Lo studio monografico si propone di riflettere sulle funzioni, sul ruolo e sulla disciplina dei partiti politici nell’ordinamento costituzionale italiano, accompagnando l’analisi dell’istituto giuridico con la disamina del dato giurisprudenziale e dei modelli offerti dalla prospettiva comparatistica. L’inquadramento preliminare del problema si innesta sulla definizione del partito quale parte totale, con la quale Mortati ha messo a fuoco uno dei principali tratti caratterizzanti l’evoluzione di queste formazioni sociali nel corso del tempo. Come è stato efficacemente descritto da Triepel attraverso l’immagine del «cammino lungo una scala a quattro gradini» (vierfachen Stufenfolge), i partiti sono stati inizialmente visti con ostilità dagli ordinamenti statali, in quanto strumenti di divisione della comunità1; l’ostracismo ha, poi, lasciato posto alla mera Ignorierung, in base alla quale lo Stato relegava i partiti in una sfera pre-giuridica. All’esito di questa parabola, comune alle democrazie occidentali, i partiti sono stati regolamentati o, addirittura, incorporati nello Stato, assumendo un ruolo da protagonisti nel sistema politico e, in particolare, nel processo di formazione della volontà generale. La centralità acquisita dai partiti non è stata valutata, però, in maniera unanime dalla dottrina: Triepel auspicava il superamento di questo modello, mentre Kelsen è stato fra i primi studiosi ad evidenziare l’opportunità, se non la necessità, di una disciplina dei partiti a livello costituzionale, così da poter rafforzare l’intero assetto democratico. La strada della regolazione è stata seguita, con varie sfumature, dalle costituzioni europee del secondo dopoguerra: fra queste, la Costituzione italiana si è contraddistinta per la primogenitura di una disposizione ad hoc quale l’art. 49. La ricerca prende avvio, pertanto, dalla ricostruzione dei lavori dell’Assemblea Costituente sul tema. Nel dibattito non sono mancate tesi autorevolmente sostenute (Mortati, Basso, Calamandrei) che auspicavano un inquadramento organico dei partiti nelle trame istituzionali, statuendo precisi profili di democrazia interna e attribuzioni di rilievo costituzionale. D’altro canto, la maggioranza dei Costituenti ha ritenuto che la preoccupazione di assicurare la stabilità del sistema che stava prendendo forma in quegli anni fosse prevalente rispetto alla possibilità di una normazione costituzionale dei partiti più stringente; emblematiche, a tal proposito, le parole dell’on. Merlin (relatore della proposta inserita nel progetto di Costituzione), che invitava «per il desiderio del meglio, a non provocare il peggio». Il peccato originale della formulazione dell’art. 49 Cost. viene richiamato a più riprese nel prosieguo dell’opera come principale causa dell’inadeguatezza della regolazione dei partiti: si tratta, infatti, di una disposizione dallo scarso valore precettivo e dal forte carattere garantistico, criticata in dottrina per la vaghezza del suo contenuto. Dalle pagine della Costituzione emerge, in maniera non troppo definita, un modello che ruota attorno all’intreccio di tre elementi: pluralismo, parità di chances e concorso. L’art. 49 Cost. tratteggia un sistema che si fonda sulla necessaria pluralità di forze partitiche, le quali, muovendo dagli stessi punti di partenza, concorrono nell’agone elettorale e, al contempo, assicurano (rectius, dovrebbero assicurare) un esercizio della sovranità popolare diuturno, che non si limiti al momento puntuale del voto. All’analisi teorica segue un’indagine sulle diverse tipologie di partiti che, vista l’elasticità della previsione costituzionale, hanno trovato spazio sulla scena politica italiana: dai partiti allo stato solido della c.d. Prima Repubblica, ben strutturati e fortemente ideologizzati, ai partiti allo stato liquido del post Tangentopoli, sino ad arrivare a formazioni