Vivono fisicamente ai margini, nella cintura esterna delle grandi città, in quartieri dormitorio delle periferie, neanche troppo lontani dal centro, nei paesoni abbastanza popolosi da garantire lo sviluppo di una subeconomia nella quale possano inserirsi. Sono organizzati in società pregiuridiche, nelle quali vigono regole e dinamiche derivate dalla consanguineità e dalla vicinanza, che è comunanza di destini. Il cittadino non si identifica con questi personaggi, perché non ne può accogliere le spinte di sopravvivenza, il sistema di valori alternativo, incomprensibile, e persino mostruoso, fuori dal contesto che lo ha prodotto. Il cittadino, se resiste alla tentazione di condannarle, guarda queste persone con la compassione di chi sa di essere superiore ma graziosamente concede la libertà di esistere a chi è meno fortunato. Oppure con il timore di poterle incontrare nella vita reale, e la consolazione di saperle separate, aliene, abitanti di un mondo parallelo, forse fantastico. I marginali moderni, i nipoti dei Totò di Miracolo a Milano, dei Vittorio Cataldi di Accattone, dei Giacinto Mazzatella di Brutti, sporchi e cattivi, non sono più isolati come i loro progenitori. Il dialetto è sempre meno il codice che rappresenta efficacemente questa componente sociale, perché le periferie sono comunità immigrate, che di locale hanno solamente il luogo fisico nel quale si svolgono le vicende umane, ma anche perché il dialetto delle nuove generazioni è ormai irrimediabilmente filtrato attraverso l’italiano, per via della comunicazione di massa, della scuola, delle istituzioni, di Internet e della globalizzazione. Sopraffatto dalla concorrenza delle lingue della modernità, l’italiano regionale, l’italiano tendenziale degli stranieri, altri dialetti, a loro volta italianizzati, i gerghi, il giovanilese, il dialetto ha perso terreno e si è arroccato nella conservazione della tradizione. Summa di questo incontro-scontro di lingue è la Chioggia di Io sono Li (Andrea Segre, 2011), e ancora di più il bar cuore della storia, nel quale la cinese Li, improvvisata gestrice del bar, dialoga con i locali con le poche parole di italiano che conosce, gli avventori parlano tra loro in dialetto stretto e con Li in un foreign talk ridicolizzante, il pescatore Bepi, detto il poeta, a sua volta immigrato dalla Jugoslavia da molti anni e perfettamente integrato, parla un dialetto venato di un’inflessione slava e con Li un italiano semplificato ma rispettoso. Il dialetto è usato dagli avventori, in subordine, come codice segreto per escludere del tutto Li, quando vogliono deriderla o prendersi gioco di lei. I marginali del cinema degli ultimi anni, divenuti padroni nella lingua nazionale grazie all’estensione dell’obbligo scolastico e ai mass media, sono comunque imbevuti di cultura popolare, che della modernità ha accolto i prodotti residuali, la tecnologia di consumo, i programmi televisivi commerciali del pomeriggio, lo star system provinciale promosso dalla macchina dello spettacolo regionale o sovraregionale. Accanto a questi marginali “tradizionali”, un nuovo gruppo sociale sfortunato ha trovato un piccolo spazio sullo schermo: i marginali istruiti, persino colti, capaci di parlare un italiano senza inflessione, ma incastrati in un Paese gerontocratico nel quale la loro istruzione non è un ascensore sociale e li condanna alla stessa vita misera riservata storicamente agli incolti.

Le lingue della marginalità nel cinema italiano degli ultimi anni

Fabio Ruggiano
2020-01-01

Abstract

Vivono fisicamente ai margini, nella cintura esterna delle grandi città, in quartieri dormitorio delle periferie, neanche troppo lontani dal centro, nei paesoni abbastanza popolosi da garantire lo sviluppo di una subeconomia nella quale possano inserirsi. Sono organizzati in società pregiuridiche, nelle quali vigono regole e dinamiche derivate dalla consanguineità e dalla vicinanza, che è comunanza di destini. Il cittadino non si identifica con questi personaggi, perché non ne può accogliere le spinte di sopravvivenza, il sistema di valori alternativo, incomprensibile, e persino mostruoso, fuori dal contesto che lo ha prodotto. Il cittadino, se resiste alla tentazione di condannarle, guarda queste persone con la compassione di chi sa di essere superiore ma graziosamente concede la libertà di esistere a chi è meno fortunato. Oppure con il timore di poterle incontrare nella vita reale, e la consolazione di saperle separate, aliene, abitanti di un mondo parallelo, forse fantastico. I marginali moderni, i nipoti dei Totò di Miracolo a Milano, dei Vittorio Cataldi di Accattone, dei Giacinto Mazzatella di Brutti, sporchi e cattivi, non sono più isolati come i loro progenitori. Il dialetto è sempre meno il codice che rappresenta efficacemente questa componente sociale, perché le periferie sono comunità immigrate, che di locale hanno solamente il luogo fisico nel quale si svolgono le vicende umane, ma anche perché il dialetto delle nuove generazioni è ormai irrimediabilmente filtrato attraverso l’italiano, per via della comunicazione di massa, della scuola, delle istituzioni, di Internet e della globalizzazione. Sopraffatto dalla concorrenza delle lingue della modernità, l’italiano regionale, l’italiano tendenziale degli stranieri, altri dialetti, a loro volta italianizzati, i gerghi, il giovanilese, il dialetto ha perso terreno e si è arroccato nella conservazione della tradizione. Summa di questo incontro-scontro di lingue è la Chioggia di Io sono Li (Andrea Segre, 2011), e ancora di più il bar cuore della storia, nel quale la cinese Li, improvvisata gestrice del bar, dialoga con i locali con le poche parole di italiano che conosce, gli avventori parlano tra loro in dialetto stretto e con Li in un foreign talk ridicolizzante, il pescatore Bepi, detto il poeta, a sua volta immigrato dalla Jugoslavia da molti anni e perfettamente integrato, parla un dialetto venato di un’inflessione slava e con Li un italiano semplificato ma rispettoso. Il dialetto è usato dagli avventori, in subordine, come codice segreto per escludere del tutto Li, quando vogliono deriderla o prendersi gioco di lei. I marginali del cinema degli ultimi anni, divenuti padroni nella lingua nazionale grazie all’estensione dell’obbligo scolastico e ai mass media, sono comunque imbevuti di cultura popolare, che della modernità ha accolto i prodotti residuali, la tecnologia di consumo, i programmi televisivi commerciali del pomeriggio, lo star system provinciale promosso dalla macchina dello spettacolo regionale o sovraregionale. Accanto a questi marginali “tradizionali”, un nuovo gruppo sociale sfortunato ha trovato un piccolo spazio sullo schermo: i marginali istruiti, persino colti, capaci di parlare un italiano senza inflessione, ma incastrati in un Paese gerontocratico nel quale la loro istruzione non è un ascensore sociale e li condanna alla stessa vita misera riservata storicamente agli incolti.
2020
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