti. Jenkins, già nel 2006, affermava che ogni individuo grazie alle moderne tecnologie e alle condizioni sociali è diventato medium di sé stesso, autonomo nella produzione e anche nella diffusione (Jenkins, 2006). Siamo ben lontani dalle prime teorie della comunicazione top-down. I media sono gli individui stessi, da qui la scelta di un punto di vista che guarda al contenuto fotografico come ad un messaggio broadcast, da uno a molti, ma dove “uno” è il singolo individuo e non un sistema organizzato di produzione di contenuti di massa. Questa democratizzazione dei mezzi coincide con la democratizzazione della creatività che diventa qualcosa di sempre più diffuso e a portata di tutti, non solo di artisti e aspiranti tali. Ogni individuo è diventato, nel caso specifico della fotografia, produttore di frammenti visivi, più o meno esteticamente qualificati, che hanno come oggetto la sua vita privata, le sue emozioni. Sull’estetica di tali immagini si discuterà nel Capitolo Terzo e nel Capitolo Quarto, qui basta introdurre il concetto avendo chiara l’essenza di questo stile istantaneo dal quale prende forma la fotografia social di cui ci si occuperà più dettagliatamente in seguito. Queste immagini istantanee costituiscono un flusso infinito di frammenti visivi incontrollati, più o meno effimeri, più o meno curati. Ma lungi dall’essere priva di senso tale attività incarna l’essenza della vita contemporanea e la necessità di utilizzare un mezzo di comunicazione istantaneo, immediato e allo stesso tempo fortemente emozionale. «In questo deprimente deserto, tutt'a un tratto la tale foto mi avviene; essa mi anima e io la animo. Ecco dunque come devo chiamare l'attrattiva che la fa esistere: una animazione. In sé, la foto non è affatto animata (io non credo alle foto “vive”), però essa mi anima: e questo è appunto ciò che fa ogni avventura ». (Barthes, 1980, p. 21) Questo è ciò che Barthes scrive ne La camera chiara nel 1980, introducendo la necessità di un nuovo approccio allo studio della fotografia che mettesse da parte le discussioni ontologiche sulla sua essenza per concentrarsi sulla fruizione e sull’effetto che essa esercita su chi la crea e su chi la fruisce, descrivendo questo nuovo concetto di avventura. Le fotografie sono un messaggio senza codice che comunica, secondo le parole di Barthes, un’attrazione che stordisce (1980). Le foto, quindi, comunicano in una dimensione affettiva ed emozionale ed è a partire da questa che bisogna indagare il senso del loro contenuto. Da qui la scelta di concentrarsi sulle immagini fotografiche da una prospettiva fenomenologica, ma si potrebbe dire anche neuroestetica, che punta ad indagare le reazioni emotive che il soggetto prova dinanzi ad una fotografia. Questo punto di vista è lo stesso che si intende qui attuare con l’intervento delle scienze cognitive che permettono di collegare l’esperienza soggettiva e “affettiva” del singolo fruitore di una immagine fotografica, all’universalità dei meccanismi empatici che ne descrivono l’effetto somatosensoriale nella mente umana. L’analisi di Barthes (1980) si concentra sull’esperienza di fruizione di una serie di immagini che l’autore non mostra ma delle quali si descrivono gli elementi che colpiscono lo spectator. L’avventura, come l’autore definisce l’esperienza di fruizione delle immagini fotografiche, avviene su due livelli: il primo è quello della coscienza culturale, il secondo è quello del mondo degli affetti. Ci sono elementi di interesse generale all’interno di ogni immagine fotografica, elementi che materialmente incarnano la volontà dell’autore di veicolare un messaggio culturalmente definito. Tale livello di decodifica interessa lo studium della fotografia, che Barthes definisce come essenzialmente cognitivo, un interessamento che sollecita il corpo ma in modo non particolarmente intenso. Ci sono poi dei dettagli, degli elementi spesso casuali che non partecipano alla costruzione estetica della foto ma che attirano lo sguardo dello spectator perché legati alla sua soggettività. Tali elementi rappresentano il punctum della fotografia, quella fatalità che fa sì che la foto si animi fino a produrre un godimento sensoriale in chi la osserva. Si tratta della dimensione affettiva e passionale, di quel “potere” (Freedberg, 1989) proprio delle immagini di colpire emotivamente il soggetto. In tal modo Barthes anticipa, dunque, la necessità di ricondurre al corpo la cognizione delle immagini ma rimane legato ancora ad un modello diviso: studium vs