dalla foggia ancor meno definita che sembrano trovarsi allo stato gassoso. Questo excursus risulta funzionale e strettamente collegato allo sviluppo della prima prospettiva di ricerca, dedicata alla democrazia interna. Nei primi anni di vigenza della Costituzione, l’autorità giudiziaria, forte di un’interpretazione dottrinale del «metodo democratico» limitata all’attività esterna, ha evitato di ingerirsi nelle dinamiche interne, rafforzando la tesi dell’asserita immunità giurisdizionale dei partiti. Successivamente, sulla scorta di una rinnovata valorizzazione delle disposizioni costituzionali (in particolare dell’art. 2) e, soprattutto, del codice civile, i giudici di merito hanno progressivamente attenuato il loro self restraint e prestato maggiore attenzione alle istanze dei singoli contro il partito. Si sono moltiplicate, anzitutto, le pronunce sulle espulsioni, spesso utilizzate come strumento di lotta politica – attraverso il quale colpire le minoranze riottose – anziché come sanzione disciplinare stricto sensu. La giurisprudenza ha dedicato, altresì, grande attenzione ai procedimenti di selezione interna delle candidature, una delle «funzioni sistemiche» che, secondo la definizione di Pasquino2, i partiti svolgono «a beneficio del sistema nel suo complesso». Entrambi i filoni giurisprudenziali fanno emergere lo iato tra veste privatistica e funzioni pubblicistiche dei partiti, in base al quale l’esercizio di un diritto costituzionalmente protetto come, ad esempio, quello di elettorato passivo è subordinato a dinamiche inter privatos che si sottraggono a qualsiasi controllo di democraticità. L’inadeguatezza degli strumenti civilistici, come la tecnica di controllo della c.d. legalità interna, rispetto ad esigenze di matrice costituzionale, avvalora la tesi della necessaria disciplina pubblicistica dei partiti, tanto più se l’anomalo caso italiano viene comparato con gli altri ordinamenti europei – specie con quelli tedesco, spagnolo e portoghese – nei quali alla centralità dei partiti nelle dinamiche istituzionali corrispondono precisi oneri di democraticità interna. Il secondo percorso di ricerca affrontato nel lavoro monografico verte sul limite al diritto di associazione in partiti prescritto dalla XII disp. fin.: il divieto di riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. L’Assemblea Costituente ha accolto un’accezione di democrazia procedurale, che non richiede la necessaria adesione delle forze politiche al quadro valoriale della Costituzione, ma postula soltanto il rispetto del metodo democratico nell’attività esterna, come dimostra la presenza di partiti monarchici nei primi anni di vita repubblicana. L’unica restrizione sul piano ideologico-programmatico è riservata, infatti, al fascismo. Nel volume viene analizzato il ventaglio di questioni che hanno accompagnato l’esegesi della XII disp.: la natura transitoria o finale, l’estensione della sua portata, la valutazione in termini di continuità o di rottura rispetto al testo costituzionale. Il quadro normativo è completato, poi, dalla c.d. legge Scelba, che all’art. 3 regola lo scioglimento dei gruppi neofascisti. La giurisprudenza sul tema risulta variegata. Nonostante una stabile, anche se minoritaria, presenza di forze di matrice fascista nello scenario politico italiano, si sono registrati appena due casi di scioglimento, che hanno interessato Ordine Nuovo (1974) e Avanguardia Nazionale (1976). Più fecondo, d’altro canto, è stato il lavoro della giustizia amministrativa, che in diverse occasioni ha avvalorato la scelta delle commissioni elettorali di escludere liste neofasciste dalle competizioni locali. Anche questo profilo di indagine viene arricchito dalla comparazione con gli altri ordinamenti europei, che, seppur con modalità diverse, hanno condiviso l’esigenza di difendersi dai partiti estremisti o c.d. “antisistema”. In