Sebbene non sia confermata la tesi secondo la quale le origini dell’insediamento urba-no di Patti coinciderebbero con il sacco saraceno di Tyndaris dell’827 e con il successivo accordo tra coloni e invasori (da cui il toponimo Pactas), esse andrebbero comunque individuate nella composizione ad opera dei fuorusciti tindaresi di una nuova comunità, la terra Pactarum. Questa esisteva prima del 16 luglio 1027, data in cui gli Annales Si-culi pongono l’inizio della devastante incursione messa in atto dal saraceno spagnolo Gaìto Maimone nell’agro siracusano ed attorno al centro pattese, che all’epoca era molto verosimilmente un casale aperto. Un vero e proprio nucleo urbano organizzato attorno ad una roccaforte si andò costi-tuendo senz’altro dopo la costruzione di un castello, avviata probabilmente intorno al 1115, che seguì la fondazione, voluta dal Granconte Ruggero d’Altavilla nel 1088 e rea-lizzata nel 1094, del monastero benedettino di San Salvatore e del tempio di San Barto-lomeo. Ruggero I, edificato questo nucleo monastico, vi mise a capo l’abate Ambrogio, già rettore di San Bartolomeo di Lipari, al quale assegnò una serie di diritti e un cospicuo patrimonio terriero, compreso entro un vasto territorio intorno a Patti, che fu definito in una pergamena del marzo (?) 1094, di cui esistono alcune copie del XIII secolo nell’Arca Magna dell’Archivio capitolare . Le carte presenti nell’Archivio , generose di notizie per la definizione del patrimonio terriero e delle prerogative fiscali e commerciali esercitate dalla Chiesa sui beni e sugli uomini del vasto territorio diocesano ed oltre, non offrono purtroppo descrizioni altret-tanto particolareggiate del centro urbano, se non nei casi in cui il vescovato fu diretta-mente coinvolto in transazioni di immobili entro le mura. A parte i pochi documenti che espressamente indicano tipologie abitative, particolari del tessuto viario e criteri insedia-tivi nel centro di Patti, possiamo tuttavia evocare un’immagine dello sviluppo urbano anche in modo indiretto, valutando la presenza nelle carte vescovili di numerosi testi-moni, ambasciatori delegati dalla universitas e boni homines, che vengono consultati in occasione di controversie patrimoniali e definizioni di confini. Questi probi viri costitui-rono, insieme agli ufficiali locali, una compagine di uomini liberi che intra moenia civi-tatis dava vita a quartieri residenziali e li ampliava, realizzando così, oltre all’affermazione di una identità civica, isole di aggregazione sociale (piazze, rugae, por-tici) e manufatti legati alla crescita delle attività artigianali e commerciali (botteghe, magazzini, mercati). Un’attenta indagine topografica consente di identificare sul territo-rio l’impianto viario medievale, che in parte coincide con quello che ancora si snoda at-torno al palazzo vescovile, e di rilevare tracce eloquenti dell’antica dislocazione di abitati e infrastrutture, ad esempio i resti delle porte cittadine o quelli della vecchia cinta muraria che affiorano in certi tratti dell’attuale centro urbano. La cattedrale e l’area cir-costante hanno subito negli anni un radicale rimaneggiamento attraverso interventi con-servativi e di ampliamento, eseguiti soprattutto a partire dal XVII secolo , ma la facciata con il portale originario normanno e la cripta sottostante, accessibile da una porta poli-croma a sesto acuto quasi certamente risalente alla metà del XIV secolo, sono stati op-portunamente riportati alla luce e recuperati negli anni Ottanta del secolo scorso . Essi si aggiungono ai pochi resti che sopravvivono del nucleo normanno, costituendo tuttavia, assieme alla torre detta “di Adelasia” ed alla struttura dell’ex monastero dei Benedettini attigue alla facciata occidentale del tempio di San Bartolomeo, una significativa testi-monianza indiretta del ruolo politico e dello sviluppo economico del centro ecclesiale nel corso dei primi anni della sua fondazione. A proposito della facciata e del portale, siamo di fronte ad elementi riferibili al gotico cistercense, la cui più antica fondazione in Sicilia fu quella dell’abbazia di Santa Maria di Novara, retta dall’abate Ugone discepolo di San Bernardo . Il portale, in particolare, mostra elementi simili a quello messinese di Santa Maria della Valle (Badiazza) e, soprattutto, a quello dell’abbazia benedettina di Maniace presso Maletto , fatta edificare dalla regina Margherita nel 1173, in cui insieme con la pietra arenaria fu usato il marmo ed il granito . E’ quindi probabile l’assegnazione della facciata e del portale agli ultimissimi anni del XII secolo o meglio ai primi del XIII, alla luce dei serrati “rapporti che intercorsero tra Federico ed i Cistercensi, sin dai primi anni del Dugento e nel seno stesso dell’Italia meridionale” . D’altra parte, l’immigrazione di gentes linguae latinae dal settentrione d’Italia sotto gli Altavilla, documentata in molti centri siciliani (Aidone, Butera, Capizzi, Maniace, Nicosia, Novara, Piazza, Randazzo, San Fratello, Santa Lucia, Sperlinga, Vicari) , aveva sicuramente portato nell’isola una schiera di maestri comacini che avranno impresso suggestioni “lombarde” nella realizzazione di molti edifici religiosi, promossa soprattutto nel periodo fridericiano. Il borgo, che in età normanna e sveva si estendeva al di sotto della cattedrale e dell’originario nucleo abitato fortificato, prima del Trecento avrebbe dato corpo a nuovi quartieri, estesi poi in età aragonese a partire da quello dell’ormai distrutto Palazzo della Capitania e inglobati all’interno di un’ulteriore fortificazione muraria, di cui oggi è possibile scorgere suggestivi scorci sotto il versante occidentale della chiesa di San Bar-tolomeo. Negli anni della dominazione normanna, pertanto, si costituirono i quartieri di Pòllini, di Sant’Ippolito (o della Piazza pubblica), nel cui porticato sarebbe stata consue-tudine dare lettura dei bandi pubblici, e del Castello (documentato a partire dal febbraio 1234) , cui si sarebbe aggiunto nei decenni successivi quello di San Michele , più a ponente e attorno all’omonima chiesa eretta nel XIII secolo. Intanto, l’incipiente rigoglio della vita sociale trovava sfogo nella “valli di li cosentini sobra Polla”, che nei primi anni del Trecento pare fosse un qualificato borgo residenziale , e nella piazza antistante la chiesa duecentesca a tre navate di Sant’Ippolito , sotto il versante nord-orientale del complesso fortificato e a ridosso dell’altura dominata dalla chiesa e dal convento di San Francesco d’Assisi -danneggiata dai bombardamenti del 1943 e all’interno della quale è appena visibile ciò che rimane di qualche antico affresco-, che pare accogliesse a Patti il primo stanziamento francescano dei Minori Conventuali . Un quartiere abitato si sviluppò proprio nell’area dove aveva trovato posto l’edificio monastico, la cui fondazione a opera di Sant’Antonio di Padova, in base ad una lapide inserita nel portale, risalirebbe al periodo compreso tra il 1222 e il 1225 per intervento diretto del Santo d’Assisi e presso il quale “Antonius Paduensis operatus est miracula” . La struttura superstite del convento, ormai completamente in rovina, risale tuttavia agli inizi del secolo XVII, quando venne profondamente rimaneggiata per intervento del vescovo Vincenzo Napoli (1609-1648) . Dopo la costituzione dei primi quartieri, fu avviata la realizzazione di una prima cinta muraria che li racchiuse, oltre a comprendere il nucleo monastero-cattedrale, al cui in-terno nel 1115 aveva trovato posto il castello (a quanto pare voluto dalla regina Adelasia e di cui oggi sopravvive soltanto una torre) che, in età aragonese, sarebbe stato oggetto di forti opposizioni da parte del clero, coinvolgendo il vescovato e la corona in contese giurisdizionali particolarmente aspre con castellani, capitani a guerra e baroni . Indica-tiva, al riguardo, la reazione del presule Matteo di Catania, che nel 1415, manifestando concreti disagi per l’insediamento nell’episcopio di un castellano regio, si sarebbe la-mentato con una certa enfasi dinnanzi all’infante Giovanni di Peñafiel, scrivendogli: “quibus Castellanis stantibus, et morantibus in eadem ecclesia una cum episcopis [...], dissentiones plurime nascebantur, et scandale quoniam repugnare videtur eumdemque locum ab episcopo eiusque ministris