punctum. L’Embodied Cognition, di cui si discuterà nel Capitolo Primo, permette oggi di superare questo dualismo e parlare di mente e corpo come di un’unica cosa. Dalla descrizione della scoperta dei neuroni specchio si introdurrà la questione dell’empatia, il suo sviluppo nel singolo individuo e il suo effettivo funzionamento innescato da imput esterni. Si passerà quindi a descrivere la differenza fra reazioni emotive “dal vivo” e reazioni “mediate”, mettendo in evidenza come tale differenza sia semplicemente una differenza di natura dimensionale. Sempre nel Capitolo Primo, si introdurrà la storia della cultura visuale e si discuterà, ancora prima della fotografia in particolare, della centralità di ogni tipo di immagine nella relazione fra il mondo, l’uomo e l’intersoggettività. Il concetto di rimediazione, introdotto da Bolter e Grusin (1999) permetterà di creare un ponte fra l’utilizzo delle immagini e i bisogni che esse soddisfano. Nel Capitolo Secondo si introduce, come elemento opposto e complementare allo sviluppo dell’intersoggettività, il Sé e la costruzione identitaria. Si passerà, quindi, dalla descrizione della dimensione narrativa di questo Sé, che non può che essere comunicato sotto forma di narrazione, ad una breve rassegna della storia dell’autoritratto come esternazione del racconto del Sé. Si mostrerà come le storie, e in particolare le storie che l’uomo racconta e si racconta su se stesso, siano parte integrante della vita dell’individuo singolo che è narratore per natura. Si passerà, quindi, alla rimediazione fotografica del racconto del Sé innescata dall’avvento del digitale e dalle trasformazioni sociali cui si è già accennato in questa introduzione. Il Capitolo Terzo è dedicato al vero oggetto di studio di tutto il progetto di ricerca, la fotografia social e, in particolare, al tipo di immagine fotografica social più diffusa, il selfie. Questo nuovo genere visuale permette di collegare, senza possibilità di errore, la fruizione dell’immagine fotografica all’empatia che scaturisce dal suo contenuto che altro non è che un pezzetto dell’identità del suo creatore. Rappresentazione, arte, realtà e identità si ridefiniscono in una materializzazione fotografica che si offre al singolo individuo come rimediazione di quel racconto del Sé che è sempre esistito e che oggi necessita di nuovi canali comunicativi. L’ingrandimento del primo piano, insieme ad altre caratteristiche che verranno ampiamente descritte, è ciò che permette di individuare nel selfie una maggiore affettività rispetto ad altri tipi di immagini fotografiche social. Immediatezza, flessibilità, emozionalità sono gli elementi che caratterizzano questo nuovo selfie storytelling e lo collocano fra le pratiche di uso quotidiano di cui l’individuo moderno sembra non poter fare a meno. Attraverso l’immagine fotografica che incarna un gesto fatico, più o meno effimero e più o meno istantaneo ma certamente carico di emozione, si crea una relazione empatica con l’altro. Il selfie incarna questa nuova necessità di comunicazione immediata, trasparente e allo stesso tempo ipermediata che colpisce il fruitore attraverso lo schermo di uno smartphone. Ogni individuo ha la possibilità di comunicarsi broadcast, ad un pubblico online sempre più vasto, attraverso immagini fotografiche che rappresentano le sue esperienze ed emozioni. Tale possibilità è oggi un’abilità sociale di base che nasce dal bisogno di immediatezza, di trasparenza e di pubblicità tipici della società contemporanea. Infine, il Capitolo Quarto introduce ad uno specifico supporto di cui oggi si giova la fotografia social, Instagram. Dalla descrizione dettagliata di questo diffusissimo social network, si passerà ad un’analisi estetica a partire dalle tipologie di foto che è possibile trovare su Instagram, fino a definire la nuova estetica visuale dell’Instagramismo a partire sempre dalle modalità di creazione e di fruizione delle immagini fotografiche, inquadrate nel nuovo flusso iconico che invade oggi la società. Le immagini fotografiche hanno assunto il ruolo di nuovo linguaggio del Sé configurandosi come naturale canale comunicativo dell’identità di ogni singolo utente. La scrittura di questo incessante selfie storytelling fotografico quotidiano trova nella bacheca del profilo Instagram una sua particolare esplicitazione, semplice, trasparente e ipermediata, proprio come la fotografia istantanea che la compone, che si presenta in modo chiaro come vera e propria rimediazione digitale del racconto del Sé.

