Prima di entrare nel merito dell’intervento e descrivere Messina in Età sveva, pare opportuno riferire alcune notizie, purtroppo poco documentate, relative al passaggio dalla città dello Stretto di sant’Antonio da Padova e all’ordine francescano, che qui lo avrebbe accolto per un breve periodo, nella primavera del 1221. Sappiamo che all’inizio della primavera 1221 Antonio, partito dal Marocco, dove si trovava dall’autunno dell’anno precedente, fu so¬spinto dai forti venti sul promontorio milazzese in Sicilia, sebbene il tradizionale approdo a Capo Milazzo non sia provato e venga da altri individuato a Taormina o Cefalù. Tra inizio marzo e fine aprile 1221 Antonio sarebbe comunque giunto a Messina, da dove avrebbe intrapreso un viaggio sino ad Assisi, per partecipare al Capitolo generale dei Minori che si sarebbe aperto il 30 maggio 1221. Nelle settimane successive Antonio si sarebbe incamminato dall’estremo lembo meridionale della Calabria, percorrendo la via che conduceva ab Regio ad Capuam, ovvero la via Popillia (Popilia), che in età alto-medievale era “l’unica strada consolare esi¬stente lungo la costa tirrenica”. Appare rilevante per la ricostruzione del coevo cammino di Antonio come proprio Federico II, incoro¬nato il 22 novembre 1220 a Roma da papa Onorio III e passando poi da Cassino (14 dicembre 1220), Capua, Napoli e la Capitanata, percorresse in quegli stessi giorni ed in senso inverso lo stesso tragitto del frate lungo la via Popillia, per giungere in Sicilia nel maggio 1221. Sulla base di un’attenta valutazione, Pompeo Volpe descrive in modo convincente l’itinerario che il Santo avrebbe seguito per giungere dal Capo di Milazzo a Messina, passando forse dall’hospitale di S. Filippo del Mela e poi lungo la fiumara di Calvaruso, sino a valicarne la sommità e discendere verso la chiesa di Santa Maria della Valle, abbazia all’epoca sicuramente attiva, e infine al convento di San Francesco presso il torrente Boccetta. Come conferma Salvatore Tramontana, illustre storico messinese, il pri-mo insediamento francescano in Sicilia sembra sia stato quello di Messina, “E se è da scartare la stabilitas loci del 1212, che taluni vorrebbero nella chiesa già basiliana di S. Leone, sembra quasi certo che nel 1221 Antonio da Padova, che ritornava dall’Africa, sia stato ospite di un convento francescano del quale purtroppo sconosciamo il nome. Ma che doveva probabilmente coincidere, almeno in parte, con lo spazio in cui sorge l’attuale chiesa di San Francesco”. A questo proposito, la prima notizia documentata risale al 1240 e si riferisce all’acquisto del terreno con alcuni stabili dove, nel 1252, i francescani avrebbero avviato de novo la costruzione della chiesa di San Francesco, consacrata nel 1255 da Alessandro IV e, allo scorcio del Quattrocento, raffigurata da una fonte iconografia di grande rilievo, il Cristo in Pietà sorretto da tre Angeli di Antonello da Messina. Velate da dubbi, d’altra parte, si presentano altre testimonianze, per via di incongruenze cronologiche e alla luce della rapida diffusione del culto. E’ il caso, ad esempio, del pozzo presente nel giardino del convento, la cui realizzazione è attribuita al Santo di Padova, o del mattone che sarebbe intriso del suo sangue, o ancora il riferimento al convento di San Francesco a Patti, la cui fondazione a opera di Sant’Antonio di Padova è attestata da una lapide inserita nel portale. Il monastero, in effetti, sarebbe stato fondato nel periodo compreso tra il 1222 e il 1225 per intervento diretto del Santo d’Assisi, e presso la sua sede Antonius Paduensis operatus est miracula. Sicuramente, come riporta Pompeo Volpe, “Messina è, agli inizi del XIII secolo, il punto certo di convergenza di un sistema insulare di itineraria peregri¬norum”, ma pure “il punto di convergenza del sistema viario siciliano e il suo porto era il centro di smistamento dei pellegrini provenienti da ogni parte della Sicilia e diretti a Gerusalemme, Roma o Santiago”. A partire dagli anni Venti del Duecento, tuttavia, quando Antonio transitava da Messina, l’atteggiamento di Federico II cominciava a farsi ostile nei confronti dei francescani, accusati di eresia e di comportamenti ribelli, e una certa diffidenza nei loro confronti era