Il ruolo dell’italiano popolare unitario nell’evoluzione del complesso diasistema linguistico nostrano è stato molto studiato, a partire da Spitzer (1921/2016), almeno da De Mauro (1970), Cortelazzo (1972) e altri. Quasi inesistenti, invece, gli studi sull’impiego artistico dell’italiano popolare, ovvero la lingua dei semicolti, «il tipo di italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto» (Cortelazzo 1972). Il presente contributo analizza uno dei casi estremi, l’autobiografia Terramatta, scritta tra il 1968 e il 1970 dal semianalfabeta siciliano Vincenzo Rabito (1899-1981: cfr. Rabito 2007), e ne sonda le caratteristiche linguistiche. Oltre al romanzo di Rabito (vero e proprio casus letterario, tanto da aggiudicarsi nel 2000, postumo e prima della pubblicazione Einaudi, il «Premio Pieve - Banca Toscana» della Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano), se ne analizza anche la trasposizione filmica di Costanza Quatriglio (Quatriglio 2012, Ottaviano 2013). La forza della parola mal dominata e recalcitrante all’apparato ortografico e grammaticale esprime, in Rabito, l’insopprimibile volontà, e capacità, di trovare un senso all’essere nel mondo e agli eventi storici salienti, che l’autore scolpisce con inaudita profondità dai primi del Novecento alla fine del boom economico. Ne scaturisce uno sguardo disincantato su Grande guerra, migrazione, fascismo, qualunquismo, corruzione e altri “italianismi” socioculturali, che induce a rileggere, ben più di molti libri di storia, con lenti inedite il mito sfuggente delle identità italiane. E soprattutto, i paradossi della scrittura rabitiana, enfatizzati dal montaggio, dalle sovrimpressioni e dalle altre tecniche multimodali della regista Quatriglio, contribuiscono alla riconsiderazione, se non all’abbattimento, di consolidate paratie epistemologiche, quali l’opposizione tra scritture dall’alto e dal basso, lo iato tra coscienza critica degli intellettuali e inconsapevolezza popolare, l’inconciliabilità tra rappresentazioni e irrappresentabilità degli eventi bellici mondiali, la rassicurante convinzione che uno sguardo consapevole sul “quotidiano” e sugli “ultimi” spetti soltanto a intellettuali registi e antropologi.

La Terramatta di Rabito e Quatriglio: cortocircuiti verbali e iconici per attraversare la storia del Novecento

Fabio Rossi
2017-01-01

Abstract

Il ruolo dell’italiano popolare unitario nell’evoluzione del complesso diasistema linguistico nostrano è stato molto studiato, a partire da Spitzer (1921/2016), almeno da De Mauro (1970), Cortelazzo (1972) e altri. Quasi inesistenti, invece, gli studi sull’impiego artistico dell’italiano popolare, ovvero la lingua dei semicolti, «il tipo di italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto» (Cortelazzo 1972). Il presente contributo analizza uno dei casi estremi, l’autobiografia Terramatta, scritta tra il 1968 e il 1970 dal semianalfabeta siciliano Vincenzo Rabito (1899-1981: cfr. Rabito 2007), e ne sonda le caratteristiche linguistiche. Oltre al romanzo di Rabito (vero e proprio casus letterario, tanto da aggiudicarsi nel 2000, postumo e prima della pubblicazione Einaudi, il «Premio Pieve - Banca Toscana» della Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano), se ne analizza anche la trasposizione filmica di Costanza Quatriglio (Quatriglio 2012, Ottaviano 2013). La forza della parola mal dominata e recalcitrante all’apparato ortografico e grammaticale esprime, in Rabito, l’insopprimibile volontà, e capacità, di trovare un senso all’essere nel mondo e agli eventi storici salienti, che l’autore scolpisce con inaudita profondità dai primi del Novecento alla fine del boom economico. Ne scaturisce uno sguardo disincantato su Grande guerra, migrazione, fascismo, qualunquismo, corruzione e altri “italianismi” socioculturali, che induce a rileggere, ben più di molti libri di storia, con lenti inedite il mito sfuggente delle identità italiane. E soprattutto, i paradossi della scrittura rabitiana, enfatizzati dal montaggio, dalle sovrimpressioni e dalle altre tecniche multimodali della regista Quatriglio, contribuiscono alla riconsiderazione, se non all’abbattimento, di consolidate paratie epistemologiche, quali l’opposizione tra scritture dall’alto e dal basso, lo iato tra coscienza critica degli intellettuali e inconsapevolezza popolare, l’inconciliabilità tra rappresentazioni e irrappresentabilità degli eventi bellici mondiali, la rassicurante convinzione che uno sguardo consapevole sul “quotidiano” e sugli “ultimi” spetti soltanto a intellettuali registi e antropologi.
2017
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