divinis obsequiis celebrare preter ordinationem ipsius episcopi custodiri eo maxime quod ecclesia predicta cathedralis, et maior est, et non potest sic ipsa stante convenientibus temporibus animabus, de quibus curam habet debita sacramenta prestare si arbitrio Castellani oportet episcopus et ministros ad eum intrare simul et exire. Eo quod ecclesie et prelato supradictis gravius est solvere stipendia Castellano, et Custodibus vacantibus circa custodiam ipsius ecclesie sive fortelicii de redditibus et proventibus episcopatus eiusdem sic et taliter quod vix superet pro vita, et sustentatione prelati” . Il borgo, ad ogni modo, era sicuramente cinto di mura prima dell’età sveva, quando la contrada del Castello, come si evince da due documenti del 1234 e del 1242, si esten-deva “infra et extra moenia civitatis” . Tuttavia, la crescita urbana del territorio adia-cente al complesso monastico si sarebbe realizzata verosimilmente nei decenni successivi, poiché la carta di censuazione del 1234, con cui il vescovo Pandolfo concedeva in perpetuo ad un certo Madio (devotus?) un terreno situato sotto il Castello, definisce un esteso spazio coltivato a vigneto e destinato ad ampliarsi, in tal senso, nel confinante terreno “che scende dal vallone lungo l’orto di Teodoro di Lucardo sino alla vigna di Capuano di Tacca e va sino all’altro vallone, che divide lo stesso terreno da quello di Guidone di Catania e di Bartolo, figlio di Rinaldo Ferrara” . Pertanto, la fondazione monastica aveva sicuramente consolidato la struttura ecclesiale già nel corso dei primi decenni, sotto il controllo degli Altavilla e l’egida della Chiesa romana, e poi progressivamente nel XII e XIII secolo, soprattutto a partire dall’età sveva (1194-1266), quando sarebbe diventata al contempo ambita struttura difensiva sotto il controllo della monarchia . Non a caso, nei primi anni della guerra del Vespro, la rocca di Patti aveva rappresentato un punto di forza strategico, tanto che, in mano agli Angioini ed assediata dalle truppe fedeli a Federico III, nel 1295 venne soccorsa dal Grande Ammiraglio Ruggero di Lauria, “che non intendeva perderla” . La funzione di-fensiva, che la roccaforte aveva rivestito pienamente sino all’avvento aragonese, pare si andasse gradualmente riducendo nel corso del XIV secolo, quando il suo possesso avrebbe piuttosto costituito un significato di mero prestigio e, nella seconda metà del Quattrocento, la struttura si sarebbe mostrata irrimediabilmente compromessa, tanto da richiedere nel 1472 interventi urgenti di manutenzione . I quali, tuttavia, non avrebbero impedito al vescovo Pietro Galletti (1723-1729) di descrivere il castello, nella sua relatio ad limina del luglio 1724, “quasi distrutto e tuttora inabitabile” . Nel corso del Trecento, quindi, l’abitato di Patti si estendeva ai piedi della cattedrale-fortezza verso oriente e dell’attigua altura sulla quale sorgeva il convento di San Francesco ed era protetto da una seconda cinta muraria (di cui oggi sopravvivono due soli tratti di pochi metri), concentrica alla prima, che comprendeva i nuovi spazi urbanizzati ed era interrotta da cinque porte, tra cui quella di San Michele, la Porta Reale o Maggiore e quella delle Buccerie o di Jusu, delle quali rimane ancora testimonianza tangibile. Della Porta Nuova e della Porta di Sant’Antonio, detta anche della Morte , non rimane invece che l’ubicazione virtuale, nei pressi della trecentesca fondazione di Sant’Antonio abate . I numerosi e talvolta radicali rimaneggiamenti di molti edifici e strutture urbane patte-si, attuati a partire dal Cinque e Seicento ed intensificati in seguito alle devastanti azioni dei terremoti del 1693, del 1908 e del 1978, oltre che dei bombardamenti dell’ultimo evento bellico, hanno eroso profondamente l’impianto della città risalente alla prima età medievale ed hanno restituito dell’antico impianto urbano un’immagine profondamente trasfigurata . Così è stato anche per la chiesa di San Bartolomeo, ricostruita a più riprese tra XVI e XVIII secolo, i cui elementi architettonici caratterizzanti -ad esclusione della facciata e del portale originale del tempio fondato dal primo Ruggero, recentemente riportati alla luce- apparterrebbero esclusivamente all’età moderna, come il coro ligneo settecentesco, il campanile del 1588, il portale laterale, l’altare di Santa Febronia), il sarcofago del vescovo Vincenzo Napoli e quello della contessa Adelasia, che nel 1557 il vescovo Bartolomeo II Sebastiani (1549-1567) fece costruire «forse con qualche piccola parte di quello originale» e che, peraltro, “sembra non custodire resti mortali della regina” . Un triste destino, come prima accennato, è stato riservato al monastero ed alla chiesa di San Francesco, che l’incuria umana e gli insulti del tempo hanno ridotto in macerie. Ma se spostiamo la prospettiva dalla relativa staticità della urbs, verso il dinamismo polimorfo e spesso prorompente della civitas, l’analisi diventa più stimolante, perché si entra, anzitutto, nel merito delle attività di uomini, variamente collocati all’intero del quadro sociale, e l’indagine tende ad arricchirsi quando protagonisti di alta caratura politica si confrontano a livello politico e deliberano -a volte in modo arbitrario- in materia giurisdizionale. Una tesi consolidata sostiene che la presunta usurpazione di prerogative sovrane e di privilegi municipali, messa in atto dai presuli di Patti sin dagli anni della contea e pro-seguita in modo discontinuo sin oltre l’età aragonese, avrebbe fortemente contrastato la conquista di libertà e spazi autonomi di governo da parte della comunità urbana, pena-lizzandone lo sviluppo e limitando il ruolo attivo degli organismi locali nello svolgimento della vita sociale . E’ possibile, in effetti, individuare le basi di tale interpretazione nel contenuto di una serie di documenti conservati nell’Archivio Capitolare e nel Liber Rubeus , ai quali tuttavia non può essere attribuito un valore assoluto. Innanzi tutto, la mancata menzione della città di Patti nel diploma di fondazione, con cui il Granconte donava all’abate Ambrogio beni terrieri compresi tra il fiume Timeto e la torre di Brolo, potrebbe indurre a escludere l’esercizio di una giurisdizione del presule sulla città , sebbene non si sia certi della stessa esistenza a quel tempo di un agglomerato propriamente urbano. L’indipendenza dei pattesi dalla Chiesa si evincerebbe, inoltre, da un diploma di Ruggero II del 1133, il cui tenore riprende i primi statuti di Ambrogio e mostra come il rapporto di dipendenza villanale dall’abate fosse determinato dalla resi-denza nel castello e dal godimento di terre appartenenti al monastero, dalle quali risulta escluso il territorio su cui sorge Patti. Questo il tenore del Constitutum emanato da Am-brogio tra il 1094 ed il 1101 e che l’Altavilla, “audita tandem memoratorii continentia et vulgariter exposita”, così condensò nel suo diploma: “Ambrosius Liparitane insule primus abbas, sub ipso Rogerio consule, terre adquisitore, in castro Pactes ordinavit homines, quicumque sint Latine lingue, sub tali conventione, ut omnes, qui acceperint de rebus monasterii, quantum voluerint manere in eodem castro, sint eorum heredumque ipsorum. Si vero quis quandoque recedere voluerit, res reddat monasterii, quas reddendas acceperit, hoc tamen sibi, quod inde lucratus fuerit, retineat; suam nempe hereditatem post tres annos, si vendere voluerit, vendat libere et absolute cuilibet homini voluerit, in eodem loco manenti. Venditor tamen rem primitus offerat abbati, qui, si convenienter ut alter homo emere voluerit, emat; si autem emere noluerit, rem suam homo absolute vendat. Pascua vero glandis, si in terra fuerint, abbas accipiet partem ubicumque voluerit, reliqua erunt communia, excepto nostro defensu. Deinde, si hostium timor adfuerit, ipsi ibunt pro terra defendenda Sancti Bartholomei in Lipparim, abbate absque precio eos ducente et reducente, ibidemque eos procurante, alias vero se ipsos ipsi procurabunt” . Nella disposizione diretta all’abate Giovanni da Ruggero II vennero stabilite norme per i coloni e furono affermati i diritti degli abitanti di Patti al godimento di jura com-munia. Si raggiunse quindi un accordo tra Giovanni e i pattesi, che ottennero a certe condizioni l’uso dei pascoli, il diritto di