Nell’arco di un anno la Corte costituzionale ha scritto un frasario dell’autodeterminazione responsabile che diventa legge in assenza di legge. In prima battuta, con l’ordinanza 207/2018 , «che vale sentenza» , la Consulta ha adottato un paradigma pseudodecisorio che alcuni penalisti e non pochi costituzionalisti si augurano non replicabile in altre occasioni: parte dell’art. 580 c.p. è stata sostanzialmente abolita pur restando formalmente vigente, secondo un modello di incostituzionalità “differita” inedito nella nostra giurisprudenza costituzionale. La successiva sentenza 242/2019, preso atto della perdurante inerzia legislativa, ha poi fornito all’interprete uno strumento – necessariamente destinato a una futura e più puntuale normazione – in grado di escludere l’illiceità penale di condotte di aiuto al suicidio prestate in presenza di presupposti rigorosamente tipizzati . Con la 207/2018 la Corte ha riscritto integralmente l’ordinanza di rimessione, modificando in modo radicale la richiesta del giudice a quo e la sua valutazione dei principi costituzionali coinvolti . La ratio della risalente incriminazione di cui all’art. 580 c.p. è ancora, per molti aspetti, valida, essendo indispensabile tutelare soggetti assai vulnerabili da maliziose iniziative di terzi. Tuttavia, dal caso sottoposto all’attenzione dal giudice a quo emerge un’esigenza di tutela ben diversa da quelle immaginabili nel milieu storico-politico del 1930: quella di chi, lucidamente affetto da gravi patologie che lo privino di prospettive di remissione o di semplice miglioramento, non abbia di fronte a sé che la compromissione irrimediabile della qualità della sua vita, della sua dignità di malato. In evenienze del genere, il perimetro dell’aiuto al suicidio deve essere messo in radicale discussione. Il riferimento, com’è ormai noto, è alle ipotesi in cui il soggetto agevolato sia: a) affetto da patologia irreversibile; b) afflitto da sofferenze fisiche o psicologiche da lui ritenute intollerabili; c) tenuto in vita da strumenti di sostegno vitale e d) tuttavia pienamente capace di autodeterminarsi. Se l’incostituzionalità “differita” dell’ordinanza 207/2018 è stata giustificata in base alla necessità di non sovrapporsi a necessarie scelte (solo) legislative, l’incostituzionalità conclamata della successiva sentenza 242/2019 implica giocoforza un’interferenza “da assenza” tra scelte legislative e sindacato del giudice costituzionale: la Consulta, preso atto dell’inerzia del Parlamento, ha agito a tutela dei diritti fondamentali dettando le basi di una disciplina vincolante per il legislatore prossimo venturo. La legalità costituzionale deve per la Corte prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore per la compiuta regolazione della materia: questo argomento legittima il ruolo “vicario”, quasi anomalo, della Corte costituzionale nel momento presente. L’attuale periodo storico pare quindi caratterizzato da una duplice mutazione genetica: da un lato quella di un Parlamento condizionato – anche nel silenzio - dalle maggioranze parlamentari, assai lontano dalle istanze sollecitate a gran voce dalla Corte e dalla Carta costituzionale; dall’altro quella di un organo di garanzia che finisce, suo malgrado, con l’assumere un ruolo “politico” per affermare il primato del diritto sulla politica. La “manipolazione” dell’art. 580 c.p. s’inserisce, del resto, nel solco della mancata riforma del codice Rocco: un codice penale anacronistico nelle parti non novellate e talora distonico nelle parti novellate, fondato su valori spesso opposti a quelli della nostra Costituzione e tuttavia dotato di sorprendente vitalità. Ciò costringe la Corte costituzionale ad interventi manipolativi “mirati” e privi di organicità, nell’inerzia di un legislatore non disponibile – o paradossalmente non ancora pronto – a una riforma strutturale ed omogenea dell’ordinamento penale. Nel nostro caso la Corte ha interpellato esplicitamente il legislatore, che non ha nemmeno tentato medio tempore di predisporre una nuova disciplina dell’aiuto a morire. Il silenzio del legislatore ha spinto la Corte a tornare sui suoi passi, con tutti i limiti “tecnici” e “politici” di decisioni siffatte (si pensi ai riflessi di diritto intertemporale abbozzati dalla sentenza 242/2019 e alla difficile tenuta del principio di legalità). La “supplenza” della Corte costituzionale, sempre ponderata sebbene forzosa, pare al momento del tutto necessaria. Resta da chiedersi se l’anomalia sia provvisoria o destinata a diventare carsica: un interrogativo inquietante almeno quanto quello cui la Consulta ha tentato di dare risposta con le due pronunce sull’aiuto al suicidio.

La Consulta e il suicidio assistito: l'autodeterminazione "timida" fuga il sospetto delle chine scivolose.