alimentata anche da parte del clero secolare. L’ostilità dello Svevo nei confronti dell’ordine avrebbe raggiunto il culmine nel 1239, quando egli, come afferma il cronista Nicolò da Calvi nella sua Vita di Innocenzo IV, “espulse e cacciò dal regno i frati minori, e di loro alcuni furono torturati e altri passati a fil di spada”. E nella cronaca di Riccardo di S. Germano si dice anche che, dal novembre 1240, tutti i Mendicanti avrebbero abbandonato il Regno per ordine di Federico, lasciando solo due di loro in ogni convento, per custodirlo. Tuttavia, fino al 1239 i documenti, pur nella loro scarsità, parlano tutti a favore di un atteggiamento benevolo di Federico II nei confronti dei nuovi Ordini. I Predicatori furono protetti e incoraggiati a proseguire nella loro lotta contro l’eresia, che Federico aveva visto drammaticamente diffondersi in Lombardia e fin nelle terre della Germania. “I Francescani, assai meno impegnati, in quegli anni, nella lotta frontale contro l’eresia, pare abbiano attirato meno l’attenzione imperiale” e significativa appare la richiesta di pregare per lui che Federico, nel maggio del 1236, rivolse all’ordine dei Minori, at-traverso la persona del loro ministro generale Elia da Cortona. Secondo Salimbene da Parma, nella primavera del 1238, il generale francescano era stato scelto da Gregorio IX, quale suo ambasciatore presso il sovrano sve-vo, proprio perché persona grata all’imperatore. E Riccardo di San Germano testimonia che, alla fine del 1239, Elia fu accolto benevolmente da Federico, che ne prese apertamente le difese contro il papa. In definitiva, la permanenza e la diffusione dei Mendicanti nelle terre del regno si spiega, implicitamente, con la concessione da parte di Innocenzo IV, a Minori e Predicatori, di poter risiedere “in terris excommunicatorum et ab eis necessaria ad victum accipere”. Ma procediamo per ordine, cercando anzitutto di ricostruire le vicende politiche che caratterizzarono la vita messinese fra Due e Trecento, ma an-che con l’intento di evocare il clima che si esprimeva all’interno della va-riegata e pulsante società di quegli anni, quando Antonio attraversava la città e vi soggiornava. Gli anni a cavallo tra XII e XIII secolo sono segnati dal passaggio della corona del regnum Siciliae dagli Altavilla agli Hohen-staufen, un avvicendamento la cui drammaticità emerge emblematicamente dalla Epistola ad Petrum del cronista Ugo Falcando. Messina fu in quegli anni teatro di avvenimenti tumultuosi, che avrebbero avuto esiti significativi e duraturi all’interno della struttura demica, incidendo profondamente sulle trasformazioni della società e dei suoi orientamenti politici. Dopo la radicale decapitazione della classe dirigente di etnia greca, prodotta dall’azione di Riccardo Cuor di Leone fra il 1190 e il 1191, avvenne una vera e propria mutazione di natura culturale e antropologica. Si generò, infatti, un processo di latinizzazione del potere che avrebbe finito per stravolgere l’assetto della macchina burocratica e la composizione dei suoi quadri. Gli effetti più marcati del cambiamento si mostrarono nel rafforzamento di un nuovo ceto di maiores civium, composto da uomini di cultura e di denaro, dal quale furono tenuti lontani gli aristocratici e gruppi consistenti di mercatores. Tuttavia, come opportunamente rilevato da Enrico Pispisa, le esperienze maturate dalla Città del Faro durante l’Età sveva risentirono della sostan-ziale differenziazione degli atteggiamenti assunti di volta in volta dagli Hohenstaufen (Enrico VI, Federico II, Corrado IV e Manfredi), sebbene non venisse mai meno in seno alla società messinese la volontà di perpetrare orientamenti tracciati nei precedenti decenni e consolidare alcune conquiste acquisite sino all’Età di Guglielmo il Buono, quali la costituzione di un solido ceto amministrativo e la proiezione commerciale del proprio porto nel Mediterraneo e verso Levante. D’altra parte, che Messina, clavis Siciliae della cronaca malaterriana, continuasse in Età sveva a gravitare più verso la Calabria e i mercati mediterranei ed orientali, piuttosto che nell’entroterra siciliano, è suggerito dalla reiterata e rafforzata definizione di “clavis et custodia totius Siciliae” espressa da Saba Malaspina allo