Selfie e selfing. La costruzione identitaria nell’era della fotografia social

DUGO, IOLE
2018-11-20

Abstract

INTRODUZIONE Broadcast Yourself . La fotografia come medium convergente «L’anima non pensa mai senza immagini». Aritostele La fotografia è un linguaggio visuale che ha subito e interpretato innumerevoli rivoluzioni tecnologiche e sociali configurandosi ora come causa ora come effetto dell’evoluzione del sentire umano. La fotografia, infatti, come medium è da considerarsi protesi delle facoltà fisiche e percettive dell’uomo. Essa assume, a seconda dell’occasione, il ruolo di estensione della memoria, degli affetti, dell’emozione, dell’identità del singolo individuo e possiede per sua natura la duplice capacità di essere emanazione diretta e allo stesso tempo rappresentazione della realtà. La possibilità del mezzo fotografico, dal punto di vista tecnico, di imprimere su un supporto materiale l’immagine del referente lo rende indice di tale referente. «Le fotografie [...] rassomigliano esattamente agli oggetti che rappresentano» (Peirce, 1931, p. 281). Ogni fotografia, in particolare, potenzia l’accesso visivo al mondo ma contemporaneamente ne fornisce anche una rappresentazione soggettiva, essendo il frutto della mano del fotografo che ritaglia, seleziona e poi scatta una parte di realtà. Le fotografie sono allo stesso tempo protesi visive e immagini rappresentative, rappresentazione e investigazione sulla realtà (Maynard, 1997). Lo sguardo contemporaneo influenza ma soprattutto è influenzato dal mezzo fotografico il quale rappresenta oggi quel potenziamento ottico ed empatico capace di soddisfare i nuovi bisogni dell’individuo singolo e della società attuale. Seppur in modo forse iperbolico, si vuole qui subito chiarire l’importanza del mezzo fotografico che oggi, innervato nel corpo umano attraverso lo smartphone, è probabilmente il medium più rappresentativo dell’era convergente, proprio perché capace di sintetizzare in sé tutte le necessità dell’individuo social. La fotografia si caratterizza oggi per la sua capacità di autodefinirsi: per scattare una fotografia non serve grande abilità tecnica, non serve più qualcuno che sviluppi i negativi e non è necessario un supporto particolare per fruirle, basta avere una macchina fotografica, ormai inclusa in ogni telefono cellulare. Il riconoscimento di questo potenziale interpretativo al mezzo fotografico non fu immediato quando la fotografia comparve nel panorama mediale dell’Ottocento. Essa, infatti, venne per lungo tempo considerata una mera riproduzione del reale capace di una funzione puramente documentaria e referenziale, mentre alla pittura veniva attribuita la ricerca formale e artistica. Non si percepiva come rilevante l’intervento diretto della mano dell’autore sulla foto e si considerava il processo chimico di impressione diretta della luce sul materiale sensibile un meccanismo esclusivamente tecnico sul quale il soggetto non poteva intervenire più di tanto. Oggi tale affermazione risulta evidentemente datata e l’immagine fotografica è ormai da lungo tempo riconosciuta quale potente strumento di trasformazione, di analisi e di interpretazione del reale. La fotografia è, come già accennato, un linguaggio che oggi più che mai diventa essenziale per le nuove generazioni che hanno identificato in essa il principale mezzo di comunicazione attraverso il quale tessere relazioni sociali. Le fotografie sono istantanee della mente che permettono di fermare un frammento di mondo, codificando la realtà in base alle intenzioni e alle emozioni del fotografo. Scattare una fotografia è un atto creativo e concettuale allo stesso tempo. È interessante osservare, in apertura di questo lavoro che fa della fotografia il suo oggetto di studio, come questo medium