LUCIA RISICATO
2020-01-01

Abstract

Nell’arco di un anno la Corte costituzionale ha scritto un frasario dell’autodeterminazione responsabile che diventa legge in assenza di legge. In prima battuta, con l’ordinanza 207/2018 , «che vale sentenza» , la Consulta ha adottato un paradigma pseudodecisorio che alcuni penalisti e non pochi costituzionalisti si augurano non replicabile in altre occasioni: parte dell’art. 580 c.p. è stata sostanzialmente abolita pur restando formalmente vigente, secondo un modello di incostituzionalità “differita” inedito nella nostra giurisprudenza costituzionale. La successiva sentenza 242/2019, preso atto della perdurante inerzia legislativa, ha poi fornito all’interprete uno strumento – necessariamente destinato a una futura e più puntuale normazione – in grado di escludere l’illiceità penale di condotte di aiuto al suicidio prestate in presenza di presupposti rigorosamente tipizzati . Con la 207/2018 la Corte ha riscritto integralmente l’ordinanza di rimessione, modificando in modo radicale la richiesta del giudice a quo e la sua valutazione dei principi costituzionali coinvolti . La ratio della risalente incriminazione di cui all’art. 580 c.p. è ancora, per molti aspetti, valida, essendo indispensabile tutelare soggetti assai vulnerabili da maliziose iniziative di terzi. Tuttavia, dal caso sottoposto all’attenzione dal giudice a quo emerge un’esigenza di tutela ben diversa da quelle immaginabili nel milieu storico-politico del 1930: quella di chi, lucidamente affetto da gravi patologie che lo privino di prospettive di remissione o di semplice miglioramento, non abbia di fronte a sé che la compromissione irrimediabile della qualità della sua vita, della sua dignità di malato. In evenienze del genere, il perimetro dell’aiuto al suicidio deve essere messo in radicale discussione. Il riferimento, com’è ormai noto, è alle ipotesi in cui il soggetto agevolato sia: a) affetto da patologia irreversibile; b) afflitto da sofferenze fisiche o psicologiche da lui ritenute intollerabili; c) tenuto in vita da strumenti di sostegno vitale e d) tuttavia pienamente capace di autodeterminarsi. Se l’incostituzionalità “differita” dell’ordinanza 207/2018 è stata giustificata in base alla necessità di non sovrapporsi a necessarie scelte (solo) legislative, l’incostituzionalità conclamata della successiva sentenza 242/2019 implica giocoforza un’interferenza “da assenza” tra scelte legislative e sindacato del giudice costituzionale: la Consulta, preso atto dell’inerzia del Parlamento, ha agito a tutela dei diritti fondamentali dettando le basi di una disciplina vincolante per il legislatore prossimo venturo. La legalità costituzionale deve per la Corte prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore per la compiuta regolazione della materia: questo argomento legittima il ruolo “vicario”, quasi anomalo, della Corte costituzionale nel momento presente. L’attuale periodo storico pare quindi caratterizzato da una duplice mutazione genetica: da un lato quella di un Parlamento condizionato – anche nel silenzio - dalle maggioranze parlamentari, assai lontano dalle istanze sollecitate a gran voce dalla Corte e dalla Carta costituzionale; dall’altro quella di un organo di garanzia che finisce, suo malgrado, con l’assumere un ruolo “politico” per affermare il primato del diritto sulla politica. La “manipolazione” dell’art. 580 c.p. s’inserisce, del resto, nel solco della mancata riforma del codice Rocco: un codice penale anacronistico nelle parti non novellate e talora distonico nelle parti novellate, fondato su valori spesso opposti a quelli della nostra Costituzione e tuttavia dotato di sorprendente vitalità. Ciò costringe la Corte costituzionale ad interventi manipolativi “mirati” e privi di organicità, nell’inerzia di un legislatore non disponibile – o paradossalmente non ancora pronto – a una riforma strutturale ed omogenea dell’ordinamento penale. Nel nostro caso la Corte ha interpellato esplicitamente il legislatore, che non ha nemmeno tentato medio tempore di predisporre una nuova disciplina dell’aiuto a morire. Il silenzio del legislatore ha spinto la Corte a tornare sui suoi passi, con tutti i limiti “tecnici” e “politici” di decisioni siffatte (si pensi ai riflessi di diritto intertemporale abbozzati dalla sentenza 242/2019 e alla difficile tenuta del principio di legalità). La “supplenza” della Corte costituzionale, sempre ponderata sebbene forzosa, pare al momento del tutto necessaria. Resta da chiedersi se l’anomalia sia provvisoria o destinata a diventare carsica: un interrogativo inquietante almeno quanto quello cui la Consulta ha tentato di dare risposta con le due pronunce sull’aiuto al suicidio.
2020
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