Su Luis de Góngora la critica europea ha prodotto un’imponente serie di studi, concentrati soprattutto nella seconda metà dell’ultimo secolo. Scopo della presente ricerca (nata nell’ambito di un progetto “giovani ricercatori” dell’Università di Catania) è quello di disegnare uno schizzo della fortuna italiana di Góngora nel Novecento (sul versante della critica e su quello delle traduzioni), riservando un’attenzione più ravvicinata alla lunga militanza gongorina di Giuseppe Ungaretti. La rassegna della critica che qui sinteticamente si presenta va dai primi audaci scritti di Arturo Farinelli ed Ettore De Zuani a quelli più maturi di Carlo Boselli, usciti nel 1927 (in non casuale coincidenza con il ritorno di Góngora promosso dalla generazione di Alonso e Lorca), agli interventi “contro” di Ferruccio Blasi, alla rivalutazione fatta da Benedetto Croce (1939), il cui elogio della «pura» poesia dello spagnolo rappresentò un punto di svolta per gli studiosi degli anni quaranta e seguenti. Tra tutti, spicca Ungaretti, traduttore e critico. Ma ancora negli anni sessanta la strada per una lettura di Góngora secondo Góngora è solo appena aperta. La critica più recente, spesso all’insegna del femminile, ha dato un grande impulso alla lettura e interpretazione dei testi gongorini, in sintonia con le molte traduzioni intanto pubblicate in Italia, che in questo campo è stata forse la nazione più attiva in Europa, a partire dal 1913, quando Soffici traduce, per primo nel nostro paese, un romance del cordobés. Ovviamente, di fronte a traduzioni “belle e infedeli” ne esistono anche di “brutte e infedeli”, così come accanto a traduzioni tecniche e magari meno attraenti ce ne sono di discrete (forse la maggior parte), mentre alcune nobilitano veramente la tradizione delle traduzioni da Góngora. Credo che, di fronte a tutte, il compito del ricercatore non sia quello di giudicare, bensì l’altro di tentare di darne un’idea il più possibile oggettiva, segnalando le difficoltà dei testi e le diverse soluzioni traduttorie proposte. Capita, ad esempio, che il traduttore italiano che abbia rispettato la rima non è riuscito a mantenere la geometria sintattica del tessuto linguistico gongorino; di contro, chi si è mantenuto aderente alla costruzione del verso avrà ceduto su un altro versante. Ma allora, è forse la poesia intraducibile? O deve essere tradotta solo dai poeti? O, per dirla con Ungaretti, la traduzione è sempre una poesia inferiore? Non ho nemmeno tentato di dare risposte a domande di tal genere, anche perché chi, come Ungaretti, si è arrovellato decine di anni su questi temi non è mai giunto ad un risultato definitivo e appagante. Ed in questo senso, il caso del rapporto di Ungaretti con Góngora può diventare emblematico delle difficoltà del tradurre (e del tradurre Góngora in particolare), ma anche del fascino unico che il grande poeta barocco ha esercitato su generazioni di poeti. Ungaretti inizia a tradurre i sonetti gongorini (1932) dal francese (ma senza dichiararlo, e senza quasi conoscere lo spagnolo), e finisce (1961) traducendo sempre più letteralmente, quasi per appropriarsi del poeta tradotto, in un rapporto unico, fatto di lotte con il testo, di tormenti, di infedeltà, fino al compimento del «compromesso tra due spiriti», e forse allo svelamento del «segreto inviolabile» della poesia. Per Ungaretti, come forse per ogni grande traduttore, e certo anche per chi legge e studia una traduzione, valgono le due ovvietà, e insieme verità, su cui Mounin fonda la sua traduttologia, e cioè che una traduzione non è l’originale e che la poesia è poesia.

Góngora nel Novecento in Italia (e in Ungaretti) tra critica e traduzioni

SAVOCA M
2004-01-01

Abstract

Su Luis de Góngora la critica europea ha prodotto un’imponente serie di studi, concentrati soprattutto nella seconda metà dell’ultimo secolo. Scopo della presente ricerca (nata nell’ambito di un progetto “giovani ricercatori” dell’Università di Catania) è quello di disegnare uno schizzo della fortuna italiana di Góngora nel Novecento (sul versante della critica e su quello delle traduzioni), riservando un’attenzione più ravvicinata alla lunga militanza gongorina di Giuseppe Ungaretti. La rassegna della critica che qui sinteticamente si presenta va dai primi audaci scritti di Arturo Farinelli ed Ettore De Zuani a quelli più maturi di Carlo Boselli, usciti nel 1927 (in non casuale coincidenza con il ritorno di Góngora promosso dalla generazione di Alonso e Lorca), agli interventi “contro” di Ferruccio Blasi, alla rivalutazione fatta da Benedetto Croce (1939), il cui elogio della «pura» poesia dello spagnolo rappresentò un punto di svolta per gli studiosi degli anni quaranta e seguenti. Tra tutti, spicca Ungaretti, traduttore e critico. Ma ancora negli anni sessanta la strada per una lettura di Góngora secondo Góngora è solo appena aperta. La critica più recente, spesso all’insegna del femminile, ha dato un grande impulso alla lettura e interpretazione dei testi gongorini, in sintonia con le molte traduzioni intanto pubblicate in Italia, che in questo campo è stata forse la nazione più attiva in Europa, a partire dal 1913, quando Soffici traduce, per primo nel nostro paese, un romance del cordobés. Ovviamente, di fronte a traduzioni “belle e infedeli” ne esistono anche di “brutte e infedeli”, così come accanto a traduzioni tecniche e magari meno attraenti ce ne sono di discrete (forse la maggior parte), mentre alcune nobilitano veramente la tradizione delle traduzioni da Góngora. Credo che, di fronte a tutte, il compito del ricercatore non sia quello di giudicare, bensì l’altro di tentare di darne un’idea il più possibile oggettiva, segnalando le difficoltà dei testi e le diverse soluzioni traduttorie proposte. Capita, ad esempio, che il traduttore italiano che abbia rispettato la rima non è riuscito a mantenere la geometria sintattica del tessuto linguistico gongorino; di contro, chi si è mantenuto aderente alla costruzione del verso avrà ceduto su un altro versante. Ma allora, è forse la poesia intraducibile? O deve essere tradotta solo dai poeti? O, per dirla con Ungaretti, la traduzione è sempre una poesia inferiore? Non ho nemmeno tentato di dare risposte a domande di tal genere, anche perché chi, come Ungaretti, si è arrovellato decine di anni su questi temi non è mai giunto ad un risultato definitivo e appagante. Ed in questo senso, il caso del rapporto di Ungaretti con Góngora può diventare emblematico delle difficoltà del tradurre (e del tradurre Góngora in particolare), ma anche del fascino unico che il grande poeta barocco ha esercitato su generazioni di poeti. Ungaretti inizia a tradurre i sonetti gongorini (1932) dal francese (ma senza dichiararlo, e senza quasi conoscere lo spagnolo), e finisce (1961) traducendo sempre più letteralmente, quasi per appropriarsi del poeta tradotto, in un rapporto unico, fatto di lotte con il testo, di tormenti, di infedeltà, fino al compimento del «compromesso tra due spiriti», e forse allo svelamento del «segreto inviolabile» della poesia. Per Ungaretti, come forse per ogni grande traduttore, e certo anche per chi legge e studia una traduzione, valgono le due ovvietà, e insieme verità, su cui Mounin fonda la sua traduttologia, e cioè che una traduzione non è l’originale e che la poesia è poesia.
2004
Polinnia
8822253817
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