si sia evoluto nel tempo, o “rimediato” volendo usare un termine ormai di uso comune nei Media Studies, mantenendo invariate alcune funzioni di base. Nel presente lavoro si parlerà di memoria, di identificazione del sé, di empatia, di pixelizzazione del tempo e congelamento di momenti ed emozioni su supporti digitali, ma tali usi contemporanei sono in realtà insiti nel mezzo fotografico fin dalle sue origini. La fotografia non è propriamente la stessa del 1839, sono cambiati i supporti e i dispositivi ma il medium fotografico soddisfa vecchi bisogni. Per questo motivo il lungo dibattito sull’ontologia della fotografia e sui cambiamenti dovuti alla tanto celebrata “perdita dell’aura” e dell’indicalità dovuta alla digitalizzazione, è ormai obsoleto e poco interessante. Analoga considerazione si può in parte fare per il concetto di dematerializzazione. L’avvento del digitale non ha significato la semplice sparizione dei supporti fisici bensì la loro “rimaterializzazione” (Minniti, 2016). Anche la fotografia digitale possiede, infatti, una dimensione materiale della quale fanno parte nuovi oggetti tecnologici, schermi in particolare, che stabiliscono rapporti tattili con gli individui e si sostituiscono alla vecchia pellicola. Le immagini fotografiche non vengono più archiviate nei vecchi e polverosi album di famiglia ma nuove forme di conservazione dei ricordi continuano ad essere applicate tramite archivi digitali spesso connessi in nuvole di dati condivisi e accessibili da molteplici dispositivi in ogni luogo. Chiunque voglia indagare la fotografia oggi, dunque, non deve preoccuparsi della sua essenza e origine ma di come essa agisca sull’uomo e sulla società, delle azioni che “rimedia”, dei nuovi e vecchi bisogni che soddisfa e delle pratiche cognitivo/sensoriali che amplifica. Non serve descrivere la fotografia come impronta tecnicamente definita della realtà (considerando poi che il digitale ha messo in crisi questo assunto di base), perché sono le forme di questa impronta che ne fanno un oggetto di senso. E allora interessarsi di fotografia vuol dire interessarsi dei nuovi oggetti estetici, quali ad esempio il selfie, del loro ruolo nella società mediata e della loro influenza sull’evoluzione del sentire umano in generale. Alla base di questo potenziale fotografico c’è l’assunto secondo il quale tutte le immagini hanno un effetto retroattivo sulla mente dell’essere umano in quanto plasmano il modo stesso in cui l’uomo immagina (Malafouris, 2007). Le immagini amplificano e perfezionano l’occhio umano e sono allo stesso tempo causa ed effetto del potenziamento cognitivo dell’homo sapiens. In particolare, le immagini fotografiche sono un mezzo per ottenere un potenziamento ottico e, come si vedrà meglio nel corso di questa introduzione, anche empatico dell’individuo che le crea e di colui che le fruisce. Protagonista di questo cammino di studio sul mezzo fotografico è la svolta iconica della società contemporanea, segnata da alcune date che permettono di descrivere quelle che sono le tappe evolutive del mezzo fotografico che hanno portato allo sviluppo della fotografia social, della quale si interessa nel particolare il presente lavoro di ricerca. Consapevole di non fornire un’esaustiva definizione dell’oggetto di studio o la descrizione di una teoria ad esso legata, questo lavoro intende piuttosto mostrare il profondo legame fra l’uomo e il mezzo fotografico, delineando un collegamento diretto fra i bisogni insiti nella natura umana e l’uso della fotografia social, attraverso l’osservazione dei meccanismi cognitivi che ne guidano la decodifica, alla luce dell’evidente invasività di tale medium nella società contemporanea nella quale la fotografia è letteralmente ovunque. Si intende qui mettere in relazione