L’incanto del viaggiatore è il diario di Armando Morbiato (Albino per amici e familiari) che riporta ricordi di un emigrante, per certi aspetti simili a quelli di milioni di ragazzi italiani sin dall’Ottocento coinvolti nel lasciare l’Italia per andare all’estero in cerca di fortuna. Condizioni e narrazioni oggi note alla nutrita compagine di storici, sociologi, antropologi che le hanno sviscerate in una sterminata serie di studi critici. Tuttavia, sin dalle prime pagine, davvero diversi, particolari, originali, «incantevoli» risaltano i toni con cui Albino racconta la sua vicenda familiare, l’infanzia e l’adolescenza a Camin, tra contadini, artigiani, bottegai e le prime fabbriche tessili, mobili, calzaturiere del Padovano, e quindi il complesso delle vicissitudini che, nel 1957, l’avrebbero portato, a poco più di vent’anni, a intraprendere la mitica traversata dal porto di Genova fino all’Australia. Toni diversi da quelli dell’emigrazione italiana perché, a sostenerli, non è solo il “dramma” migratorio che pur vide Albino, sull’altro emisfero, valentissimo carpeniere e falegname in un amplissimo ventaglio di opportunità lavorative ma, anche e soprattutto, per il progressivo, amorevole appassionamento al viaggio che l’emigrante matura già in quella provincia segnata dalla miseria, dalla precarietà, dal fascismo, dalle lotte sociali, dalla guerra e dalla Resistenza, dalla sopravvivenza e da una indomita volontà di ripresa. Insomma sin dalle prime pagine del suo racconto autobiografico – quando, ad esempio, ricorda l’apprendistato dall’intagliatore Campaneo fino a Noventa, da Cacco, in quell’industriosa società popolare veneta; le prime, affascinanti gite in bici e quelle in corriera che i patronati nel dopoguerra organizzavano per i ragazzi poveri, fino all’Anno Santo del 1950 e al pellegrinaggio a Roma dove nell’arco di Tito o nell’obelisco di Axum scoprì la storia come «oggetto concreto» - rintracciamo l’insieme delle variabili che, di lì a poco, tra il 1957 e il 1967, avrebbero fatto di Albino il protagonista di un percorso davvero raro e, per noi, pieno di spunti antropologici di riflessione.

Armando Morbiato, L’incanto del viaggiatore. Diari (1957-1967) e ricordi di un emigrante, a cura di Luciano Morbiato, prefazione di Francesco Vallerani, Il Poligrafo, Padova 2020, pp. 321

GERACI M.
2021-01-01

Abstract

L’incanto del viaggiatore è il diario di Armando Morbiato (Albino per amici e familiari) che riporta ricordi di un emigrante, per certi aspetti simili a quelli di milioni di ragazzi italiani sin dall’Ottocento coinvolti nel lasciare l’Italia per andare all’estero in cerca di fortuna. Condizioni e narrazioni oggi note alla nutrita compagine di storici, sociologi, antropologi che le hanno sviscerate in una sterminata serie di studi critici. Tuttavia, sin dalle prime pagine, davvero diversi, particolari, originali, «incantevoli» risaltano i toni con cui Albino racconta la sua vicenda familiare, l’infanzia e l’adolescenza a Camin, tra contadini, artigiani, bottegai e le prime fabbriche tessili, mobili, calzaturiere del Padovano, e quindi il complesso delle vicissitudini che, nel 1957, l’avrebbero portato, a poco più di vent’anni, a intraprendere la mitica traversata dal porto di Genova fino all’Australia. Toni diversi da quelli dell’emigrazione italiana perché, a sostenerli, non è solo il “dramma” migratorio che pur vide Albino, sull’altro emisfero, valentissimo carpeniere e falegname in un amplissimo ventaglio di opportunità lavorative ma, anche e soprattutto, per il progressivo, amorevole appassionamento al viaggio che l’emigrante matura già in quella provincia segnata dalla miseria, dalla precarietà, dal fascismo, dalle lotte sociali, dalla guerra e dalla Resistenza, dalla sopravvivenza e da una indomita volontà di ripresa. Insomma sin dalle prime pagine del suo racconto autobiografico – quando, ad esempio, ricorda l’apprendistato dall’intagliatore Campaneo fino a Noventa, da Cacco, in quell’industriosa società popolare veneta; le prime, affascinanti gite in bici e quelle in corriera che i patronati nel dopoguerra organizzavano per i ragazzi poveri, fino all’Anno Santo del 1950 e al pellegrinaggio a Roma dove nell’arco di Tito o nell’obelisco di Axum scoprì la storia come «oggetto concreto» - rintracciamo l’insieme delle variabili che, di lì a poco, tra il 1957 e il 1967, avrebbero fatto di Albino il protagonista di un percorso davvero raro e, per noi, pieno di spunti antropologici di riflessione.
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