Germania vige un modello di democrazia protetta e militante, in base al quale i partiti che rappresentano una minaccia per la Repubblica vengono dichiarati incostituzionali, e quindi sciolti, dal Bundesverfassungsgericht3; la Spagna, vista l’esperienza dell’ETA, dedica maggiore attenzione alla repressione dell’azione politica dei gruppi che fiancheggiano le organizzazioni terroristiche; mentre in Portogallo la Costituzione vieta espressamente le organizzazioni che perseguono l’ideologia fascista. Lo scioglimento dei partiti viene approfondito, da ultimo, nella prospettiva della giurisprudenza della Corte EDU (specie sulla Turchia), le cui decisioni offrono numerosi spunti di riflessione sull’ammissibilità e sull’efficacia di questo strumento. La terza direttrice di ricerca è rappresentata dal finanziamento dei partiti, oggetto delle attenzioni del legislatore, con alterne fortune, dagli anni ’70 in poi. Il modello originario del sussidio statale è stato più volte modificato da interventi normativi e referendari, come quello del 1993, fino ad arrivare alla L. 13/2014, che, prescrivendo la totale abolizione del finanziamento pubblico, ha segnato l’acme della disaffezione dell’elettorato verso i corpi intermedi. Si tratta, a ben vedere, di un’ulteriore conferma della svalutazione della dimensione pubblica dei partiti: i cittadini – e, quasi per paradosso, anche i loro rappresentanti – hanno ritenuto la politica solo come un costo da tagliare. Una scelta siffatta non appare in linea con quei principi costituzionali che accomunano l’Italia agli altri ordinamenti europei, e segnatamente quello della Chancengleichheit, messo fortemente a repentaglio nel contesto di un mercato politico divenuto appannaggio dei finanziamenti privati. Il vigente modello risulta maggiormente affine, anzi, ad un sistema improntato alla deregulation come quello statunitense, che, però, rispecchia un assetto partitico ed istituzionale profondamente diverso. I diversi temi sviluppati nello studio vengono riportati a sintesi nelle conclusioni, ove si avanza la proposta di un intervento legislativo che riaffermi la funzione costituzionale dei partiti politici. Sarebbe auspicabile una normazione a maglie larghe, in equilibrio fra le esigenze di tenuta del sistema e gli ineliminabili spazi di autonomia delle forze politiche. Il rafforzamento del profilo istituzionale dovrebbe passare, anzitutto, dalla inequivoca prescrizione della democrazia interna, con una corrispettiva definizione della portata del sindacato giurisdizionale. Dovrebbe essere, altresì, rivisto il funzionamento della legge Scelba, e in particolare dello scioglimento dei partiti, in modo tale da definire i confini del divieto ed eliminare talune zone d’ombra. Non può prescindersi nemmeno dal ripristino di un adeguato finanziamento pubblico dei partiti, che riaffermi la centralità delle formazioni politiche nelle dinamiche democratiche, in forza della rinnovata dimensione costituzionale che deve essere loro riconosciuta. Nell’auspicata prospettiva di un sistema di partiti maggiormente responsabile e istituzionalizzato potrebbe inserirsi, come ultimo tassello, un ripensamento della giurisprudenza costituzionale sui conflitti tra poteri, dai quali i partiti sono stati sempre esclusi. Difatti, nei rarissimi casi sottoposti al suo scrutinio4, la Corte costituzionale ha ravvisato una differenza fra partiti ed altri soggetti, quali i comitati promotori dei referendum, che, pur essendo estranei allo Stato-apparato, risultano nondimeno titolari di specifiche «funzioni pubbliche costituzionalmente rilevanti e garantite». La riconfigurazione dei partiti in conformità ai canoni della Costituzione e il ripristino della loro caratura pienamente costituzionale potrebbe determinare, quale logico corollario, la tutela delle funzioni costituzionali concretamente svolte dinnanzi alla Consulta.

