Se il testamento è visto ancora oggi dal nostro legislatore quale peculiare strumento, capace di determinare in via diretta la successione mortis causa, anche se in alternativa o a fianco della successione per legge e nel rispetto dei legami familiari, ciò è dovuto all’impostazione romanistica che in materia domina il nostro codice civile. La norma contemplata nell’art. 457, infatti, riecheggia per certi versi ancora il precetto decemvirale contenuto in Tab. 5.4-5, ove appunto si attribuisce una priorità alla successione testamentaria sull’intestata. Ciò che differenzia l’impostazione moderna del fenomeno successorio da quella romana è il superamento del principio di incompatibilità tra le due cause di delazione, principio racchiuso nell’adagio nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest, che caratterizzò l’esperienza romana e che non trova riscontro nei moderni ordinamenti, compreso il nostro. Tale principio, rimasto saldo per tutto l’arco dell’esperienza giuridica romana, è connesso alla rilevanza attribuita, in quell’ordinamento, all’institutio heredis, caput et fundamentum totius testamenti. Se, infatti, il de cuius testava, scegliendosi pertanto un successore (o più successori) cui attribuire la qualifica di heres, automaticamente era escluso che tale qualifica personale, il cui acquisto comportava una successione in locum et ius, già conferita dal testatore, potesse essere assegnata anche dalla legge. Ma il declino della delazione testamentaria, dovuto all’importanza esclusiva attribuita alla delazione legittima da parte del Longobardi, i cui principi normativi in materia successoria, dopo la loro invasione, ebbero larga applicazione nel nostro Paese, incise sugli sviluppi successivi del rapporto tra le due cause di delazione. Riesumato dai giuristi delle scuole attualistiche a partire dal XII secolo, il testamento, infatti, nella nuova realtà socio-economica in cui si trovò ad operare, perdette la sua caratteristica fondamentale: l’institutio heredis; venne pertanto visto come uno strumento attraverso il quale poteva semplicemente essere devoluto un partrimonio. Non vi fu più ragione quindi di distinguere tra un erede universale ed un successore particolare. Il che comportò che si potessero lasciare i propri beni ai discendenti o ad estranei in parte per successione testamentaria ed in parte per successione legittima. Questo mutamento di prospettiva si rispecchia in ciò che afferma il nostro art. 457, secondo cui, appunto, non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte quella testamentaria. La priorità che ancora oggi si attribuisce, in base soprattutto a questa disposizione normativa, alla successione testamentaria sull’intestata ha inoltre posto un ulteriore interrogativo, e cioè se si tratta di una priorità formale o sostanziale. Nonostante i divergenti punti di vista espressi al riguardo in dottrina, si è ritenuto di concludere che le due cause di delazione sono poste dal nostro legislatore su un piano di parità, essendo entrambe volte alla tutela di due interessi differenti, ma entrambi degni di rilevanza: l’uno individuale, quello del testatore, l’altro collettivo, quello della famiglia in quanto tale, con prevalenza di quello familiare nel caso in cui il testatore lo abbia del tutto trascurato, un interesse, quest’ultimo, la cui difesa trova i suoi precedenti nell’ordinamento giuridico romano, e precisamente nell’opera della giurisprudenza, del pretore e degli Imperatori che alla diffusione, nella tarda repubblica, dell’assoluta ed indiscriminata libertà di testare a favore di estranei hanno posto dei ripari attraverso gli strumenti che avevano a disposizione: interpretatio creatrice, concessione della bonorum possessio, costituzioni imperiali, introduzione di una azione rescissoria: la querela inofficiosi testamenti, tutti rimedi, appunto, indirizzati alla tutela di interessi oggi detti “sociali”.

Nascita e declino dell'adagio "Nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest"

COPPOLA, Giovanna
2012-01-01

Abstract

Se il testamento è visto ancora oggi dal nostro legislatore quale peculiare strumento, capace di determinare in via diretta la successione mortis causa, anche se in alternativa o a fianco della successione per legge e nel rispetto dei legami familiari, ciò è dovuto all’impostazione romanistica che in materia domina il nostro codice civile. La norma contemplata nell’art. 457, infatti, riecheggia per certi versi ancora il precetto decemvirale contenuto in Tab. 5.4-5, ove appunto si attribuisce una priorità alla successione testamentaria sull’intestata. Ciò che differenzia l’impostazione moderna del fenomeno successorio da quella romana è il superamento del principio di incompatibilità tra le due cause di delazione, principio racchiuso nell’adagio nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest, che caratterizzò l’esperienza romana e che non trova riscontro nei moderni ordinamenti, compreso il nostro. Tale principio, rimasto saldo per tutto l’arco dell’esperienza giuridica romana, è connesso alla rilevanza attribuita, in quell’ordinamento, all’institutio heredis, caput et fundamentum totius testamenti. Se, infatti, il de cuius testava, scegliendosi pertanto un successore (o più successori) cui attribuire la qualifica di heres, automaticamente era escluso che tale qualifica personale, il cui acquisto comportava una successione in locum et ius, già conferita dal testatore, potesse essere assegnata anche dalla legge. Ma il declino della delazione testamentaria, dovuto all’importanza esclusiva attribuita alla delazione legittima da parte del Longobardi, i cui principi normativi in materia successoria, dopo la loro invasione, ebbero larga applicazione nel nostro Paese, incise sugli sviluppi successivi del rapporto tra le due cause di delazione. Riesumato dai giuristi delle scuole attualistiche a partire dal XII secolo, il testamento, infatti, nella nuova realtà socio-economica in cui si trovò ad operare, perdette la sua caratteristica fondamentale: l’institutio heredis; venne pertanto visto come uno strumento attraverso il quale poteva semplicemente essere devoluto un partrimonio. Non vi fu più ragione quindi di distinguere tra un erede universale ed un successore particolare. Il che comportò che si potessero lasciare i propri beni ai discendenti o ad estranei in parte per successione testamentaria ed in parte per successione legittima. Questo mutamento di prospettiva si rispecchia in ciò che afferma il nostro art. 457, secondo cui, appunto, non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte quella testamentaria. La priorità che ancora oggi si attribuisce, in base soprattutto a questa disposizione normativa, alla successione testamentaria sull’intestata ha inoltre posto un ulteriore interrogativo, e cioè se si tratta di una priorità formale o sostanziale. Nonostante i divergenti punti di vista espressi al riguardo in dottrina, si è ritenuto di concludere che le due cause di delazione sono poste dal nostro legislatore su un piano di parità, essendo entrambe volte alla tutela di due interessi differenti, ma entrambi degni di rilevanza: l’uno individuale, quello del testatore, l’altro collettivo, quello della famiglia in quanto tale, con prevalenza di quello familiare nel caso in cui il testatore lo abbia del tutto trascurato, un interesse, quest’ultimo, la cui difesa trova i suoi precedenti nell’ordinamento giuridico romano, e precisamente nell’opera della giurisprudenza, del pretore e degli Imperatori che alla diffusione, nella tarda repubblica, dell’assoluta ed indiscriminata libertà di testare a favore di estranei hanno posto dei ripari attraverso gli strumenti che avevano a disposizione: interpretatio creatrice, concessione della bonorum possessio, costituzioni imperiali, introduzione di una azione rescissoria: la querela inofficiosi testamenti, tutti rimedi, appunto, indirizzati alla tutela di interessi oggi detti “sociali”.
2012
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