scorcio del Duecento, quando cioè la sede messinese, “quasi in centro positam” richiamava mercanti e visitatori “a diversis mundi partibus”. La centralità di Messina e la vitalità della sua composita e operosa citta-dinanza era emersa sin dalla prima età normanna, quando il Granconte “undecumque terrarum artificiosis caementariis conductis”, aveva dato avvio a un organico programma edilizio che avrebbe marcato la topografia della città e, inevitabilmente, avrebbe impresso precise connotazioni a ru-ghe e quartieri. Innanzi tutto, erano state rafforzate le strutture difensive murarie, che l’anonimo autore della Epistola ad Petrum definiva una “cerchia di mura rafforzata dalla frequente presenza di torri”; fu in seguito realizzato l’arsenale e un grande palatium, che sicuramente è il “propugnaculum im-mensae altitudinis” citato da Goffredo Malaterra ed esemplato da Pietro da Eboli. Il palazzo comitale e poi regio sorgeva, “bianco come un colomba”, di fronte al porto e sarebbe stato ampliato negli anni successivi. Nel 1096 era stata edificata, “cum turribus et diversis possessionibus”, la prima cattedrale di Messina, dedicata a San Nicolò e ubicata a poche centinaia di metri dall’attuale Duomo, sorto a sua volta alla metà del XII secolo. Presso la foce del torrente Boccetta, accanto alla sede benedettina di San Giovanni Battista e ad una casa degli Ospedalieri di San Giovanni di Gerusalemme, già dagli anni Settanta di quel secolo era operativa una “Grancia, con annesso Ospedale, dove venivano curati specificatamente i pellegrini che da Messina passavano per andare e tornare dalla Terra Santa, provenienti da tut¬ta Europa”. Un ruolo che fu pure svolto dall’Ospedale dei Templari, sorto nel 1096 presso la chiesa di S. Marco, e da quello che i Teutonici fondarono nel 1195 accanto la chiesa di S. Maria Alemanna. Questo, in sostanza, fu il principale nucleo urbano, delimitato dall’arsenale, dal quartiere detto Amalfitania e dalla loggia dei genovesi, attorno al quale si andò coagulando la vita sociale ed economica della nova urbs normanna e poi sveva. Fortemente interessati alle nuove prospettive commerciali, soprattutto quelle offerte dal traffico del grano, furono i mercanti forestieri, innanzi tutto amalfitani (ma in seguito anche veneziani, genovesi, toscani, proven-zali e catalani), richiamati da agevolazioni fiscali e commerciali entro le mura della città, dove fondarono logge e fondaci e costituirono i propri quartieri in prossimità del porto. Gli amalfitani, presenti nell’isola sin dall’813, si insediarono in un quartiere, l’Amalfitania, che si sviluppò at-torno alla ruga Amalfitanorum, ma il loro rilievo, destinato poi ad ampliarsi in età angioina, decadde alla fine del XII secolo, quando emersero più attivi operatori peninsulari, cioè genovesi, pisani e veneziani, tutti insediati più o meno stabilmente nella Città del Faro con logge e fondaci e fortemente interessati alle rotte orientali. I genovesi, che a Messina ebbero un console già nel 1169 e istituirono un flusso bilaterale continuo con l’isola dalla metà del XII secolo, avrebbero consolidato le proprie posizioni commerciali soprattutto in Età sveva, come pure gli operatori pisani, i cui rapporti con i liguri furono sempre caratterizzati da una forte rivalità. Anche i mercanti veneziani, seppure frequentatori meno assidui dello scalo peloritano, nella Seconda metà del XII secolo ebbero un fondaco in tarsianatu veteris civitatis, cioè presso l’arsenale della città vecchia, e fruirono di significative agevolazioni commerciali, soprattutto sotto il regno di Guglielmo II. Dobbiamo inoltre immaginare questi quartieri popolati da una folta schiera di commercianti, artigiani e contadini provenienti anche dalle terre calabresi, cioè i cosiddetti populares destinati, insieme alla plebs, a comporre il tessuto connettivo urbano. Messina, sotto gli svevi, rimase infatti proiettata verso la Calabria, i cui mercati entrarono tra le mire degli operatori locali e le cui terre costituirono, almeno sino al Vespro, il naturale sfogo di possidenti e piccoli feudatari peloritani, penalizzati dall’assenza nell’isola di un retroterra in grado di assicurare agiatezza economica e prestigio sociale. I rapporti commerciali con l’entroterra