Modello costituzionale dei partiti e sindacato giurisdizionale

Giuseppe Donato
2021-01-01

Abstract

Lo studio monografico si propone di riflettere sulle funzioni, sul ruolo e sulla disciplina dei partiti politici nell’ordinamento costituzionale italiano, accompagnando l’analisi dell’istituto giuridico con la disamina del dato giurisprudenziale e dei modelli offerti dalla prospettiva comparatistica. L’inquadramento preliminare del problema si innesta sulla definizione del partito quale parte totale, con la quale Mortati ha messo a fuoco uno dei principali tratti caratterizzanti l’evoluzione di queste formazioni sociali nel corso del tempo. Come è stato efficacemente descritto da Triepel attraverso l’immagine del «cammino lungo una scala a quattro gradini» (vierfachen Stufenfolge), i partiti sono stati inizialmente visti con ostilità dagli ordinamenti statali, in quanto strumenti di divisione della comunità1; l’ostracismo ha, poi, lasciato posto alla mera Ignorierung, in base alla quale lo Stato relegava i partiti in una sfera pre-giuridica. All’esito di questa parabola, comune alle democrazie occidentali, i partiti sono stati regolamentati o, addirittura, incorporati nello Stato, assumendo un ruolo da protagonisti nel sistema politico e, in particolare, nel processo di formazione della volontà generale. La centralità acquisita dai partiti non è stata valutata, però, in maniera unanime dalla dottrina: Triepel auspicava il superamento di questo modello, mentre Kelsen è stato fra i primi studiosi ad evidenziare l’opportunità, se non la necessità, di una disciplina dei partiti a livello costituzionale, così da poter rafforzare l’intero assetto democratico. La strada della regolazione è stata seguita, con varie sfumature, dalle costituzioni europee del secondo dopoguerra: fra queste, la Costituzione italiana si è contraddistinta per la primogenitura di una disposizione ad hoc quale l’art. 49. La ricerca prende avvio, pertanto, dalla ricostruzione dei lavori dell’Assemblea Costituente sul tema. Nel dibattito non sono mancate tesi autorevolmente sostenute (Mortati, Basso, Calamandrei) che auspicavano un inquadramento organico dei partiti nelle trame istituzionali, statuendo precisi profili di democrazia interna e attribuzioni di rilievo costituzionale. D’altro canto, la maggioranza dei Costituenti ha ritenuto che la preoccupazione di assicurare la stabilità del sistema che stava prendendo forma in quegli anni fosse prevalente rispetto alla possibilità di una normazione costituzionale dei partiti più stringente; emblematiche, a tal proposito, le parole dell’on. Merlin (relatore della proposta inserita nel progetto di Costituzione), che invitava «per il desiderio del meglio, a non provocare il peggio». Il peccato originale della formulazione dell’art. 49 Cost. viene richiamato a più riprese nel prosieguo dell’opera come principale causa dell’inadeguatezza della regolazione dei partiti: si tratta, infatti, di una disposizione dallo scarso valore precettivo e dal forte carattere garantistico, criticata in dottrina per la vaghezza del suo contenuto. Dalle pagine della Costituzione emerge, in maniera non troppo definita, un modello che ruota attorno all’intreccio di tre elementi: pluralismo, parità di chances e concorso. L’art. 49 Cost. tratteggia un sistema che si fonda sulla necessaria pluralità di forze partitiche, le quali, muovendo dagli stessi punti di partenza, concorrono nell’agone elettorale e, al contempo, assicurano (rectius, dovrebbero assicurare) un esercizio della sovranità popolare diuturno, che non si limiti al momento puntuale del voto. All’analisi teorica segue un’indagine sulle diverse tipologie di partiti che, vista l’elasticità della previsione costituzionale, hanno trovato spazio sulla scena politica italiana: dai partiti allo stato solido della c.d. Prima Repubblica, ben strutturati e fortemente ideologizzati, ai partiti allo stato liquido del post Tangentopoli, sino