raccogliere “ligna mortua et infructifera etiam in defensu” e quello di raccogliere le ghiande “extra defensum”. La sentenza regia inserita in questo stesso atto, con cui venivano ampliati in veri e propri usi civici diritti quali il pascolo “exceptis pratis” e lo sfruttamento delle foreste, indica peraltro il servitium come unico obbligo dei vassalli nei confronti dell’abate e precisa la loro discrezionalità nel sottoporsi alla giurisdizione ecclesiastica, dalla quale erano liberi di “recedere”. D’altra parte, non pare esistano in quest’epoca giudizi regi su controversie tra vassalli e signore, i cui rapporti sarebbero stati più tardi regolati da una serie di costituzioni di Federico II , e all’abate Ambrogio, piuttosto che al sovrano, si rivolgevano nel 1117 gli abitanti di Librizzi per chiedere uno sgravio da alcuni pesanti servizi . Sebbene il tenore di questo diploma suggerisca un certo rapporto di dipendenza, da una parte occorre rilevare come i pattesi non definissero mai l’abate loro signore, ma semplicemente “tam Pactensis quam Liparensis episcopus”, dall’altra che il presule non poteva detenere il bancum justitiae, dal momento che i baiuli erano all’epoca di nomina regia. In una carta del gennaio 1134 troviamo addirittura opposizione d’interessi tra il vescovo e i cittadini in merito a certi diritti di estrazione di vettovaglie . Nella conferma delle concessioni siglata da Ruggero II nel maggio 1143, sebbene egli avesse prima concesso all’abbazia il diritto di estrarre da qualsiasi porto della sua diocesi barche cariche di vettovaglie, purché fosse merce della Chiesa pattese e a condizione che tale estrazione avvenisse alla volta di Lipari, pare che la restituzione del monte Melviso (Melvisum, Meliusum), poi Gioiosa Guardia), disposta dal Normanno “mosso dalle suppliche di Giovanni e dei suoi confratelli”, fosse determinata dalla sua precedente usurpazione ad opera di certi burgenses, dei quali è tra l’altro affermata l’indipendenza dall’autorità vescovile . Inoltre, è particolarmente significativo il contenuto di un accordo siglato nel 1191 tra il presule ed una commissione di cittadini “ab universitate hominum Pactarum ad curiam missi” in presenza e con la mediazione di re Tancredi. La rappresentanza della universitas, co-stituita da tredici ambasciatori, alla fine avrebbe accettato la chiusura della controversia sorta con il vescovo Stefano ed avrebbero rinunciato ai propri diritti su certe terre che erano per consuetudine coltivate dagli uomini di Librizzi, e questa circostanza attesta in modo implicito ma chiaro come, allo scorcio del XII secolo, la comunità cittadina fosse in condizione di nominare autonomamente tra i propri membri rappresentanti dotati di un largo potere contrattuale dinnanzi alla corte regia . E’ utile osservare l’evoluzione, nel lungo termine, dei rapporti di potere che si artico-larono, a partire dall’ultima età normanna, in un variegato complesso di norme e usi che riflette il confronto tra il preteso dominio temporale del vescovo e le spinte in senso au-tonomistico del ceto mediano, uno scontro condotto sullo sfondo dei fluidi rapporti tra autorità regia e forze feudali. Così, negli anni di Federico II non è attestata alcuna in-feudazione di Patti al vescovo né il suo esercizio di dominio temporale sui cittadini, neppure in un diploma di conferma di villas, casalias et possessiones che la Chiesa di Patti aveva ottenuto a partire dal tempo del Granconte e dell’abate Ambrogio, rilasciato dallo Svevo al vescovo Pagano nell’ottobre 1229, in cui emblematicamente non vi è cenno della città e dei diritti di giustizia sui pattesi . Ma appare significativo il fatto che, negli anni successivi alla morte dello Staufer, accanto ai magistrati cittadini, qualificati come “iudices et notarii civitatis Pactarum”, comincino a distinguersi con frequenza crescente i “baiuli, iudices, notarii, advocati et accettapani ecclesie” ed emerga la ferma volontà dei presuli di affermare che la “creatio et institutio dictorum officialium” spettava loro “spacio longi temporis” , cioè sin dagli anni del dominio normanno. Le pretese del vescovo, in effetti, vennero fortemente contrastate da Pietro Ruffo a partire dal 1256, ma la capacità di azione della Chiesa si sarebbe rafforzata negli anni di Carlo d’Angiò, quando il presule Bartolomeo Varelli fu in grado di richiamarsi autore-volmente ai privilegi ottenuti da parte degli Altavilla, opponendosi con successo alla nomina di giudici regi nella città, ed affermò in più occasioni che, oltre a “jura doane maris et terre, decime terrarum et vinearum et animalium [...], in Pactis dicta Ecclesia habet bancum justitie” . Pare opportuno offrire una visione più ampia di questa partico-lare circostanza, giacché essa chiarisce lo stato dei rapporti di forza nella diocesi messi-nese all’indomani della conquista angioina, cioè negli anni particolarmente convulsi che preludevano alla sommossa antiangioina del 1268-1270. Il 10 marzo 1267 il vice-giustiziere di Valdemone e Val di Milazzo, Manfredi di Napoli, avendo avuto ordine da parte del gran giustiziere Pierre de Lamanon di “creare judices pro parte curie in singulis terris et locis vallis Demine et Milacii” che ne fossero risultati privi, aveva nominato tali ufficiali a Patti, ignorando il diritto in tal senso rivendicato dalla Chiesa e suscitando pertanto le proteste del vescovo pattese e dell’arcivescovo di Messina i quali, minac-ciando la scomunica, sostenevano di aver diritto ad una sospensiva fin tanto che fosse stata in corso la causa . Il vicesecreto, quindi, ordinò a Matteo Sinapa di recarsi perso-nalmente a Patti e di ingiungere ai giudici appena nominati di lasciare l’incarico, “sub poena unciarum auri centum” . Di contro, il 5 marzo 1268 Aliernus, priore della chiesa di Patti, rendeva pubblica la lettera del cantore messinese Berardo in cui questi, su mandato del legato apostolico Rodolfo di Albano, vietava ai giudici nominati dalla curia regia per la città di svolgere il loro incarico . Il 10 marzo successivo il vice-giustiziere di Valdemone e Val di Milazzo incaricava il notaio messinese Matteo Sinapa di recarsi a Patti e revocare le nomine dei giudici eletti dalla curia regia in quanto era ormai appu-rato, dopo la controversia risolta davanti al legato Rodolfo, come la nomina di tali uffi-ciali spettasse al vescovo, che godeva della giurisdizione temporale sulla città . Il 12 marzo, infine, in presenza dei testimoni “ad hoc specialiter vocati et rogati […] in porticu Sancti Hippolyti de Pactis”, venne pubblicamente letta una missiva in cui il cantore messinese Berardo, informato dal vescovo che Simone Gaitano, il notaio Giovanni Bo-nello e maestro Rinaldo de Marca esercitavano l’ufficio, minacciava di scomunicarli e di dichiararli “ab omnibus legitimis actibus exclusi” se non si fossero dimessi entro dieci giorni. Berardo, addirittura, incaricava il priore Alierno e il presbitero Antonio di an-nunciare pubblicamente la scomunica dopo dieci giorni e, “pulsatis campanis et candelis accensis”, di fare evitare gli scomunicati da tutti . D’altra parte, la resistenza dei cit-tadini di Patti alla pretesa giurisdizione del vescovo è attestata in quegli anni da un altro documento, una sentenza emessa a Nicosia il 7 aprile 1267, con cui Rodolfo di Albano rinnovava la scomunica fulminata dal vescovo Bartolomeo contro i cittadini di Patti che avevano rifiutato di pagare le decime. Costoro erano stati in un primo momento assolti dal legato pontificio, in occasione di una sua visita a Patti, a condizione che si accettas-sero le richieste del vescovo, ma Pietro de Sancto Petro, “procurator illorum qui exco-municati fuerunt”, si era rifiutato di pagare le decime affermando che il vescovo “de componenda nullum habebat mandatum” . E a proposito della comunicazione ufficiale da parte del potere politico, attraverso lettura pubblica di bandi et comandamenti, nella piazza di Sant’Ippolito il 15 agosto 1267 la diffusione di un bando, cui si è fatto riferi-mento nelle pagine precedenti, offre spunto per una serie di riflessioni circa lo scenario politico che si presentava in certi contesti all’indomani della conquista angioina del re-gnum, ma anche utile ad individuare taluni -a volte influenti- attori e tracciare un profilo dell’amministrazione, della società