siciliano furono tenuti in vita dall’episcopato messinese, sede metropolitica sotto il pontificato di Alessandro III (1159-1181), che aveva allargato il proprio distretto sino a comprendere le sedi di Catania, Cefalù e Lipari-Patti, e dalla capillare penetrazione, soprattutto nel Valdemone, delle sedi basiliane, espressione, sino al 1190, di una chiara egemonia culturale di tradizione greca. Di altri operatori forestieri abbiamo sporadiche indicazioni e della loro presenza entro le mura di Messina possiamo ricavare solo qualche notizia indiretta, come nel caso degli inglesi, la cui incidenza commerciale può essere desunta dall’attestazione in Età sveva della ruga Anglicorum, mentre coloro venuti dall’isola britannica al seguito di Riccardo Cuor di Leone nel 1190 erano crociati e pellegrini in transito per la Terrasanta. La presenza di questi operatori forestieri, pertanto, contribuì ad assegnare a Messina una fisionomia particolare, la connotò cioè come una vera e propria megalopolis “per il continuo andirivieni di viaggiatori” – annotava il geografo di Ruggero II –, per la presenza di un arsenale particolarmente attivo e di un porto oltremodo vivace, «un’autentica meraviglia» dove “si raccolgono le grandi navi nonché i viaggiatori e i mercanti dei più svariati paesi latini e musulmani”. E analoga immagine emerge dalle descrizioni di Ibn Giubayr e dello pseudo Ugo Falcando, i quali, in riferimento agli ultimi anni della dominazione normanna, insistono sul cosmopolitismo e sul carattere mercantile di Messina, “meta de’ legni che solcano il mare venendo da tutte le regioni”, [dove] “il sudiciume e il fetore sono la diretta conseguenza di transazioni economiche continue e dell’ammassarsi di commercianti venuti da ogni dove”. Oggi non rimane traccia di quell’impianto urbano, sicuramente stravolto già dal violento sisma che si abbatté sulla Sicilia Orientale nel 1169, quando “apud Messanam etiam maximus et manifestus terre motus fuit”, e definitivamente cancellato dai catastrofici eventi del 1783, del 1908 e dell’ultimo conflitto mondiale. Ma tornando alle delicate fasi dell’affermazione sveva nella Città dello Stretto, Enrico VI, che in essa aveva trovato un solido sostegno alla sua azione politica, mostrò di avere “particolarmente a cuore i ceti dirigenti ed i mercanti di Messina, i quali potevano offrire un aiuto decisivo”: giunto a Messina nell’ottobre 1194, lo Svevo, attraverso una serie di provvedimenti normativi adottati tra il 1194 e il 1197, riordinò le competenze dello stratigoto e dei giudici, le cui cariche furono escluse dal meccanismo dell’appalto per divenire prerogativa regia. Allo stesso tempo intraprese un’opera di razionalizzazione amministrativa che tese a risaltare la centralità del ceto burocratico nella gestione urbana, consentendo ai gruppi amministrativi della città di assumere consistente autonomia commerciale e di emergere anche sotto il profilo economico. In questo breve lasso di tempo, giunti al seguito di Enrico VI, si insediavano a Messina gli Ospitalieri teutonici, presso la Chiesa di Santa Maria degli Alemanni. Anche la regina Costanza non fece mancare la sua protezione alla cittadinanza messinese, confermando nel 1198 le concessioni di Enrico, e proseguendo a favorire il centro peloritano anche negli anni della reggenza del giovane Federico. Intorno al 1220 l’etnia latina controllava ormai completamente i gangli amministrativi e giudiziari, il clero regolare era eminentemente benedettino e sicuramente l’isola era interessata da un flusso di francescani i quali, come afferma il vescovo di Acri Giacomo di Vitry, nel 1216 erano propagati nel Mezzogiorno e in Sicilia. Intanto il ceto mercantile, composto soprattutto da operatori forestieri, continuava a godere di notevoli esenzioni e privilegi, generando un benessere diffuso presso tutte le componenti della società. Questa felice stagione dei nuovi emergenti, tuttavia, fu di breve durata, interrotta dagli indirizzi normativi, fortemente restrittivi delle libertates mercantili e delle autonomie urbane, che Federico II aveva assunto con le assise di Messina e di Capua del 1220 e avrebbe ribadito con più vigore nelle Constitutiones melfitane del 1231. Sebbene la città mantenesse di fatto