La vita e la morte, la rinascita e l’oblio degli spazi pubblici dipendono dalla diversificazione dei city users e dai nuovi modelli e stili di vita; una volubilità degli spazi sociali che scaturisce anche dalla sindrome della velocità e dell’ipermobilità delle ultime generazioni: gli «spazi pubblici sono delle fiamme» affermava Stefano Boeri su Paesaggio urbano nel ’97. La modalità di fruizione dello spazio pubblico rappresenta uno dei punti fondamentali della questione che ruota attorno a tre “F”, forma, funzione e fruitori, insieme ad altri aspetti legati all’educazione, alla gestione e alla messa a sistema. Ma un tema resta ineludibile, si tratta di uno spazio che si misura percorrendolo perché resta ancora il luogo dell’incontro. Negli spazi pubblici la cittadinanza si rappresenta e il turista si incanta, ciò accade se l’uso li rende spazi collettivi, non basta infatti il regime di proprietà ad eleggerli come luoghi della vita sociale. Il fulcro per eccellenza dell’identità urbana è la piazza ma per decenni si è consumata una duplice forma di lobotomia spaziale, di eutanasia, con le piazze storiche usate come parcheggi e le periferie urbane senza piazze ma con dei surrogati all’interno dei nuovi centri commerciali. Solo la ricerca di significati e valori della città vissuta − attraverso un progetto concepito non per un astratto e standardizzato fruitore dello spazio ma riferito a individui o gruppi con una precisa coscienza culturale fatta di schemi cognitivi, preferenze ambientali e comportamentali − può consentire la rinascita degli spazi pubblici. Accoglienza, urbanità, socialità, bellezza sono le caratteristiche del «buon abitare», scrive Colarossi nel suo editoriale, oltre ad un controllo della qualità dello spazio pubblico che partendo dalla piccola dimensione sia in grado di trasformarsi in sistema alla scala urbana. È di spazio debito che stiamo parlando, dello spazio “che ci vuole”, quello “giusto”, quella quota di spazio pubblico che ogni città e ogni cittadino dovrebbero avere. Ma è debito anche nel senso di dovuto. È lo spazio che i cittadini “devono” alla città e, per una volta, non viceversa. È il contributo che l’individuo è chiamato a dare al di là di ogni logica privatistica di utilizzo e ciò in virtù di un’etica collettiva da contrapporre all’interesse del singolo. Chiamiamola educazione alla bellezza dove la bellezza è sintesi di qualità della vita.
Editoriale. Lo spazio debito
ARENA, Marina
2012-01-01
Abstract
La vita e la morte, la rinascita e l’oblio degli spazi pubblici dipendono dalla diversificazione dei city users e dai nuovi modelli e stili di vita; una volubilità degli spazi sociali che scaturisce anche dalla sindrome della velocità e dell’ipermobilità delle ultime generazioni: gli «spazi pubblici sono delle fiamme» affermava Stefano Boeri su Paesaggio urbano nel ’97. La modalità di fruizione dello spazio pubblico rappresenta uno dei punti fondamentali della questione che ruota attorno a tre “F”, forma, funzione e fruitori, insieme ad altri aspetti legati all’educazione, alla gestione e alla messa a sistema. Ma un tema resta ineludibile, si tratta di uno spazio che si misura percorrendolo perché resta ancora il luogo dell’incontro. Negli spazi pubblici la cittadinanza si rappresenta e il turista si incanta, ciò accade se l’uso li rende spazi collettivi, non basta infatti il regime di proprietà ad eleggerli come luoghi della vita sociale. Il fulcro per eccellenza dell’identità urbana è la piazza ma per decenni si è consumata una duplice forma di lobotomia spaziale, di eutanasia, con le piazze storiche usate come parcheggi e le periferie urbane senza piazze ma con dei surrogati all’interno dei nuovi centri commerciali. Solo la ricerca di significati e valori della città vissuta − attraverso un progetto concepito non per un astratto e standardizzato fruitore dello spazio ma riferito a individui o gruppi con una precisa coscienza culturale fatta di schemi cognitivi, preferenze ambientali e comportamentali − può consentire la rinascita degli spazi pubblici. Accoglienza, urbanità, socialità, bellezza sono le caratteristiche del «buon abitare», scrive Colarossi nel suo editoriale, oltre ad un controllo della qualità dello spazio pubblico che partendo dalla piccola dimensione sia in grado di trasformarsi in sistema alla scala urbana. È di spazio debito che stiamo parlando, dello spazio “che ci vuole”, quello “giusto”, quella quota di spazio pubblico che ogni città e ogni cittadino dovrebbero avere. Ma è debito anche nel senso di dovuto. È lo spazio che i cittadini “devono” alla città e, per una volta, non viceversa. È il contributo che l’individuo è chiamato a dare al di là di ogni logica privatistica di utilizzo e ciò in virtù di un’etica collettiva da contrapporre all’interesse del singolo. Chiamiamola educazione alla bellezza dove la bellezza è sintesi di qualità della vita.Pubblicazioni consigliate
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