e talvolta di realtà materiali coeve. Così, dalla sinte-tica comunicazione diffusa presso la cittadinanza pattese nel Ferragosto del 1267 , sia-mo in grado di allargare il campo d’indagine ed offrire una ricostruzione più articolata dei fatti: ai giurati di Patti era stato ordinato da parte del secreto e giustiziere del regno di eleggere alcuni homines litterati come giudici e di mandarli al suo cospetto per il giu-ramento di fedeltà, il vescovo tuttavia mal tollerò questa estensione delle loro libertates ed aveva indirizzato vibranti rimostranze al legato papale Rodolfo di Albano. Questi, a sua volta, inviò aspre lettere al cantore della cattedrale di Messina, magister Berardo, riferendogli come il vescovo si fosse lamentato del fatto che Pasquale di Caltagirone detto Scannuzio, un laico della diocesi siracusana, dietro ordine del giustiziere di Sicilia citra Salsum e “in ecclesie Pactensis preiudicium et gravamen”, aveva ingiunto alla Universitas di Patti di far prestare giuramento di fedeltà agli “homines litterati ex eadem universitate in iudices […] eligentes” presso il vicario regio, che avrebbe quindi concesso la carica. Il legato Rodolfo, pertanto, avvertì il vicario del fatto che ancora “inter dictum episcopum et Illustrem Regem Sicilie” verteva la causa “super iure creandi iudices et alios officiales in civitate praedicta” e gli ordinò di revocare il mandato a Pasquale di Caltagirone, minacciando di scomunicare il vicario ed annullare le sentenze pronunciate. Il legato ordinava inoltre al cantore Berardo di annullare le nomine e scomunicare chiunque avesse esercitato le funzioni di giudice a Patti “de mandato dicti Vicarii, vel alicuius officialis dicti Regis”, ingiungendogli di non innovare nulla, dal momento che era ancora pendente presso la curia regia e quella papale il ricorso del vescovo. Tornando all’indagine sugli ufficiali locali urbani e sulle libertates che furono alla base della loro designazione, è senz’altro opportuno verificare, nella lunga durata, la com-posizione del tessuto sociale e degli organi elettivi. Nella prima età normanna non vi è presenza di funzionari locali arabi, come l'hakim e il qadì o ά, che non avevano evidentemente trovato spazio tra latini e greci ed i nuovi venuti latini, da parte loro, non furono mai in condizione villanale, mentre coloro che si trasferivano in ambito ur-bano erano milites e, soprattutto, burgenses . Nel 1190 è attestata la presenza di uno stratigoto a Lipari, “Thomas lippariensis tunc stratigotus” , mentre a Patti il magistrato locale detto in greco ώòέ cedette il passo al baiulo, ampiamente documentato tra il 1123 e il 1173 . I ò (i vicecomites latini), tra il 1095 ed il 1223 furono ancora attivi in molti centri del Valdemone, tra cui Patti, dove in un docu-mento del 4 marzo 1133 è attestata la presenza di “Iohannes vicecomes”. Si tratta di una conferma dell’abate Giovanni agli abitanti delle isole Eolie relativa al possesso delle terre ottenute con il Constitutum di Ambrogio, dove peraltro si stabiliva che da quel momento nelle isole nessuno potesse più possedere -e quindi alienare- terre, neppure per testamento, e che queste dovessero tornare alla Chiesa in caso di ribellione o infedeltà . Nella urbs pattese del 1115 troviamo un “Wilhelmus stratigotus”, che era anche “baiulus totius terre” del conte Enrico di Paternò , e da questi anni si cominciò ad in-crementare la presenza dei baiuli come funzionari giudiziari, nominati forse per sostituire i vicecomites, che a partire dalle costituzioni di Melfi non sarebbero stati più menzionati, ed affiancare in certi casi lo stratigoto . Tra il 1130 ed il 1133 troviamo insediati quasi sincronicamente uno stratigoto ed un vicecomes e, nel 1188, i due funzionari insieme: “Ansaldus stratigotus Pactensis” e “W[illelmus] vicecomes Pactensis” . E’ probabile che lo stratigoto fosse il magistrato della popolazione greca ed il vicecomes di quella latina , cioè dei franco-normanni e lombardi e, quindi, la presenza a Patti di stratigoti e vice-comiti attesterebbe un tessuto sociale misto, in cui la popolazione greca avrebbe avuto agio di emergere, se non altro sotto il profilo quantitativo. D'altra parte la nutrita documentazione capitolare in lingua greca e la presenza di burgenses e notai di chiara origine bizantina, che ancora nel XIV secolo operavano nel territorio pattese anche in qualità di traduttori (come i membri della famiglia Proto presenti in numerosi atti) , indicherebbero un significativo inserimento dell'elemento di cultura ellenica nel tessuto demico di Patti. In tale contesto, nel corso del XIII secolo è attestata la presenza di burgenses, molti dei quali qualificati come artigiani (fabbri ferrai, corbiseri, bocherii, carbonarii), altri come mercatores, tutti impegnati attivamente nella vita amministrativa locale in qualità di boni homines, giudici o giurati: nel 1254 era “judex civitatis Bartholus de Raynaldo ferrarius” e, durante il XIII secolo, nelle carte del Capitolo figurano numerosi cives qualificati come magistri . In definitiva, possiamo osservare come il progresso della coscienza civica e momento cruciale dell’evoluzione sociale della classe mediana sia cominciato, per gli homines Pactarum, con il riconoscimento del loro diritto di eleggere baiuli et judices segnato precocemente da una costituzione con cui Guglielmo II ampliava il numero dei funzio-nari da uno a tre e proibiva l’accesso alla baiulatio (concessa in extalium o ad creden-tiam) a chierici, judices e vassalli baronali o ecclesiastici, escludendo quindi il ceto feu-dale ed i clerici dall'esercizio di importanti compiti amministrativi (ripartizione e riscos-sione di diritti regi, salvaguardia ed utilizzo di beni demaniali, ecc.) e da competenze giurisdizionali in materia civile e di bassa giustizia al di fuori del territorio infeudato , quindi anche all’interno del territorio urbano. La questione comunque rimane tuttora aperta e controversa, alla luce del fatto che in età angioina (1266-1282) assistiamo alle vibranti rivendicazioni di Bartolomeo Varelli del bancum justitiae, cioè di esercitare la giurisdizione anche sui cittadini. Così, accanto a iudices et notarii civitatis Pactarum che componevano la magistratura civica, sono presenti “baiuli, iudices, notarii, advocati et accettapani ecclesie” ed il vescovo poteva affermare che la designazione e la nomina di tali ufficiali era diritto del monastero “spacio longi temporis” . Sicuramente alla fine del Duecento i cittadini erano in condizione di apporsi alle pretese della Chiesa, come si è visto nella sentenza di scomunica del 7 aprile 1267, quando Pietro de Sancto Petro affermava che il vescovo Bartolomeo “de componenda nullum habebat mandatum” . Però l’affermazione della civitas hominum Pactarum, attraverso l’esercizio di diritti elettivi e prerogative in campo amministrativo, si sarebbe formalmente costituita nella prima età aragonese, quando Federico III, l’11 luglio 1312, confermava alla città di Patti privilegi e consuetudini che, afferma il sovrano, “sunt similes ut plurimum Con-suetudinibus, quas Universitas civitatis Messane in eadem civitate Messane cum teni-mento suo obtinet et observat” . Da allora innanzi questa sorta di gemellaggio statutario si sarebbe alimentato sin oltre l’età vice-regia, ispirando la crescita della civitas sino all’età moderna. Varie conferme e concessioni successive avrebbero continuato ad essere richieste sulla scia dell’esempio messinese, come quelle ottenute da Martino I il 18 aprile 1402 e nel 1406 , dove, nel formulare la richiesta del privilegio del foro al sovrano, i pattesi si ispirarono pure a quello rilasciato nel 1283 da Giacomo, luogotenente del fratello Pietro III, all’università di Messina . Sino ad arrivare alle concessioni del viceré Ximen Urrea il 10 luglio 1444 , dove una norma inserita nel Liber Rubeus municipale, prevedeva l’istituzione di una commissione composta dal baiulo, dal suo assessore, dai giurati e da dieci boni homines , e poi alle conferme di privilegi, osservanze e consuetudini ottenute nel corso del Quattrocento , sino a quando Carlo V, nel 1517 e 1535, avrebbe resa automatica l’assimilazione alle costituzioni peloritane concedendo “a la dicta cità che potissi gaudiri tutti privilegi, immunitati como gaudi la nobili cità di Messina” .