molte franchigie e, per via dell’abolizione delle zecche di Amalfi e Palermo, ricevesse, assieme a Brindisi, un notevole impulso per il suo atélier, nel giro di un decennio vide frammentato e svuotato di contenuti il proprio apparato burocratico, svilita la capacità d’azione della sua curia stratigoziale sottoposta al rigido controllo regio. Ma, soprattutto, si ritrovò privata di consistenti prerogative commerciali, che negli anni precedenti avevano garantito un benessere esteso anche ai gruppi meni abbienti della cittadinanza. Nel malcontento che tali misure alimentarono presso ampi strati della so-cietà, soprattutto in seno al ceto mercantile, sono da ricercare le cause della rivolta che nel 1232 esplose a Messina, estendendosi presto in molti centri della Sicilia Orientale, e che fu orchestrata, oltre che dal ceto mercantile, anche dagli ambienti feudali. La rivolta fu soffocata nel sangue dalla duris-sima reazione dello Staufer, che fece giustiziare il capo del moto messine-se, Martino Mallone (Bellone), insieme a molti altri, ma che non si rivolse contro il ceto burocratico, per il quale si aprivano nuove prospettive di ascesa grazie al drastico incremento degli uffici e delle connesse attività. Cominciò così ad emergere un ceto di maiores civium composto da uomini di cultura e uomini di denaro, un gruppo alquanto omogeneo di funzionari-amministratori che comprendeva anche judices, magistri, notai, portolani, secreti e, almeno a partire dal 1230, “delegati preposti alla vigilanza annonaria, stretti da giuramento alla retta esecuzione della delicata funzione, e detti perciò giurati”. In questo senso, nell’ultimo quindicennio dell’Età sveva il ceto burocratico ampliò le proprie competenze e si rafforzò, dal momento che l’assenza di controllo centrale negli anni di Manfredi e la politica largheggiante di Corrado IV in materia mercantile avevano fatto sì che i centri urbani si impadronissero “della sfera amministrativa a loro delegata dai conti e dai maggiori baroni, i quali dominavano saldamente ogni parte del Regnum, strumentalizzando a proprio vantaggio gli uffici regi”. Il baronaggio, infatti, ebbe agio di emergere solo dopo la scomparsa di Fe-derico II, sotto il cui dominio le forze nobiliari non erano state messe in condizione di esprimere le proprie velleità egemoniche, e Messina, per un breve periodo (1251-1255), fu in mano al feudatario calabrese Pietro Ruffo che, in opposizione a Manfredi e in ossequio al papato, assunse il vicariato in Sicilia e Calabria. Il contrasto tra il conte di Catanzaro e Manfredi consentì momentaneamente al ceto dei populares di emergere, sotto la guida del messinese Leonardo Aldigerio, e di tentare una singolare esperienza comunale “more civitatum Lombardiae et Tusciae”, la costituzione cioè di “una federazione di città subordinata al fascino cupo della Chiesa e alla spirale della sua logica politica, e che Bartolomeo da Neocastro, con felice espressione, chiamò repubblica di vanità”. Soffocata nel nascere dall’azione di Manfredi e avversata dalle forze feu-dali legate al sovrano, tale sperimentazione autonomistica si mostrò ambi-gua e disorganica, in ultima analisi effimera e sostanzialmente diversa dal fenomeno, apparentemente analogo, che all’indomani del Vespro avrebbe portato Messina alla costituzione di una Communitas Sicilie. La quale, pe-rò, non fu espressione dei ceti mediani e subalterni, ma fu orchestrata in modo strumentale da un compatto gruppo di milites e grandi feudatari, i quali avrebbero aperto le porte della città a Pietro III d’Aragona. Nell’Età di Manfredi, pertanto, le redini del potere economico furono nelle mani dei ceti burocratici e dei milites, ai quali è possibile accomunare proprietari terrieri e ricchi possidenti impegnati in spregiudicate transazioni immobiliari, ma soprattutto una folta schiera di cives che al potere politico aggiungevano il prestigio culturale e la cui rinomanza si sarebbe estesa ben oltre l’ambito locale, grazie all’attività del cosiddetto laboratorio messine-se. Questo si collegò alla Scuola poetica siciliana in modo originale, perché espressione delle esperienze culturali della classe burocratica e non di un vivaio di corte omologato e impersonale, ma anche perché il ceto