discipline che spesso non dialogano, scienze cognitive e studi sui media, ricercando nelle prime l’universalità dei bisogni che rendono i media protesi del corpo umano. Tante sono le difficoltà di coloro che decidono di adottare un approccio multidisciplinare alla propria materia ma, quasi sempre, guardare alle cose da punti di vista insoliti può risultare produttivo. L’assunto di base che guida ogni approccio di tipo cognitivo è che l’uomo condivide con i suoi simili le strutture biologiche e fisiologiche adibite alla decodifica dell’ambiente che lo circonda. Per questo motivo, alla base dell’utilizzo di un medium specifico, o ancora di un supporto particolare, ci sono meccanismi cognitivi e bisogni universali. Era il 2002 quando la fotocamera viene stabilmente inserita nei telefoni cellulari. La fotografia, già digitalizzata e accessibile a tutti grazie a dispositivi economici e facili da usare, diventa parte del corpo umano che si abitua abbastanza rapidamente a fare del cellulare un prolungamento del braccio. Nei suoi primi anni di vita la macchina fotografica era appartenuta ad un élite selezionata, solo poche classi sociali potevano permettersi di acquistare un dispositivo tecnologico così costoso per uso familiare e anche quando potevano si parlava di una sola macchina fotografica per famiglia. Si può, quindi, ben comprendere l’enorme rivoluzione delle macchine Kodak prima e del digitale poi, su cui si tornerà più dettagliatamente nel corso del Capitolo Terzo. Nel 2006, infine, l’arrivo del Wi-Fi, degli smartphone e dei social network completa il quadro evolutivo della società connessa e la fotografia più di altri media assume un ruolo importantissimo nella definizione del nuovo linguaggio della rete, presentandosi come elemento di media densità fra la complessità del testo scritto e la lunghezza/lentezza del video (Menduni, 2016). La democratizzazione del mezzo fotografico e la sua accessibilità rende chiunque un possibile fotografo e aumenta la capacità testimoniale del mezzo. La convergenza digitale permette una fluidità prima impensabile per le immagini fotografiche che iniziano a viaggiare in un non-tempo su nuovi supporti e dispositivi sempre a portata di mano. Cambiano, quindi, elementi tecnologici e aspetti sociali ma la fotografia quale strumento di riproduzione tecnica del reale rimane sostanzialmente la stessa. È quindi nell’elemento tecnologico e nella società che si devono rintracciare le differenze rispetto al passato, ammesso che siano esse interessanti al fine di definire la realtà contemporanea. A volte, come si spiegherà meglio nei capitoli successivi, la storia dei media è un’arbitraria ricostruzione dell’uomo e, inoltre, oggi alla luce della convergenza digitale (Jenkins, 2006) diventa sempre più complesso separare in modo netto quelli che in passato erano media differenti. La tecnologia cui ci si riferisce in primis è l’istantanea di molto antecedente al digitale ma al tempo stesso sua parte integrante. Il più grande limite della prima fotografia, infatti, era il tempo di posa troppo lungo. La fotografia istantanea o snapshot introdusse, invece, già verso la fine del XIX secolo, la possibilità di cogliere le immagini in modo rapido. Questa nuova tecnologia produsse in tempi non poi così brevi il nascere di una nuova cultura legata al mezzo fotografico. Venne, infatti, superata la rivalità con la pittura e le mire artistiche del nuovo mezzo visuale virarono su una pratica che si caratterizza più come privata, amatoriale, familiare e autobiografica piuttosto che artistica. Tutto ciò avviene in concomitanza con il crescere di una società sempre più individualista e dominata da relazioni sempre meno stabili, liquide (Bauman, 2000) e più fugaci. Il digitale, i social network, Instagram, il