Cives et rugae all'ombra del monastero benedettino di San Salvatore a Patti: dalla fon-dazione della urbs al risveglio della universitas hominum civitatis

Luciano Catalioto
2021-01-01

Abstract

Sebbene non sia confermata la tesi secondo la quale le origini dell’insediamento urba-no di Patti coinciderebbero con il sacco saraceno di Tyndaris dell’827 e con il successivo accordo tra coloni e invasori (da cui il toponimo Pactas), esse andrebbero comunque individuate nella composizione ad opera dei fuorusciti tindaresi di una nuova comunità, la terra Pactarum. Questa esisteva prima del 16 luglio 1027, data in cui gli Annales Si-culi pongono l’inizio della devastante incursione messa in atto dal saraceno spagnolo Gaìto Maimone nell’agro siracusano ed attorno al centro pattese, che all’epoca era molto verosimilmente un casale aperto. Un vero e proprio nucleo urbano organizzato attorno ad una roccaforte si andò costi-tuendo senz’altro dopo la costruzione di un castello, avviata probabilmente intorno al 1115, che seguì la fondazione, voluta dal Granconte Ruggero d’Altavilla nel 1088 e rea-lizzata nel 1094, del monastero benedettino di San Salvatore e del tempio di San Barto-lomeo. Ruggero I, edificato questo nucleo monastico, vi mise a capo l’abate Ambrogio, già rettore di San Bartolomeo di Lipari, al quale assegnò una serie di diritti e un cospicuo patrimonio terriero, compreso entro un vasto territorio intorno a Patti, che fu definito in una pergamena del marzo (?) 1094, di cui esistono alcune copie del XIII secolo nell’Arca Magna dell’Archivio capitolare . Le carte presenti nell’Archivio , generose di notizie per la definizione del patrimonio terriero e delle prerogative fiscali e commerciali esercitate dalla Chiesa sui beni e sugli uomini del vasto territorio diocesano ed oltre, non offrono purtroppo descrizioni altret-tanto particolareggiate del centro urbano, se non nei casi in cui il vescovato fu diretta-mente coinvolto in transazioni di immobili entro le mura. A parte i pochi documenti che espressamente indicano tipologie abitative, particolari del tessuto viario e criteri insedia-tivi nel centro di Patti, possiamo tuttavia evocare un’immagine dello sviluppo urbano anche in modo indiretto, valutando la presenza nelle carte vescovili di numerosi testi-moni, ambasciatori delegati dalla universitas e boni homines, che vengono consultati in occasione di controversie patrimoniali e definizioni di confini. Questi probi viri costitui-rono, insieme agli ufficiali locali, una compagine di uomini liberi che intra moenia civi-tatis dava vita a quartieri residenziali e li ampliava, realizzando così, oltre all’affermazione di una identità civica, isole di aggregazione sociale (piazze, rugae, por-tici) e manufatti legati alla crescita delle attività artigianali e commerciali (botteghe, magazzini, mercati). Un’attenta indagine topografica consente di identificare sul territo-rio l’impianto viario medievale, che in parte coincide con quello che ancora si snoda at-torno al palazzo vescovile, e di rilevare tracce eloquenti dell’antica dislocazione di abitati e infrastrutture, ad esempio i resti delle porte cittadine o quelli della vecchia cinta muraria che affiorano in certi tratti dell’attuale centro urbano. La cattedrale e l’area cir-costante hanno subito negli anni un radicale rimaneggiamento attraverso interventi con-servativi e di ampliamento, eseguiti soprattutto a partire dal XVII secolo , ma la facciata con il portale originario normanno e la cripta sottostante, accessibile da una porta poli-croma a sesto acuto quasi certamente risalente alla metà del XIV secolo, sono stati op-portunamente riportati alla luce e recuperati negli anni Ottanta del secolo scorso . Essi si aggiungono ai pochi resti che sopravvivono del nucleo normanno, costituendo tuttavia, assieme alla torre detta “di Adelasia” ed alla struttura dell’ex monastero dei Benedettini attigue alla facciata occidentale del tempio di San Bartolomeo, una significativa testi-monianza indiretta del ruolo politico e dello sviluppo economico del centro ecclesiale nel corso dei primi anni della sua fondazione. A proposito della facciata e del portale, siamo di fronte ad elementi riferibili al gotico cistercense, la cui più antica fondazione in Sicilia fu quella dell’abbazia di Santa Maria di Novara, retta dall’abate Ugone discepolo di San Bernardo . Il portale, in particolare, mostra elementi simili a quello messinese di Santa Maria della Valle (Badiazza) e, soprattutto, a quello dell’abbazia benedettina di Maniace presso Maletto , fatta edificare dalla regina Margherita nel 1173, in cui insieme con la pietra arenaria fu usato il marmo ed il granito . E’ quindi probabile l’assegnazione della facciata e del portale agli ultimissimi anni del XII secolo o meglio ai primi del XIII, alla luce dei serrati “rapporti che intercorsero tra Federico ed i Cistercensi, sin dai primi anni del Dugento e nel seno stesso dell’Italia meridionale” . D’altra parte, l’immigrazione di gentes linguae latinae dal settentrione d’Italia sotto gli Altavilla, documentata in molti centri siciliani (Aidone, Butera, Capizzi, Maniace, Nicosia, Novara, Piazza, Randazzo, San Fratello, Santa Lucia, Sperlinga, Vicari) , aveva sicuramente portato nell’isola una schiera di maestri comacini che avranno impresso suggestioni “lombarde” nella realizzazione di molti edifici religiosi, promossa soprattutto nel periodo fridericiano. Il borgo, che in età normanna e sveva si estendeva al di sotto della cattedrale e dell’originario nucleo abitato fortificato, prima del Trecento avrebbe dato corpo a nuovi quartieri, estesi poi in età aragonese a partire da quello dell’ormai distrutto Palazzo della Capitania e inglobati all’interno di un’ulteriore fortificazione muraria, di cui oggi è possibile scorgere suggestivi scorci sotto il versante occidentale della chiesa di San Bar-tolomeo. Negli anni della dominazione normanna, pertanto, si costituirono i quartieri di Pòllini, di Sant’Ippolito (o della Piazza pubblica), nel cui porticato sarebbe stata consue-tudine dare lettura dei bandi pubblici, e del Castello (documentato a partire dal febbraio 1234) , cui si sarebbe aggiunto nei decenni successivi quello di San Michele , più a ponente e attorno all’omonima chiesa eretta nel XIII secolo. Intanto, l’incipiente rigoglio della vita sociale trovava sfogo nella “valli di li cosentini sobra Polla”, che nei primi anni del Trecento pare fosse un qualificato borgo residenziale , e nella piazza antistante la chiesa duecentesca a tre navate di Sant’Ippolito , sotto il versante nord-orientale del complesso fortificato e a ridosso dell’altura dominata dalla chiesa e dal convento di San Francesco d’Assisi -danneggiata dai bombardamenti del 1943 e all’interno della quale è appena visibile ciò che rimane di qualche antico affresco-, che pare accogliesse a Patti il primo stanziamento francescano dei Minori Conventuali . Un quartiere abitato si sviluppò proprio nell’area dove aveva trovato posto l’edificio monastico, la cui fondazione a opera di Sant’Antonio di Padova, in base ad una lapide inserita nel portale, risalirebbe al periodo compreso tra il 1222 e il 1225 per intervento diretto del Santo d’Assisi e presso il quale “Antonius Paduensis operatus est miracula” . La struttura superstite del convento, ormai completamente in rovina, risale tuttavia agli inizi del secolo XVII, quando venne profondamente rimaneggiata per intervento del vescovo Vincenzo Napoli (1609-1648) . Dopo la costituzione dei primi quartieri, fu avviata la realizzazione di una prima cinta muraria che li racchiuse, oltre a comprendere il nucleo monastero-cattedrale, al cui in-terno nel 1115 aveva trovato posto il castello (a quanto pare voluto dalla regina Adelasia e di cui oggi sopravvive soltanto una torre) che, in età aragonese, sarebbe stato oggetto di forti opposizioni da parte del clero, coinvolgendo il vescovato e la corona in contese giurisdizionali particolarmente aspre con castellani, capitani a guerra e baroni . Indica-tiva, al riguardo, la reazione del presule Matteo di Catania, che nel 1415, manifestando concreti disagi per l’insediamento nell’episcopio di un castellano regio, si sarebbe la-mentato con una certa enfasi dinnanzi all’infante Giovanni di Peñafiel, scrivendogli: “quibus Castellanis stantibus, et morantibus in eadem ecclesia una cum