ad arrivare a formazioni dalla foggia ancor meno definita che sembrano trovarsi allo stato gassoso. Questo excursus risulta funzionale e strettamente collegato allo sviluppo della prima prospettiva di ricerca, dedicata alla democrazia interna. Nei primi anni di vigenza della Costituzione, l’autorità giudiziaria, forte di un’interpretazione dottrinale del «metodo democratico» limitata all’attività esterna, ha evitato di ingerirsi nelle dinamiche interne, rafforzando la tesi dell’asserita immunità giurisdizionale dei partiti. Successivamente, sulla scorta di una rinnovata valorizzazione delle disposizioni costituzionali (in particolare dell’art. 2) e, soprattutto, del codice civile, i giudici di merito hanno progressivamente attenuato il loro self restraint e prestato maggiore attenzione alle istanze dei singoli contro il partito. Si sono moltiplicate, anzitutto, le pronunce sulle espulsioni, spesso utilizzate come strumento di lotta politica – attraverso il quale colpire le minoranze riottose – anziché come sanzione disciplinare stricto sensu. La giurisprudenza ha dedicato, altresì, grande attenzione ai procedimenti di selezione interna delle candidature, una delle «funzioni sistemiche» che, secondo la definizione di Pasquino2, i partiti svolgono «a beneficio del sistema nel suo complesso». Entrambi i filoni giurisprudenziali fanno emergere lo iato tra veste privatistica e funzioni pubblicistiche dei partiti, in base al quale l’esercizio di un diritto costituzionalmente protetto come, ad esempio, quello di elettorato passivo è subordinato a dinamiche inter privatos che si sottraggono a qualsiasi controllo di democraticità. L’inadeguatezza degli strumenti civilistici, come la tecnica di controllo della c.d. legalità interna, rispetto ad esigenze di matrice costituzionale, avvalora la tesi della necessaria disciplina pubblicistica dei partiti, tanto più se l’anomalo caso italiano viene comparato con gli altri ordinamenti europei – specie con quelli tedesco, spagnolo e portoghese – nei quali alla centralità dei partiti nelle dinamiche istituzionali corrispondono precisi oneri di democraticità interna. Il secondo percorso di ricerca affrontato nel lavoro monografico verte sul limite al diritto di associazione in partiti prescritto dalla XII disp. fin.: il divieto di riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. L’Assemblea Costituente ha accolto un’accezione di democrazia procedurale, che non richiede la necessaria adesione delle forze politiche al quadro valoriale della Costituzione, ma postula soltanto il rispetto del metodo democratico nell’attività esterna, come dimostra la presenza di partiti monarchici nei primi anni di vita repubblicana. L’unica restrizione sul piano ideologico-programmatico è riservata, infatti, al fascismo. Nel volume viene analizzato il ventaglio di questioni che hanno accompagnato l’esegesi della XII disp.: la natura transitoria o finale, l’estensione della sua portata, la valutazione in termini di continuità o di rottura rispetto al testo costituzionale. Il quadro normativo è completato, poi, dalla c.d. legge Scelba, che all’art. 3 regola lo scioglimento dei gruppi neofascisti. La giurisprudenza sul tema risulta variegata. Nonostante una stabile, anche se minoritaria, presenza di forze di matrice fascista nello scenario politico italiano, si sono registrati appena due casi di scioglimento, che hanno interessato Ordine Nuovo (1974) e Avanguardia Nazionale (1976). Più fecondo, d’altro canto, è stato il lavoro della giustizia amministrativa, che in diverse occasioni ha avvalorato la scelta delle commissioni elettorali di escludere liste neofasciste dalle competizioni locali. Anche questo profilo di indagine viene arricchito dalla comparazione con gli altri ordinamenti europei, che, seppur con modalità diverse, hanno condiviso l’esigenza di difendersi dai partiti estremisti o c.d. “antisistema”. In Germania vige un modello di democrazia protetta e