ll comportamento morale negli ultimi anni ha fatto il suo ingresso nell’ambito delle scienze cognitive, come aspetto del comportamento mentale suscettibile di essere studiato mediante i suoi metodi empirici, in particolar modo esperimenti socio-psicologici e studi neurocognitivi. Il ventaglio delle analisi che, con metodologie diversificate, hanno studiato la moralità offre cornici di riferimento che analizzano i legami tra comportamenti morali e sistemi giuridico-economici (Tapp e Kohlberg 1971; Gordon, 1989; Tyler, 2006; Zamir e Medina, 2008, Posner, 2009; Rai e Holyoak, 2010), le dinamiche socio-culturali che ne veicolano o scandiscono i processi di apprendimento (Kohlberg, 1975; Nucci e Turiel, 1978; Bar-Tal e Nissim, 1984; Powers, 1988; Wright, 1995; Carlo et al., 1999; Selfe 2013), le oscillazioni ambientali che ne definirebbero i contenuti (Gregg et al., 1982; Barriga et al., 2001) le variabili contestuali che ne favorirebbero la concretizzazione (Baron, 1997; Zhong e Liljenquist, 2006; Schnall et al., 2008; Williams e Bargh, 2008; Liljenquist et al., 2010). Una ulteriore linea di ricerca, propria delle neuroscienze cognitive, ha invece cercato di analizzare i circuiti cerebrali coinvolti nel comportamento morale e come alterazioni strutturali che implicano quindi, anche minime variazioni nella morfometria cerebrale, possono condizionare, inibire o catalizzare comportamenti moralmente connotati (Anderson et al., 1999; Bechara et al., 2000; Greene et al., 2001; Anderson et al., 2006; Koenigs et al., 2007). Tuttavia, rispetto ai notevoli progressi ottenuti dai numerosi approcci che abbiamo evidenziato, rimane piuttosto modesto, se non inesistente, il contributo di uno dei metodi di cui dispongono le scienze cognitive: la modellistica computazionale. Perorare la causa di una spiegazione computazionale non può non suonare conflittuale rispetto all’attenzione che qui si sta dando al versante socioculturale della moralità. Ricondurre un fenomeno cognitivo ad una sua forma algoritmica è la mossa d’eccellenza per chi intenda astrarlo proprio dai contesti culturali, cristallizandolo in un processo universalmente istanziato nella mente umana. È, per esempio, il genere di strategia tentata da Mikhail (2011) con la cosiddetta “analogia linguistica”. Non solo non vogliamo eludere l’obiezione, ma ribadire che l’intenzione è precisamente di percorrere l’apparente paradosso di coniugare il rigore della modellistica computazionale con il rispetto delle evidenze socioculturali, convinti che si tratti di una strada indubbiamente impegnativa e tortuosa, ma altamente produttiva. Così come siamo dell’opinione che i tentativi di imporre al comportamento morale umano delle gabbie computazionali universali, per quanto complesse e raffinate, come tentato da Mikhail (2011), e sostenuto teoricamente da Hauser (2006), spieghino veramente poco di quel che succede nella mente, opinione non del tutto isolata (Mallon, 2008; Prinz, 2008). Infatti, dal nostro punto di vista, le tipizzazioni dei comportamenti morali rappresentano una categoria difficilmente inscrivibile all’interno di universi eco-etologici specifici (ciò a ragione del fatto che la “natura morale” di un comportamento viene assunta a partire da un sistema valoriale umano e, per questo, qualsiasi tentativo di traduzione eco-etologica sarebbe viziato ab origine). Nonostante le evidenti ragnatele culturali che con modalità molto diverse, ne validano i contenuti, è evidente come manchi un’analisi che non spieghi soltanto le differenze cross-culturali o l’aspetto eco-funzionale di un comportamento, ma si muova nella direzione di spiegare a livello processuale i generi di legami tra comportamenti morali e specifici assetti neuroendocrini. Siamo convinti che ad un livello di generalizzazione superiore, sia auspicabile un modello esplicativo che chiarisca quali siano e come funzionano i meccanismi cerebrali sottesi all’adozione di un comportamento morale senza sganciarlo, tuttavia, dal contesto entro cui comportamenti o scelte morali concretizzano (o meno) i loro contenuti. Il sistema qui presentato, in fase avanzata di sviluppo, intende colmare questa lacuna e rappresenta un primo tentativo di simulare l’assetto cerebrale che, entro certe assunzioni che verranno subito esplicitate, costituirebbe il nucleo principale della scelta di tipo morale. Vi sono due presupposti teorici che giustificano il modello: l’apprendimento delle regole morali, e il loro stretto legame con i circuiti emozionali, che verranno esposte nel prossimo paragrafo, a seguire la descrizione del modello e alcuni suoi preliminari risultati.