episcopis [...], dissentiones plurime nascebantur, et scandale quoniam repugnare videtur eumdemque locum ab episcopo eiusque ministris divinis obsequiis celebrare preter ordinationem ipsius episcopi custodiri eo maxime quod ecclesia predicta cathedralis, et maior est, et non potest sic ipsa stante convenientibus temporibus animabus, de quibus curam habet debita sacramenta prestare si arbitrio Castellani oportet episcopus et ministros ad eum intrare simul et exire. Eo quod ecclesie et prelato supradictis gravius est solvere stipendia Castellano, et Custodibus vacantibus circa custodiam ipsius ecclesie sive fortelicii de redditibus et proventibus episcopatus eiusdem sic et taliter quod vix superet pro vita, et sustentatione prelati” . Il borgo, ad ogni modo, era sicuramente cinto di mura prima dell’età sveva, quando la contrada del Castello, come si evince da due documenti del 1234 e del 1242, si esten-deva “infra et extra moenia civitatis” . Tuttavia, la crescita urbana del territorio adia-cente al complesso monastico si sarebbe realizzata verosimilmente nei decenni successivi, poiché la carta di censuazione del 1234, con cui il vescovo Pandolfo concedeva in perpetuo ad un certo Madio (devotus?) un terreno situato sotto il Castello, definisce un esteso spazio coltivato a vigneto e destinato ad ampliarsi, in tal senso, nel confinante terreno “che scende dal vallone lungo l’orto di Teodoro di Lucardo sino alla vigna di Capuano di Tacca e va sino all’altro vallone, che divide lo stesso terreno da quello di Guidone di Catania e di Bartolo, figlio di Rinaldo Ferrara” . Pertanto, la fondazione monastica aveva sicuramente consolidato la struttura ecclesiale già nel corso dei primi decenni, sotto il controllo degli Altavilla e l’egida della Chiesa romana, e poi progressivamente nel XII e XIII secolo, soprattutto a partire dall’età sveva (1194-1266), quando sarebbe diventata al contempo ambita struttura difensiva sotto il controllo della monarchia . Non a caso, nei primi anni della guerra del Vespro, la rocca di Patti aveva rappresentato un punto di forza strategico, tanto che, in mano agli Angioini ed assediata dalle truppe fedeli a Federico III, nel 1295 venne soccorsa dal Grande Ammiraglio Ruggero di Lauria, “che non intendeva perderla” . La funzione di-fensiva, che la roccaforte aveva rivestito pienamente sino all’avvento aragonese, pare si andasse gradualmente riducendo nel corso del XIV secolo, quando il suo possesso avrebbe piuttosto costituito un significato di mero prestigio e, nella seconda metà del Quattrocento, la struttura si sarebbe mostrata irrimediabilmente compromessa, tanto da richiedere nel 1472 interventi urgenti di manutenzione . I quali, tuttavia, non avrebbero impedito al vescovo Pietro Galletti (1723-1729) di descrivere il castello, nella sua relatio ad limina del luglio 1724, “quasi distrutto e tuttora inabitabile” . Nel corso del Trecento, quindi, l’abitato di Patti si estendeva ai piedi della cattedrale-fortezza verso oriente e dell’attigua altura sulla quale sorgeva il convento di San Francesco ed era protetto da una seconda cinta muraria (di cui oggi sopravvivono due soli tratti di pochi metri), concentrica alla prima, che comprendeva i nuovi spazi urbanizzati ed era interrotta da cinque porte, tra cui quella di San Michele, la Porta Reale o Maggiore e quella delle Buccerie o di Jusu, delle quali rimane ancora testimonianza tangibile. Della Porta Nuova e della Porta di Sant’Antonio, detta anche della Morte , non rimane invece che l’ubicazione virtuale, nei pressi della trecentesca fondazione di Sant’Antonio abate . I numerosi e talvolta radicali rimaneggiamenti di molti edifici e strutture urbane patte-si, attuati a partire dal Cinque e Seicento ed intensificati in seguito alle devastanti azioni dei terremoti del 1693, del 1908 e del 1978, oltre che dei bombardamenti dell’ultimo evento bellico, hanno eroso profondamente l’impianto della città risalente alla prima età medievale ed hanno restituito dell’antico impianto urbano un’immagine profondamente trasfigurata . Così è stato anche per la chiesa di San Bartolomeo, ricostruita a più riprese tra XVI e XVIII secolo, i cui elementi architettonici caratterizzanti -ad esclusione della facciata e del portale originale del tempio fondato dal primo Ruggero, recentemente riportati alla luce- apparterrebbero esclusivamente all’età moderna, come il coro ligneo settecentesco, il campanile del 1588, il portale laterale, l’altare di Santa Febronia), il sarcofago del vescovo Vincenzo Napoli e quello della contessa Adelasia, che nel 1557 il vescovo Bartolomeo II Sebastiani (1549-1567) fece costruire «forse con qualche piccola parte di quello originale» e che, peraltro, “sembra non custodire resti mortali della regina” . Un triste destino, come prima accennato, è stato riservato al monastero ed alla chiesa di San Francesco, che l’incuria umana e gli insulti del tempo hanno ridotto in macerie. Ma se spostiamo la prospettiva dalla relativa staticità della urbs, verso il dinamismo polimorfo e spesso prorompente della civitas, l’analisi diventa più stimolante, perché si entra, anzitutto, nel merito delle attività di uomini, variamente collocati all’intero del quadro sociale, e l’indagine tende ad arricchirsi quando protagonisti di alta caratura politica si confrontano a livello politico e deliberano -a volte in modo arbitrario- in materia giurisdizionale. Una tesi consolidata sostiene che la presunta usurpazione di prerogative sovrane e di privilegi municipali, messa in atto dai presuli di Patti sin dagli anni della contea e pro-seguita in modo discontinuo sin oltre l’età aragonese, avrebbe fortemente contrastato la conquista di libertà e spazi autonomi di governo da parte della comunità urbana, pena-lizzandone lo sviluppo e limitando il ruolo attivo degli organismi locali nello svolgimento della vita sociale . E’ possibile, in effetti, individuare le basi di tale interpretazione nel contenuto di una serie di documenti conservati nell’Archivio Capitolare e nel Liber Rubeus , ai quali tuttavia non può essere attribuito un valore assoluto. Innanzi tutto, la mancata menzione della città di Patti nel diploma di fondazione, con cui il Granconte donava all’abate Ambrogio beni terrieri compresi tra il fiume Timeto e la torre di Brolo, potrebbe indurre a escludere l’esercizio di una giurisdizione del presule sulla città , sebbene non si sia certi della stessa esistenza a quel tempo di un agglomerato propriamente urbano. L’indipendenza dei pattesi dalla Chiesa si evincerebbe, inoltre, da un diploma di Ruggero II del 1133, il cui tenore riprende i primi statuti di Ambrogio e mostra come il rapporto di dipendenza villanale dall’abate fosse determinato dalla resi-denza nel castello e dal godimento di terre appartenenti al monastero, dalle quali risulta escluso il territorio su cui sorge Patti. Questo il tenore del Constitutum emanato da Am-brogio tra il 1094 ed il 1101 e che l’Altavilla, “audita tandem memoratorii continentia et vulgariter exposita”, così condensò nel suo diploma: “Ambrosius Liparitane insule primus abbas, sub ipso Rogerio consule, terre adquisitore, in castro Pactes ordinavit homines, quicumque sint Latine lingue, sub tali conventione, ut omnes, qui acceperint de rebus monasterii, quantum voluerint manere in eodem castro, sint eorum heredumque ipsorum. Si vero quis quandoque recedere voluerit, res reddat monasterii, quas reddendas acceperit, hoc tamen sibi, quod inde lucratus fuerit, retineat; suam nempe hereditatem post tres annos, si vendere voluerit, vendat libere et absolute cuilibet homini voluerit, in eodem loco manenti. Venditor tamen rem primitus offerat abbati, qui, si convenienter ut alter homo emere voluerit, emat; si autem emere noluerit, rem suam homo absolute vendat. Pascua vero glandis, si in terra fuerint, abbas accipiet partem ubicumque voluerit, reliqua erunt communia, excepto nostro defensu. Deinde, si hostium timor adfuerit, ipsi ibunt pro terra defendenda Sancti Bartholomei in Lipparim, abbate absque precio eos ducente et reducente, ibidemque eos procurante, alias vero se ipsos ipsi procurabunt” . Nella disposizione diretta all’abate Giovanni da Ruggero II vennero stabilite norme per i coloni e furono affermati i diritti degli abitanti di Patti al godimento di jura com-munia. Si raggiunse quindi un accordo tra Giovanni e i pattesi, che