Con la sentenza in commento, dopo la Plenaria del 26/01/2021, n. 3, la Corte si pronuncia sulla controversa questione della legittimazione passiva dell’ufficio fallimentare, rispetto agli obblighi di bonifica e rimessione in pristino stato dei siti inquinati, che viene affermata sulla scorta della mera disponibilità materiale da parte del curatore dei beni del fallito, non potendo secondo i giudici di Palazzo Spada, per un verso, costituire una esimente la responsabilità dell’autore materiale del fatto originario generatore del danno ambientale e, per altro verso, assumere rilevanza liberatoria la dismissione dei cespiti inquinati, ai sensi dell’art. 104-ter l. Fall., in definitiva considerando l’inquinamento come una “esternalità” dell’impresa, che deve, pertanto, provvedere ad eseguire le opere necessarie previste dalla normativa ambientale. Nonostante le commendevoli ragioni che sembrano ispirarla, l’impianto argomentativo, così come i suoi esiti, non si condividono, nella misura in cui il principio “chi inquina paga” non sembra declinarsi con la disciplina dell’insolvenza e dell’accertamento concorsuale dei crediti, a fronte di una possibile alternativa ermeneutica, che pure sembra emergere dalla stessa disciplina degli “interventi sostitutivi” (cfr. artt. 250 e 252, comma 5 TUA), i quali soltanto, secondo la soluzione qui proposta, possono essere adottati nei confronti del curatore fallimentare «non responsabile dell’inquinamento» e, pertanto, non tenuto ad una prestazione di facere, giustificandosi proprio in ragione della sua estraneità all’illecito la limitazione della responsabilità patrimoniale della società insolvente, entro il «valore di mercato del sito» inquinato (cfr. art. 253, comma 4 TUA).

Abbandono di rifiuti e obblighi di bonifica in capo al detentore qualificato tra normativa ambientale e disciplina concorsuale

Galletti Massimo
2022-01-01

Abstract

Con la sentenza in commento, dopo la Plenaria del 26/01/2021, n. 3, la Corte si pronuncia sulla controversa questione della legittimazione passiva dell’ufficio fallimentare, rispetto agli obblighi di bonifica e rimessione in pristino stato dei siti inquinati, che viene affermata sulla scorta della mera disponibilità materiale da parte del curatore dei beni del fallito, non potendo secondo i giudici di Palazzo Spada, per un verso, costituire una esimente la responsabilità dell’autore materiale del fatto originario generatore del danno ambientale e, per altro verso, assumere rilevanza liberatoria la dismissione dei cespiti inquinati, ai sensi dell’art. 104-ter l. Fall., in definitiva considerando l’inquinamento come una “esternalità” dell’impresa, che deve, pertanto, provvedere ad eseguire le opere necessarie previste dalla normativa ambientale. Nonostante le commendevoli ragioni che sembrano ispirarla, l’impianto argomentativo, così come i suoi esiti, non si condividono, nella misura in cui il principio “chi inquina paga” non sembra declinarsi con la disciplina dell’insolvenza e dell’accertamento concorsuale dei crediti, a fronte di una possibile alternativa ermeneutica, che pure sembra emergere dalla stessa disciplina degli “interventi sostitutivi” (cfr. artt. 250 e 252, comma 5 TUA), i quali soltanto, secondo la soluzione qui proposta, possono essere adottati nei confronti del curatore fallimentare «non responsabile dell’inquinamento» e, pertanto, non tenuto ad una prestazione di facere, giustificandosi proprio in ragione della sua estraneità all’illecito la limitazione della responsabilità patrimoniale della società insolvente, entro il «valore di mercato del sito» inquinato (cfr. art. 253, comma 4 TUA).
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