selfie sono solo risvolti contemporanei di una rimediazione del mezzo fotografico iniziata con l’avvento di tale “stile istantaneo”, potenziato poi sempre di più dalla tecnologia connessa in rete. Oggi si parla di Ubiquitous Photography (Hand, 2012) perché le tecnologie visive hanno reso la fotografia onnipresente. Essa non è una pratica sporadica e familiare volta alla sacralizzazione rituale delle pratiche sociali (Bordieu, 1972) ma un’abitudine comunicativa quotidiana, un linguaggio sempre più forte che si sostituisce spesso a quello verbale dal vivo. Istantaneo vuol dire libertà del creatore dell’immagine fotografica ma anche spesso banalità dei soggetti, senso di immediatezza e di narrazione in tempo reale. Questi elementi vengono portati all’eccesso con il digitale e con l’avvento della networked camera, di cui si discuterà nel Capitolo Terzo. L’esperienza fotografica è entrata in una nuova era. Ciò non vuol dire che è scomparsa la funzione di cassetto dei ricordi della fotografia. Essa rimane ancora estensione della memoria umana ma dal “desiderio di memorizzare” gli istanti della vita più significativi attraverso la condivisione di una collezione di immagini fotografiche, si è giunti oggi al bisogno di “esperire” quegli istanti di vita “attraverso” la fotografia stessa e vivere costruendo un’identità con quelle stesse immagini (Muzzarelli, 2016). La fotografia non è parte della vita, essa è la vita di tutti i giorni che non può non essere immaginata, esperita e poi comunicata sotto forma di foto. Da materializzazione di memorie e ricordi che si desidera mantenere immortali, la fotografia è diventata esperienza quotidiana immediata, non un atto programmato ma istantaneo, quasi automatico. Il digitale e la rete hanno dotato il singolo individuo della possibilità di essere allo stesso tempo fruitore e creatore di contenuti, ovvero un prosumer, con la possibilità aggiunta di condividere e diffondere in tempo reale e con semplicità tali contenuti. Jenkins, già nel 2006, affermava che ogni individuo grazie alle moderne tecnologie e alle condizioni sociali è diventato medium di sé stesso, autonomo nella produzione e anche nella diffusione (Jenkins, 2006). Siamo ben lontani dalle prime teorie della comunicazione top-down. I media sono gli individui stessi, da qui la scelta di un punto di vista che guarda al contenuto fotografico come ad un messaggio broadcast, da uno a molti, ma dove “uno” è il singolo individuo e non un sistema organizzato di produzione di contenuti di massa. Questa democratizzazione dei mezzi coincide con la democratizzazione della creatività che diventa qualcosa di sempre più diffuso e a portata di tutti, non solo di artisti e aspiranti tali. Ogni individuo è diventato, nel caso specifico della fotografia, produttore di frammenti visivi, più o meno esteticamente qualificati, che hanno come oggetto la sua vita privata, le sue emozioni. Sull’estetica di tali immagini si discuterà nel Capitolo Terzo e nel Capitolo Quarto, qui basta introdurre il concetto avendo chiara l’essenza di questo stile istantaneo dal quale prende forma la fotografia social di cui ci si occuperà più dettagliatamente in seguito. Queste immagini istantanee costituiscono un flusso infinito di frammenti visivi incontrollati, più o meno effimeri, più o meno curati. Ma lungi dall’essere priva di senso tale attività incarna l’essenza della vita contemporanea e la necessità di utilizzare un mezzo di comunicazione istantaneo, immediato e allo stesso tempo fortemente emozionale. «In questo deprimente deserto, tutt'a un tratto la tale foto mi avviene; essa mi anima e io la animo. Ecco dunque come devo chiamare l'attrattiva che la fa esistere: una animazione. In sé, la foto non è affatto animata (io non credo alle foto “vive”), però essa mi anima: e questo è appunto ciò che fa ogni avventura ». (Barthes, 1980, p. 21) Questo è ciò che Barthes scrive ne La camera chiara nel 1980, introducendo la necessità di un nuovo approccio allo studio della fotografia che mettesse da parte le discussioni ontologiche sulla sua essenza per concentrarsi sulla fruizione e sull’effetto che essa esercita su chi la crea e su chi la fruisce, descrivendo questo nuovo concetto di avventura. Le fotografie sono un messaggio senza codice che comunica, secondo le parole di Barthes, un’attrazione che stordisce (1980). Le foto, quindi, comunicano in una dimensione affettiva ed emozionale ed è a partire da questa che bisogna indagare il senso del loro contenuto. Da qui la scelta di concentrarsi sulle immagini fotografiche da una prospettiva fenomenologica, ma si potrebbe dire anche neuroestetica, che punta ad indagare le reazioni emotive che il soggetto prova dinanzi ad una fotografia. Questo punto di vista è lo stesso che si intende qui attuare con l’intervento delle scienze cognitive che permettono di collegare l’esperienza soggettiva e “affettiva” del singolo fruitore di una immagine fotografica, all’universalità dei meccanismi empatici che ne descrivono l’effetto somatosensoriale nella mente umana. L’analisi di Barthes (1980) si concentra sull’esperienza di fruizione di una serie di immagini che l’autore non mostra ma delle quali si descrivono gli elementi che colpiscono lo spectator. L’avventura, come l’autore definisce l’esperienza di fruizione delle immagini fotografiche, avviene su due livelli: il primo è quello della coscienza culturale, il secondo è quello del mondo degli affetti. Ci sono elementi di interesse generale all’interno di ogni immagine fotografica, elementi che materialmente incarnano la volontà dell’autore di veicolare un messaggio culturalmente definito. Tale livello di decodifica interessa lo studium della fotografia, che Barthes definisce come essenzialmente cognitivo, un interessamento che sollecita il corpo ma in modo non particolarmente intenso. Ci sono poi dei dettagli, degli elementi spesso casuali che non partecipano alla costruzione estetica della foto ma che attirano lo sguardo dello spectator perché legati alla sua soggettività. Tali elementi rappresentano il punctum della fotografia, quella fatalità che fa sì che la foto si animi fino a produrre un godimento sensoriale in chi la osserva. Si tratta della dimensione affettiva e passionale, di quel “potere” (Freedberg, 1989) proprio delle immagini di colpire emotivamente il soggetto. In tal modo Barthes anticipa, dunque, la necessità di ricondurre al corpo la cognizione delle immagini ma rimane legato ancora ad un modello diviso: studium vs punctum. L’Embodied Cognition, di cui si discuterà nel Capitolo Primo, permette oggi di superare questo dualismo e parlare di mente e corpo come di un’unica cosa. Dalla descrizione della scoperta dei neuroni specchio si introdurrà la questione dell’empatia, il suo sviluppo nel singolo individuo e il suo effettivo funzionamento innescato da imput esterni. Si passerà quindi a descrivere la differenza fra reazioni emotive “dal vivo” e reazioni “mediate”, mettendo in evidenza come tale differenza sia semplicemente una differenza di natura dimensionale. Sempre nel Capitolo Primo, si introdurrà la storia della cultura visuale e si discuterà, ancora prima della fotografia in particolare, della centralità di ogni tipo di immagine nella relazione fra il mondo, l’uomo e l’intersoggettività. Il concetto di rimediazione, introdotto da Bolter e Grusin (1999) permetterà di creare un ponte fra l’utilizzo delle immagini e i bisogni che esse soddisfano. Nel Capitolo Secondo si introduce, come elemento opposto e complementare allo sviluppo