Neurocomputazione del comportamento morale e dimensioni socioculturali

PLEBE, Alessio;NUCERA, Sebastiano
2015-01-01

Abstract

ll comportamento morale negli ultimi anni ha fatto il suo ingresso nell’ambito delle scienze cognitive, come aspetto del comportamento mentale suscettibile di essere studiato mediante i suoi metodi empirici, in particolar modo esperimenti socio-psicologici e studi neurocognitivi. Il ventaglio delle analisi che, con metodologie diversificate, hanno studiato la moralità offre cornici di riferimento che analizzano i legami tra comportamenti morali e sistemi giuridico-economici (Tapp e Kohlberg 1971; Gordon, 1989; Tyler, 2006; Zamir e Medina, 2008, Posner, 2009; Rai e Holyoak, 2010), le dinamiche socio-culturali che ne veicolano o scandiscono i processi di apprendimento (Kohlberg, 1975; Nucci e Turiel, 1978; Bar-Tal e Nissim, 1984; Powers, 1988; Wright, 1995; Carlo et al., 1999; Selfe 2013), le oscillazioni ambientali che ne definirebbero i contenuti (Gregg et al., 1982; Barriga et al., 2001) le variabili contestuali che ne favorirebbero la concretizzazione (Baron, 1997; Zhong e Liljenquist, 2006; Schnall et al., 2008; Williams e Bargh, 2008; Liljenquist et al., 2010). Una ulteriore linea di ricerca, propria delle neuroscienze cognitive, ha invece cercato di analizzare i circuiti cerebrali coinvolti nel comportamento morale e come alterazioni strutturali che implicano quindi, anche minime variazioni nella morfometria cerebrale, possono condizionare, inibire o catalizzare comportamenti moralmente connotati (Anderson et al., 1999; Bechara et al., 2000; Greene et al., 2001; Anderson et al., 2006; Koenigs et al., 2007). Tuttavia, rispetto ai notevoli progressi ottenuti dai numerosi approcci che abbiamo evidenziato, rimane piuttosto modesto, se non inesistente, il contributo di uno dei metodi di cui dispongono le scienze cognitive: la modellistica computazionale. Perorare la causa di una spiegazione computazionale non può non suonare conflittuale rispetto all’attenzione che qui si sta dando al versante socioculturale della moralità. Ricondurre un fenomeno cognitivo ad una sua forma algoritmica è la mossa d’eccellenza per chi intenda astrarlo proprio dai contesti culturali, cristallizandolo in un processo universalmente istanziato nella mente umana. È, per esempio, il genere di strategia tentata da Mikhail (2011) con la cosiddetta “analogia linguistica”. Non solo non vogliamo eludere l’obiezione, ma ribadire che l’intenzione è precisamente di percorrere l’apparente paradosso di coniugare il rigore della modellistica computazionale con il rispetto delle evidenze socioculturali, convinti che si tratti di una strada indubbiamente impegnativa e tortuosa, ma altamente produttiva. Così come siamo dell’opinione che i tentativi di imporre al comportamento morale umano delle gabbie computazionali universali, per quanto complesse e raffinate, come tentato da Mikhail (2011), e sostenuto teoricamente da Hauser (2006), spieghino veramente poco di quel che succede nella mente, opinione non del tutto isolata (Mallon, 2008; Prinz, 2008). Infatti, dal nostro punto di vista, le tipizzazioni dei comportamenti morali rappresentano una categoria difficilmente inscrivibile all’interno di universi eco-etologici specifici (ciò a ragione del fatto che la “natura morale” di un comportamento viene assunta a partire da un sistema valoriale umano e, per questo, qualsiasi tentativo di traduzione eco-etologica sarebbe viziato ab origine). Nonostante le evidenti ragnatele culturali che con modalità molto diverse, ne validano i contenuti, è evidente come manchi un’analisi che non spieghi soltanto le differenze cross-culturali o l’aspetto eco-funzionale di un comportamento, ma si muova nella direzione di spiegare a livello processuale i generi di legami tra comportamenti morali e specifici assetti neuroendocrini. Siamo convinti che ad un livello di generalizzazione superiore, sia auspicabile un modello esplicativo che chiarisca quali siano e come funzionano i meccanismi cerebrali sottesi all’adozione di un comportamento morale senza sganciarlo, tuttavia, dal contesto entro cui comportamenti o scelte morali concretizzano (o meno) i loro contenuti. Il sistema qui presentato, in fase avanzata di sviluppo, intende colmare questa lacuna e rappresenta un primo tentativo di simulare l’assetto cerebrale che, entro certe assunzioni che verranno subito esplicitate, costituirebbe il nucleo principale della scelta di tipo morale. Vi sono due presupposti teorici che giustificano il modello: l’apprendimento delle regole morali, e il loro stretto legame con i circuiti emozionali, che verranno esposte nel prossimo paragrafo, a seguire la descrizione del modello e alcuni suoi preliminari risultati.
2015
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