dirigente peloritano, attraverso l’impegno di questi funzionari/poeti, si accostò “ad un patrimonio letterario che si estende alla letteratura in lingua d’oïl e ad altri apporti”. E a questo proposito, occorre rilevare come la felice stagione culturale attraversata da Messina nel XIII secolo lasciasse un’impronta profonda anche grazie all’azione della Chiesa, anch’essa espressione dei ceti emergenti, nei cui scriptoria operarono traduttori dal greco e dall’arabo di grande spessore culturale, come Bartolomeo e Stefano da Messina, e la cui produzione figurativa attinse risultati di rilievo nel panorama artistico europeo. In definitiva, possiamo affermare che, nel corso dell’Età sveva, Messina maturò una serie di esperienze attraverso i rapporti di volta in volta instau-rati con il potere regio, passando dalla breve stagione di Enrico VI ai lunghi anni della politica fridericiana. La prima Età fu caratterizzata dal rafforzamento della curia stratigoziale e da una maggiore liberalizzazione delle attività mercantili; la politica di Federico, invece, svilì il governo della città con un rigido controllo burocratico degli uffici e un drastico ridimensionamento di qualsiasi forma di autonomia amministrativa e commerciale, sia urbana che feudale. Sotto il dominio di Corrado IV e Manfredi, e nelle episodiche espressioni di forme di governo alternative, la società messinese si evolse attorno a tre poli ben definiti, cioè la Chiesa, i mercanti stranieri e il ceto burocratico, intorno al quale si muovevano gli interessi dei milites e di alcuni proprietari terrieri. L’incontro di queste forze, che produsse nell’immediato l’affermazione di un gruppo rinnovato e ancora alquanto indistinto di maiores civitatis, avrebbe dato frutti più maturi nel lungo termine e, pertanto, in questa prospettiva possiamo affermare che Messina visse in Età sveva “una serie di decisive esperienze che prepararono quel profilo di centro dominato da amministratori/affaristi, che la città avrebbe pienamente assunto nel secolo seguente”.
Il “Cammino” di Antonio da Padova (1221) e Messina in Età sveva (1194-1266),
Luciano Catalioto
2021-01-01
Abstract
Prima di entrare nel merito dell’intervento e descrivere Messina in Età sveva, pare opportuno riferire alcune notizie, purtroppo poco documentate, relative al passaggio dalla città dello Stretto di sant’Antonio da Padova e all’ordine francescano, che qui lo avrebbe accolto per un breve periodo, nella primavera del 1221. Sappiamo che all’inizio della primavera 1221 Antonio, partito dal Marocco, dove si trovava dall’autunno dell’anno precedente, fu so¬spinto dai forti venti sul promontorio milazzese in Sicilia, sebbene il tradizionale approdo a Capo Milazzo non sia provato e venga da altri individuato a Taormina o Cefalù. Tra inizio marzo e fine aprile 1221 Antonio sarebbe comunque giunto a Messina, da dove avrebbe intrapreso un viaggio sino ad Assisi, per partecipare al Capitolo generale dei Minori che si sarebbe aperto il 30 maggio 1221. Nelle settimane successive Antonio si sarebbe incamminato dall’estremo lembo meridionale della Calabria, percorrendo la via che conduceva ab Regio ad Capuam, ovvero la via Popillia (Popilia), che in età alto-medievale era “l’unica strada consolare esi¬stente lungo la costa tirrenica”. Appare rilevante per la ricostruzione del coevo cammino di Antonio come proprio Federico II, incoro¬nato il 22 novembre 1220 a Roma da papa Onorio III e passando poi da Cassino (14 dicembre 1220), Capua, Napoli e la Capitanata, percorresse in quegli stessi giorni ed in senso inverso lo stesso tragitto del frate lungo la via Popillia, per giungere in Sicilia nel maggio 1221. Sulla base di un’attenta valutazione, Pompeo Volpe descrive in modo convincente l’itinerario che il Santo avrebbe seguito per giungere dal Capo di Milazzo a Messina, passando forse dall’hospitale di S. Filippo del Mela e poi lungo la fiumara di Calvaruso, sino a valicarne la sommità e discendere verso la chiesa di Santa Maria della Valle, abbazia all’epoca sicuramente attiva, e infine al convento di San Francesco presso il torrente Boccetta. Come conferma Salvatore Tramontana, illustre storico messinese, il pri-mo insediamento francescano in Sicilia sembra sia stato quello di