dell’intersoggettività, il Sé e la costruzione identitaria. Si passerà, quindi, dalla descrizione della dimensione narrativa di questo Sé, che non può che essere comunicato sotto forma di narrazione, ad una breve rassegna della storia dell’autoritratto come esternazione del racconto del Sé. Si mostrerà come le storie, e in particolare le storie che l’uomo racconta e si racconta su se stesso, siano parte integrante della vita dell’individuo singolo che è narratore per natura. Si passerà, quindi, alla rimediazione fotografica del racconto del Sé innescata dall’avvento del digitale e dalle trasformazioni sociali cui si è già accennato in questa introduzione. Il Capitolo Terzo è dedicato al vero oggetto di studio di tutto il progetto di ricerca, la fotografia social e, in particolare, al tipo di immagine fotografica social più diffusa, il selfie. Questo nuovo genere visuale permette di collegare, senza possibilità di errore, la fruizione dell’immagine fotografica all’empatia che scaturisce dal suo contenuto che altro non è che un pezzetto dell’identità del suo creatore. Rappresentazione, arte, realtà e identità si ridefiniscono in una materializzazione fotografica che si offre al singolo individuo come rimediazione di quel racconto del Sé che è sempre esistito e che oggi necessita di nuovi canali comunicativi. L’ingrandimento del primo piano, insieme ad altre caratteristiche che verranno ampiamente descritte, è ciò che permette di individuare nel selfie una maggiore affettività rispetto ad altri tipi di immagini fotografiche social. Immediatezza, flessibilità, emozionalità sono gli elementi che caratterizzano questo nuovo selfie storytelling e lo collocano fra le pratiche di uso quotidiano di cui l’individuo moderno sembra non poter fare a meno. Attraverso l’immagine fotografica che incarna un gesto fatico, più o meno effimero e più o meno istantaneo ma certamente carico di emozione, si crea una relazione empatica con l’altro. Il selfie incarna questa nuova necessità di comunicazione immediata, trasparente e allo stesso tempo ipermediata che colpisce il fruitore attraverso lo schermo di uno smartphone. Ogni individuo ha la possibilità di comunicarsi broadcast, ad un pubblico online sempre più vasto, attraverso immagini fotografiche che rappresentano le sue esperienze ed emozioni. Tale possibilità è oggi un’abilità sociale di base che nasce dal bisogno di immediatezza, di trasparenza e di pubblicità tipici della società contemporanea. Infine, il Capitolo Quarto introduce ad uno specifico supporto di cui oggi si giova la fotografia social, Instagram. Dalla descrizione dettagliata di questo diffusissimo social network, si passerà ad un’analisi estetica a partire dalle tipologie di foto che è possibile trovare su Instagram, fino a definire la nuova estetica visuale dell’Instagramismo a partire sempre dalle modalità di creazione e di fruizione delle immagini fotografiche, inquadrate nel nuovo flusso iconico che invade oggi la società. Le immagini fotografiche hanno assunto il ruolo di nuovo linguaggio del Sé configurandosi come naturale canale comunicativo dell’identità di ogni singolo utente. La scrittura di questo incessante selfie storytelling fotografico quotidiano trova nella bacheca del profilo Instagram una sua particolare esplicitazione, semplice, trasparente e ipermediata, proprio come la fotografia istantanea che la compone, che si presenta in modo chiaro come vera e propria rimediazione digitale del racconto del Sé.
20-nov-2018
SELFIE, Identità, Instagram, Fotografia, Empatia, Neuroni Specchio
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Descrizione: Tesi di Dottorato in Scienze Cognitive
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11570/3130736
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