ottennero a certe condizioni l’uso dei pascoli, il diritto di raccogliere “ligna mortua et infructifera etiam in defensu” e quello di raccogliere le ghiande “extra defensum”. La sentenza regia inserita in questo stesso atto, con cui venivano ampliati in veri e propri usi civici diritti quali il pascolo “exceptis pratis” e lo sfruttamento delle foreste, indica peraltro il servitium come unico obbligo dei vassalli nei confronti dell’abate e precisa la loro discrezionalità nel sottoporsi alla giurisdizione ecclesiastica, dalla quale erano liberi di “recedere”. D’altra parte, non pare esistano in quest’epoca giudizi regi su controversie tra vassalli e signore, i cui rapporti sarebbero stati più tardi regolati da una serie di costituzioni di Federico II , e all’abate Ambrogio, piuttosto che al sovrano, si rivolgevano nel 1117 gli abitanti di Librizzi per chiedere uno sgravio da alcuni pesanti servizi . Sebbene il tenore di questo diploma suggerisca un certo rapporto di dipendenza, da una parte occorre rilevare come i pattesi non definissero mai l’abate loro signore, ma semplicemente “tam Pactensis quam Liparensis episcopus”, dall’altra che il presule non poteva detenere il bancum justitiae, dal momento che i baiuli erano all’epoca di nomina regia. In una carta del gennaio 1134 troviamo addirittura opposizione d’interessi tra il vescovo e i cittadini in merito a certi diritti di estrazione di vettovaglie . Nella conferma delle concessioni siglata da Ruggero II nel maggio 1143, sebbene egli avesse prima concesso all’abbazia il diritto di estrarre da qualsiasi porto della sua diocesi barche cariche di vettovaglie, purché fosse merce della Chiesa pattese e a condizione che tale estrazione avvenisse alla volta di Lipari, pare che la restituzione del monte Melviso (Melvisum, Meliusum), poi Gioiosa Guardia), disposta dal Normanno “mosso dalle suppliche di Giovanni e dei suoi confratelli”, fosse determinata dalla sua precedente usurpazione ad opera di certi burgenses, dei quali è tra l’altro affermata l’indipendenza dall’autorità vescovile . Inoltre, è particolarmente significativo il contenuto di un accordo siglato nel 1191 tra il presule ed una commissione di cittadini “ab universitate hominum Pactarum ad curiam missi” in presenza e con la mediazione di re Tancredi. La rappresentanza della universitas, co-stituita da tredici ambasciatori, alla fine avrebbe accettato la chiusura della controversia sorta con il vescovo Stefano ed avrebbero rinunciato ai propri diritti su certe terre che erano per consuetudine coltivate dagli uomini di Librizzi, e questa circostanza attesta in modo implicito ma chiaro come, allo scorcio del XII secolo, la comunità cittadina fosse in condizione di nominare autonomamente tra i propri membri rappresentanti dotati di un largo potere contrattuale dinnanzi alla corte regia . E’ utile osservare l’evoluzione, nel lungo termine, dei rapporti di potere che si artico-larono, a partire dall’ultima età normanna, in un variegato complesso di norme e usi che riflette il confronto tra il preteso dominio temporale del vescovo e le spinte in senso au-tonomistico del ceto mediano, uno scontro condotto sullo sfondo dei fluidi rapporti tra autorità regia e forze feudali. Così, negli anni di Federico II non è attestata alcuna in-feudazione di Patti al vescovo né il suo esercizio di dominio temporale sui cittadini, neppure in un diploma di conferma di villas, casalias et possessiones che la Chiesa di Patti aveva ottenuto a partire dal tempo del Granconte e dell’abate Ambrogio, rilasciato dallo Svevo al vescovo Pagano nell’ottobre 1229, in cui emblematicamente non vi è cenno della città e dei diritti di giustizia sui pattesi . Ma appare significativo il fatto che, negli anni successivi alla morte dello Staufer, accanto ai magistrati cittadini, qualificati come “iudices et notarii civitatis Pactarum”, comincino a distinguersi con frequenza crescente i “baiuli, iudices, notarii, advocati et accettapani ecclesie” ed emerga la ferma volontà dei presuli di affermare che la “creatio et institutio dictorum officialium” spettava loro “spacio longi temporis” , cioè sin dagli anni del dominio normanno. Le pretese del vescovo, in effetti, vennero fortemente contrastate da Pietro Ruffo a partire dal 1256, ma la capacità di azione della Chiesa si sarebbe rafforzata negli anni di Carlo d’Angiò, quando il presule Bartolomeo Varelli fu in grado di richiamarsi autore-volmente ai privilegi ottenuti da parte degli Altavilla, opponendosi con successo alla nomina di giudici regi nella città, ed affermò in più occasioni che, oltre a “jura doane maris et terre, decime terrarum et vinearum et animalium [...], in Pactis dicta Ecclesia habet bancum justitie” . Pare opportuno offrire una visione più ampia di questa partico-lare circostanza, giacché essa chiarisce lo stato dei rapporti di forza nella diocesi messi-nese all’indomani della conquista angioina, cioè negli anni particolarmente convulsi che preludevano alla sommossa antiangioina del 1268-1270. Il 10 marzo 1267 il vice-giustiziere di Valdemone e Val di Milazzo, Manfredi di Napoli, avendo avuto ordine da parte del gran giustiziere Pierre de Lamanon di “creare judices pro parte curie in singulis terris et locis vallis Demine et Milacii” che ne fossero risultati privi, aveva nominato tali ufficiali a Patti, ignorando il diritto in tal senso rivendicato dalla Chiesa e suscitando pertanto le proteste del vescovo pattese e dell’arcivescovo di Messina i quali, minac-ciando la scomunica, sostenevano di aver diritto ad una sospensiva fin tanto che fosse stata in corso la causa . Il vicesecreto, quindi, ordinò a Matteo Sinapa di recarsi perso-nalmente a Patti e di ingiungere ai giudici appena nominati di lasciare l’incarico, “sub poena unciarum auri centum” . Di contro, il 5 marzo 1268 Aliernus, priore della chiesa di Patti, rendeva pubblica la lettera del cantore messinese Berardo in cui questi, su mandato del legato apostolico Rodolfo di Albano, vietava ai giudici nominati dalla curia regia per la città di svolgere il loro incarico . Il 10 marzo successivo il vice-giustiziere di Valdemone e Val di Milazzo incaricava il notaio messinese Matteo Sinapa di recarsi a Patti e revocare le nomine dei giudici eletti dalla curia regia in quanto era ormai appu-rato, dopo la controversia risolta davanti al legato Rodolfo, come la nomina di tali uffi-ciali spettasse al vescovo, che godeva della giurisdizione temporale sulla città . Il 12 marzo, infine, in presenza dei testimoni “ad hoc specialiter vocati et rogati […] in porticu Sancti Hippolyti de Pactis”, venne pubblicamente letta una missiva in cui il cantore messinese Berardo, informato dal vescovo che Simone Gaitano, il notaio Giovanni Bo-nello e maestro Rinaldo de Marca esercitavano l’ufficio, minacciava di scomunicarli e di dichiararli “ab omnibus legitimis actibus exclusi” se non si fossero dimessi entro dieci giorni. Berardo, addirittura, incaricava il priore Alierno e il presbitero Antonio di an-nunciare pubblicamente la scomunica dopo dieci giorni e, “pulsatis campanis et candelis accensis”, di fare evitare gli scomunicati da tutti . D’altra parte, la resistenza dei cit-tadini di Patti alla pretesa giurisdizione del vescovo è attestata in quegli anni da un altro documento, una sentenza emessa a Nicosia il 7 aprile 1267, con cui Rodolfo di Albano rinnovava la scomunica fulminata dal vescovo Bartolomeo contro i cittadini di Patti che avevano rifiutato di pagare le decime. Costoro erano stati in un primo momento assolti dal legato pontificio, in occasione di una sua visita a Patti, a condizione che si accettas-sero le richieste del vescovo, ma Pietro de Sancto Petro, “procurator illorum qui exco-municati fuerunt”, si era rifiutato di pagare le decime affermando che il vescovo “de componenda nullum habebat mandatum” . E a proposito della comunicazione ufficiale da parte del potere politico, attraverso lettura pubblica di bandi et comandamenti, nella piazza di Sant’Ippolito il 15 agosto 1267 la diffusione di un bando, cui si è fatto riferi-mento nelle pagine precedenti, offre spunto per una serie di riflessioni circa lo scenario politico che si presentava in certi contesti all’indomani della conquista angioina del re-gnum, ma anche utile ad individuare taluni -a volte influenti- attori e tracciare un profilo dell’amministrazione, della