militante, in base al quale i partiti che rappresentano una minaccia per la Repubblica vengono dichiarati incostituzionali, e quindi sciolti, dal Bundesverfassungsgericht3; la Spagna, vista l’esperienza dell’ETA, dedica maggiore attenzione alla repressione dell’azione politica dei gruppi che fiancheggiano le organizzazioni terroristiche; mentre in Portogallo la Costituzione vieta espressamente le organizzazioni che perseguono l’ideologia fascista. Lo scioglimento dei partiti viene approfondito, da ultimo, nella prospettiva della giurisprudenza della Corte EDU (specie sulla Turchia), le cui decisioni offrono numerosi spunti di riflessione sull’ammissibilità e sull’efficacia di questo strumento. La terza direttrice di ricerca è rappresentata dal finanziamento dei partiti, oggetto delle attenzioni del legislatore, con alterne fortune, dagli anni ’70 in poi. Il modello originario del sussidio statale è stato più volte modificato da interventi normativi e referendari, come quello del 1993, fino ad arrivare alla L. 13/2014, che, prescrivendo la totale abolizione del finanziamento pubblico, ha segnato l’acme della disaffezione dell’elettorato verso i corpi intermedi. Si tratta, a ben vedere, di un’ulteriore conferma della svalutazione della dimensione pubblica dei partiti: i cittadini – e, quasi per paradosso, anche i loro rappresentanti – hanno ritenuto la politica solo come un costo da tagliare. Una scelta siffatta non appare in linea con quei principi costituzionali che accomunano l’Italia agli altri ordinamenti europei, e segnatamente quello della Chancengleichheit, messo fortemente a repentaglio nel contesto di un mercato politico divenuto appannaggio dei finanziamenti privati. Il vigente modello risulta maggiormente affine, anzi, ad un sistema improntato alla deregulation come quello statunitense, che, però, rispecchia un assetto partitico ed istituzionale profondamente diverso. I diversi temi sviluppati nello studio vengono riportati a sintesi nelle conclusioni, ove si avanza la proposta di un intervento legislativo che riaffermi la funzione costituzionale dei partiti politici. Sarebbe auspicabile una normazione a maglie larghe, in equilibrio fra le esigenze di tenuta del sistema e gli ineliminabili spazi di autonomia delle forze politiche. Il rafforzamento del profilo istituzionale dovrebbe passare, anzitutto, dalla inequivoca prescrizione della democrazia interna, con una corrispettiva definizione della portata del sindacato giurisdizionale. Dovrebbe essere, altresì, rivisto il funzionamento della legge Scelba, e in particolare dello scioglimento dei partiti, in modo tale da definire i confini del divieto ed eliminare talune zone d’ombra. Non può prescindersi nemmeno dal ripristino di un adeguato finanziamento pubblico dei partiti, che riaffermi la centralità delle formazioni politiche nelle dinamiche democratiche, in forza della rinnovata dimensione costituzionale che deve essere loro riconosciuta. Nell’auspicata prospettiva di un sistema di partiti maggiormente responsabile e istituzionalizzato potrebbe inserirsi, come ultimo tassello, un ripensamento della giurisprudenza costituzionale sui conflitti tra poteri, dai quali i partiti sono stati sempre esclusi. Difatti, nei rarissimi casi sottoposti al suo scrutinio4, la Corte costituzionale ha ravvisato una differenza fra partiti ed altri soggetti, quali i comitati promotori dei referendum, che, pur essendo estranei allo Stato-apparato, risultano nondimeno titolari di specifiche «funzioni pubbliche costituzionalmente rilevanti e garantite». La riconfigurazione dei partiti in conformità ai canoni della Costituzione e il ripristino della loro caratura pienamente costituzionale potrebbe determinare, quale logico corollario, la tutela delle funzioni costituzionali concretamente svolte dinnanzi alla Consulta.
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Ricerche giuridiche
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