L’impresa dei Mille, assurta a mito simbolico del processo dell’unificazione italiana, include tra molte pagine luminose alcune ombre. L’insurrezione di Alcara Li Fusi, al tempo Alcara Valdemone, la prima e la più cruenta tra le sommosse popolari e contadine che sarebbero presto scoppiate in molti distretti dell’Isola, tutte duramente represse, vide infranto il sogno di riscatto maturato in una realtà caratterizzata dal latifondo e dall’arbitrio, nella quale le condizioni dei lavoratori della terra ricordavano quelle dei servi della gleba. Le riforme di Carlo III e il Secolo dei Lumi sembravano essere passati invano; e se ancora sul finire del Settecento il viceré “illuminato” Domenico Caracciolo, nel corso di un viaggio in Sicilia, scriveva all’amico Ferdinando Galeani che le discrasie riscontrate gli mostravano un’Isola «abitata da gran signori e da miserabili, senza classe intermedia, vale a dire abitata da oppressori e da oppressi, perché la gente del foro servono qui di strumento all’oppressione» , alle soglie dell’Unità permanevano un’agricoltura allo stadio feudale, una statica immutabilità della condizione contadina e una sorta di incomunicabilità tra i contadini e i proprietari terrieri . I precoci moti che ebbero luogo dopo la prima vittoria di Garibaldi sull’esercito borbonico e intendevano salutare la liberazione dalla schiavitù. Un recente lavoro filologico di Gaetano De Maria, di recupero di un Manoscritto oggetto del suo studio,descrive e permette di fare ulteriori analisi, la vicenda storica, a partire da una supplica inviata al giudice istruttore della Commissione Speciale del Distretto di Patti, un vero e proprio dossier di cinquanta pagine, da donna Teresa Artino, vedova di don Ignazio Bartolo, vittima - e bersaglio principale - della congiura ordita da don Manfredi di Bartolo, atta a convalidare un’ipotesi già suffragata dai fatti: più che di una vicenda politica, si trattò di una faida locale. La chiave di interpretazione dei tumulti offerta dal manoscritto alcarese riconduce alla contrapposizione tra la nobiltà latifondista e la società civile, ovvero a uno scontro tra gruppi egemoni che utilizzarono la massa popolare, strumentalizzando il momento politico per fomentare una lotta di fazione che non cambiò la condizione di proprietà delle terre. Appare evidente come la mano armata non solo fosse legata a una delle famiglie dominanti di Alcara, ma fosse, come manovalanza, per lo più costituita da pastori, in perenne conflitto - e si tratta di uno scontro di lunghissima durata - con il ceto contadino, predestinato alla sconfitta. E, sullo sfondo della guerra fra poveri, si staglia con ben altra forza l’antagonismo fra grandi allevatori e latifondisti.

Rivolte e repressioni: fra le pagine scure dell’epopea garibaldina.

ALIBRANDI, Rosamaria
2016-01-01

Abstract

L’impresa dei Mille, assurta a mito simbolico del processo dell’unificazione italiana, include tra molte pagine luminose alcune ombre. L’insurrezione di Alcara Li Fusi, al tempo Alcara Valdemone, la prima e la più cruenta tra le sommosse popolari e contadine che sarebbero presto scoppiate in molti distretti dell’Isola, tutte duramente represse, vide infranto il sogno di riscatto maturato in una realtà caratterizzata dal latifondo e dall’arbitrio, nella quale le condizioni dei lavoratori della terra ricordavano quelle dei servi della gleba. Le riforme di Carlo III e il Secolo dei Lumi sembravano essere passati invano; e se ancora sul finire del Settecento il viceré “illuminato” Domenico Caracciolo, nel corso di un viaggio in Sicilia, scriveva all’amico Ferdinando Galeani che le discrasie riscontrate gli mostravano un’Isola «abitata da gran signori e da miserabili, senza classe intermedia, vale a dire abitata da oppressori e da oppressi, perché la gente del foro servono qui di strumento all’oppressione» , alle soglie dell’Unità permanevano un’agricoltura allo stadio feudale, una statica immutabilità della condizione contadina e una sorta di incomunicabilità tra i contadini e i proprietari terrieri . I precoci moti che ebbero luogo dopo la prima vittoria di Garibaldi sull’esercito borbonico e intendevano salutare la liberazione dalla schiavitù. Un recente lavoro filologico di Gaetano De Maria, di recupero di un Manoscritto oggetto del suo studio,descrive e permette di fare ulteriori analisi, la vicenda storica, a partire da una supplica inviata al giudice istruttore della Commissione Speciale del Distretto di Patti, un vero e proprio dossier di cinquanta pagine, da donna Teresa Artino, vedova di don Ignazio Bartolo, vittima - e bersaglio principale - della congiura ordita da don Manfredi di Bartolo, atta a convalidare un’ipotesi già suffragata dai fatti: più che di una vicenda politica, si trattò di una faida locale. La chiave di interpretazione dei tumulti offerta dal manoscritto alcarese riconduce alla contrapposizione tra la nobiltà latifondista e la società civile, ovvero a uno scontro tra gruppi egemoni che utilizzarono la massa popolare, strumentalizzando il momento politico per fomentare una lotta di fazione che non cambiò la condizione di proprietà delle terre. Appare evidente come la mano armata non solo fosse legata a una delle famiglie dominanti di Alcara, ma fosse, come manovalanza, per lo più costituita da pastori, in perenne conflitto - e si tratta di uno scontro di lunghissima durata - con il ceto contadino, predestinato alla sconfitta. E, sullo sfondo della guerra fra poveri, si staglia con ben altra forza l’antagonismo fra grandi allevatori e latifondisti.
2016
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