Messina, “E se è da scartare la stabilitas loci del 1212, che taluni vorrebbero nella chiesa già basiliana di S. Leone, sembra quasi certo che nel 1221 Antonio da Padova, che ritornava dall’Africa, sia stato ospite di un convento francescano del quale purtroppo sconosciamo il nome. Ma che doveva probabilmente coincidere, almeno in parte, con lo spazio in cui sorge l’attuale chiesa di San Francesco”. A questo proposito, la prima notizia documentata risale al 1240 e si riferisce all’acquisto del terreno con alcuni stabili dove, nel 1252, i francescani avrebbero avviato de novo la costruzione della chiesa di San Francesco, consacrata nel 1255 da Alessandro IV e, allo scorcio del Quattrocento, raffigurata da una fonte iconografia di grande rilievo, il Cristo in Pietà sorretto da tre Angeli di Antonello da Messina. Velate da dubbi, d’altra parte, si presentano altre testimonianze, per via di incongruenze cronologiche e alla luce della rapida diffusione del culto. E’ il caso, ad esempio, del pozzo presente nel giardino del convento, la cui realizzazione è attribuita al Santo di Padova, o del mattone che sarebbe intriso del suo sangue, o ancora il riferimento al convento di San Francesco a Patti, la cui fondazione a opera di Sant’Antonio di Padova è attestata da una lapide inserita nel portale. Il monastero, in effetti, sarebbe stato fondato nel periodo compreso tra il 1222 e il 1225 per intervento diretto del Santo d’Assisi, e presso la sua sede Antonius Paduensis operatus est miracula. Sicuramente, come riporta Pompeo Volpe, “Messina è, agli inizi del XIII secolo, il punto certo di convergenza di un sistema insulare di itineraria peregri¬norum”, ma pure “il punto di convergenza del sistema viario siciliano e il suo porto era il centro di smistamento dei pellegrini provenienti da ogni parte della Sicilia e diretti a Gerusalemme, Roma o Santiago”. A partire dagli anni Venti del Duecento, tuttavia, quando Antonio transitava da Messina, l’atteggiamento di Federico II cominciava a farsi ostile nei confronti dei francescani, accusati di eresia e di comportamenti ribelli, e una certa diffidenza nei loro confronti era alimentata anche da parte del clero secolare. L’ostilità dello Svevo nei confronti dell’ordine avrebbe raggiunto il culmine nel 1239, quando egli, come afferma il cronista Nicolò da Calvi nella sua Vita di Innocenzo IV, “espulse e cacciò dal regno i frati minori, e di loro alcuni furono torturati e altri passati a fil di spada”. E nella cronaca di Riccardo di S. Germano si dice anche che, dal novembre 1240, tutti i Mendicanti avrebbero abbandonato il Regno per ordine di Federico, lasciando solo due di loro in ogni convento, per custodirlo. Tuttavia, fino al 1239 i documenti, pur nella loro scarsità, parlano tutti a favore di un atteggiamento benevolo di Federico II nei confronti dei nuovi Ordini. I Predicatori furono protetti e incoraggiati a proseguire nella loro lotta contro l’eresia, che Federico aveva visto drammaticamente diffondersi in Lombardia e fin nelle terre della Germania. “I Francescani, assai meno impegnati, in quegli anni, nella lotta frontale contro l’eresia, pare abbiano attirato meno l’attenzione imperiale” e significativa appare la richiesta di pregare per lui che Federico, nel maggio del 1236, rivolse all’ordine dei Minori, at-traverso la persona del loro ministro generale Elia da Cortona. Secondo Salimbene da Parma, nella primavera del 1238, il generale francescano era stato scelto da Gregorio IX, quale suo ambasciatore presso il sovrano sve-vo, proprio perché persona grata all’imperatore. E Riccardo di San Germano testimonia che, alla fine del 1239, Elia fu accolto benevolmente da Federico, che ne prese apertamente le difese contro il papa. In definitiva, la permanenza e la diffusione dei Mendicanti nelle terre del regno si spiega, implicitamente, con la concessione da parte di Innocenzo IV, a Minori e Predicatori, di poter risiedere “in terris excommunicatorum et ab eis necessaria ad victum accipere”. Ma procediamo per ordine, cercando anzitutto di ricostruire le vicende politiche che caratterizzarono la vita messinese fra Due e Trecento, ma an-che con l’intento di evocare il clima che si esprimeva all’interno della va-riegata e pulsante società