società e talvolta di realtà materiali coeve. Così, dalla sinte-tica comunicazione diffusa presso la cittadinanza pattese nel Ferragosto del 1267 , sia-mo in grado di allargare il campo d’indagine ed offrire una ricostruzione più articolata dei fatti: ai giurati di Patti era stato ordinato da parte del secreto e giustiziere del regno di eleggere alcuni homines litterati come giudici e di mandarli al suo cospetto per il giu-ramento di fedeltà, il vescovo tuttavia mal tollerò questa estensione delle loro libertates ed aveva indirizzato vibranti rimostranze al legato papale Rodolfo di Albano. Questi, a sua volta, inviò aspre lettere al cantore della cattedrale di Messina, magister Berardo, riferendogli come il vescovo si fosse lamentato del fatto che Pasquale di Caltagirone detto Scannuzio, un laico della diocesi siracusana, dietro ordine del giustiziere di Sicilia citra Salsum e “in ecclesie Pactensis preiudicium et gravamen”, aveva ingiunto alla Universitas di Patti di far prestare giuramento di fedeltà agli “homines litterati ex eadem universitate in iudices […] eligentes” presso il vicario regio, che avrebbe quindi concesso la carica. Il legato Rodolfo, pertanto, avvertì il vicario del fatto che ancora “inter dictum episcopum et Illustrem Regem Sicilie” verteva la causa “super iure creandi iudices et alios officiales in civitate praedicta” e gli ordinò di revocare il mandato a Pasquale di Caltagirone, minacciando di scomunicare il vicario ed annullare le sentenze pronunciate. Il legato ordinava inoltre al cantore Berardo di annullare le nomine e scomunicare chiunque avesse esercitato le funzioni di giudice a Patti “de mandato dicti Vicarii, vel alicuius officialis dicti Regis”, ingiungendogli di non innovare nulla, dal momento che era ancora pendente presso la curia regia e quella papale il ricorso del vescovo. Tornando all’indagine sugli ufficiali locali urbani e sulle libertates che furono alla base della loro designazione, è senz’altro opportuno verificare, nella lunga durata, la com-posizione del tessuto sociale e degli organi elettivi. Nella prima età normanna non vi è presenza di funzionari locali arabi, come l'hakim e il qadì o ά, che non avevano evidentemente trovato spazio tra latini e greci ed i nuovi venuti latini, da parte loro, non furono mai in condizione villanale, mentre coloro che si trasferivano in ambito ur-bano erano milites e, soprattutto, burgenses . Nel 1190 è attestata la presenza di uno stratigoto a Lipari, “Thomas lippariensis tunc stratigotus” , mentre a Patti il magistrato locale detto in greco ώòέ cedette il passo al baiulo, ampiamente documentato tra il 1123 e il 1173 . I ò (i vicecomites latini), tra il 1095 ed il 1223 furono ancora attivi in molti centri del Valdemone, tra cui Patti, dove in un docu-mento del 4 marzo 1133 è attestata la presenza di “Iohannes vicecomes”. Si tratta di una conferma dell’abate Giovanni agli abitanti delle isole Eolie relativa al possesso delle terre ottenute con il Constitutum di Ambrogio, dove peraltro si stabiliva che da quel momento nelle isole nessuno potesse più possedere -e quindi alienare- terre, neppure per testamento, e che queste dovessero tornare alla Chiesa in caso di ribellione o infedeltà . Nella urbs pattese del 1115 troviamo un “Wilhelmus stratigotus”, che era anche “baiulus totius terre” del conte Enrico di Paternò , e da questi anni si cominciò ad in-crementare la presenza dei baiuli come funzionari giudiziari, nominati forse per sostituire i vicecomites, che a partire dalle costituzioni di Melfi non sarebbero stati più menzionati, ed affiancare in certi casi lo stratigoto . Tra il 1130 ed il 1133 troviamo insediati quasi sincronicamente uno stratigoto ed un vicecomes e, nel 1188, i due funzionari insieme: “Ansaldus stratigotus Pactensis” e “W[illelmus] vicecomes Pactensis” . E’ probabile che lo stratigoto fosse il magistrato della popolazione greca ed il vicecomes di quella latina , cioè dei franco-normanni e lombardi e, quindi, la presenza a Patti di stratigoti e vice-comiti attesterebbe un tessuto sociale misto, in cui la popolazione greca avrebbe avuto agio di emergere, se non altro sotto il profilo quantitativo. D'altra parte la nutrita documentazione capitolare in lingua greca e la presenza di burgenses e notai di chiara origine bizantina, che ancora nel XIV secolo operavano nel territorio pattese anche in qualità di traduttori (come i membri della famiglia Proto presenti in numerosi atti) , indicherebbero un significativo inserimento dell'elemento di cultura ellenica nel tessuto demico di Patti. In tale contesto, nel corso del XIII secolo è attestata la presenza di burgenses, molti dei quali qualificati come artigiani (fabbri ferrai, corbiseri, bocherii, carbonarii), altri come mercatores, tutti impegnati attivamente nella vita amministrativa locale in qualità di boni homines, giudici o giurati: nel 1254 era “judex civitatis Bartholus de Raynaldo ferrarius” e, durante il XIII secolo, nelle carte del Capitolo figurano numerosi cives qualificati come magistri . In definitiva, possiamo osservare come il progresso della coscienza civica e momento cruciale dell’evoluzione sociale della classe mediana sia cominciato, per gli homines Pactarum, con il riconoscimento del loro diritto di eleggere baiuli et judices segnato precocemente da una costituzione con cui Guglielmo II ampliava il numero dei funzio-nari da uno a tre e proibiva l’accesso alla baiulatio (concessa in extalium o ad creden-tiam) a chierici, judices e vassalli baronali o ecclesiastici, escludendo quindi il ceto feu-dale ed i clerici dall'esercizio di importanti compiti amministrativi (ripartizione e riscos-sione di diritti regi, salvaguardia ed utilizzo di beni demaniali, ecc.) e da competenze giurisdizionali in materia civile e di bassa giustizia al di fuori del territorio infeudato , quindi anche all’interno del territorio urbano. La questione comunque rimane tuttora aperta e controversa, alla luce del fatto che in età angioina (1266-1282) assistiamo alle vibranti rivendicazioni di Bartolomeo Varelli del bancum justitiae, cioè di esercitare la giurisdizione anche sui cittadini. Così, accanto a iudices et notarii civitatis Pactarum che componevano la magistratura civica, sono presenti “baiuli, iudices, notarii, advocati et accettapani ecclesie” ed il vescovo poteva affermare che la designazione e la nomina di tali ufficiali era diritto del monastero “spacio longi temporis” . Sicuramente alla fine del Duecento i cittadini erano in condizione di apporsi alle pretese della Chiesa, come si è visto nella sentenza di scomunica del 7 aprile 1267, quando Pietro de Sancto Petro affermava che il vescovo Bartolomeo “de componenda nullum habebat mandatum” . Però l’affermazione della civitas hominum Pactarum, attraverso l’esercizio di diritti elettivi e prerogative in campo amministrativo, si sarebbe formalmente costituita nella prima età aragonese, quando Federico III, l’11 luglio 1312, confermava alla città di Patti privilegi e consuetudini che, afferma il sovrano, “sunt similes ut plurimum Con-suetudinibus, quas Universitas civitatis Messane in eadem civitate Messane cum teni-mento suo obtinet et observat” . Da allora innanzi questa sorta di gemellaggio statutario si sarebbe alimentato sin oltre l’età vice-regia, ispirando la crescita della civitas sino all’età moderna. Varie conferme e concessioni successive avrebbero continuato ad essere richieste sulla scia dell’esempio messinese, come quelle ottenute da Martino I il 18 aprile 1402 e nel 1406 , dove, nel formulare la richiesta del privilegio del foro al sovrano, i pattesi si ispirarono pure a quello rilasciato nel 1283 da Giacomo, luogotenente del fratello Pietro III, all’università di Messina . Sino ad arrivare alle concessioni del viceré Ximen Urrea il 10 luglio 1444 , dove una norma inserita nel Liber Rubeus municipale, prevedeva l’istituzione di una commissione composta dal baiulo, dal suo assessore, dai giurati e da dieci boni homines , e poi alle conferme di privilegi, osservanze e consuetudini ottenute nel corso del Quattrocento , sino a quando Carlo V, nel 1517 e 1535, avrebbe resa automatica l’assimilazione alle costituzioni peloritane concedendo “a la dicta cità che potissi gaudiri tutti privilegi, immunitati como gaudi la nobili cità di Messina” .
2021
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