di quegli anni, quando Antonio attraversava la città e vi soggiornava. Gli anni a cavallo tra XII e XIII secolo sono segnati dal passaggio della corona del regnum Siciliae dagli Altavilla agli Hohen-staufen, un avvicendamento la cui drammaticità emerge emblematicamente dalla Epistola ad Petrum del cronista Ugo Falcando. Messina fu in quegli anni teatro di avvenimenti tumultuosi, che avrebbero avuto esiti significativi e duraturi all’interno della struttura demica, incidendo profondamente sulle trasformazioni della società e dei suoi orientamenti politici. Dopo la radicale decapitazione della classe dirigente di etnia greca, prodotta dall’azione di Riccardo Cuor di Leone fra il 1190 e il 1191, avvenne una vera e propria mutazione di natura culturale e antropologica. Si generò, infatti, un processo di latinizzazione del potere che avrebbe finito per stravolgere l’assetto della macchina burocratica e la composizione dei suoi quadri. Gli effetti più marcati del cambiamento si mostrarono nel rafforzamento di un nuovo ceto di maiores civium, composto da uomini di cultura e di denaro, dal quale furono tenuti lontani gli aristocratici e gruppi consistenti di mercatores. Tuttavia, come opportunamente rilevato da Enrico Pispisa, le esperienze maturate dalla Città del Faro durante l’Età sveva risentirono della sostan-ziale differenziazione degli atteggiamenti assunti di volta in volta dagli Hohenstaufen (Enrico VI, Federico II, Corrado IV e Manfredi), sebbene non venisse mai meno in seno alla società messinese la volontà di perpetrare orientamenti tracciati nei precedenti decenni e consolidare alcune conquiste acquisite sino all’Età di Guglielmo il Buono, quali la costituzione di un solido ceto amministrativo e la proiezione commerciale del proprio porto nel Mediterraneo e verso Levante. D’altra parte, che Messina, clavis Siciliae della cronaca malaterriana, continuasse in Età sveva a gravitare più verso la Calabria e i mercati mediterranei ed orientali, piuttosto che nell’entroterra siciliano, è suggerito dalla reiterata e rafforzata definizione di “clavis et custodia totius Siciliae” espressa da Saba Malaspina allo scorcio del Duecento, quando cioè la sede messinese, “quasi in centro positam” richiamava mercanti e visitatori “a diversis mundi partibus”. La centralità di Messina e la vitalità della sua composita e operosa citta-dinanza era emersa sin dalla prima età normanna, quando il Granconte “undecumque terrarum artificiosis caementariis conductis”, aveva dato avvio a un organico programma edilizio che avrebbe marcato la topografia della città e, inevitabilmente, avrebbe impresso precise connotazioni a ru-ghe e quartieri. Innanzi tutto, erano state rafforzate le strutture difensive murarie, che l’anonimo autore della Epistola ad Petrum definiva una “cerchia di mura rafforzata dalla frequente presenza di torri”; fu in seguito realizzato l’arsenale e un grande palatium, che sicuramente è il “propugnaculum im-mensae altitudinis” citato da Goffredo Malaterra ed esemplato da Pietro da Eboli. Il palazzo comitale e poi regio sorgeva, “bianco come un colomba”, di fronte al porto e sarebbe stato ampliato negli anni successivi. Nel 1096 era stata edificata, “cum turribus et diversis possessionibus”, la prima cattedrale di Messina, dedicata a San Nicolò e ubicata a poche centinaia di metri dall’attuale Duomo, sorto a sua volta alla metà del XII secolo. Presso la foce del torrente Boccetta, accanto alla sede benedettina di San Giovanni Battista e ad una casa degli Ospedalieri di San Giovanni di Gerusalemme, già dagli anni Settanta di quel secolo era operativa una “Grancia, con annesso Ospedale, dove venivano curati specificatamente i pellegrini che da Messina passavano per andare e tornare dalla Terra Santa, provenienti da tut¬ta Europa”. Un ruolo che fu pure svolto dall’Ospedale dei Templari, sorto nel 1096 presso la chiesa di S. Marco, e da quello che i Teutonici fondarono nel 1195 accanto la chiesa di S. Maria Alemanna. Questo, in sostanza, fu il principale nucleo urbano, delimitato dall’arsenale, dal quartiere detto Amalfitania e dalla loggia dei genovesi, attorno al quale si andò coagulando la vita sociale ed economica della nova urbs normanna e poi sveva. Fortemente interessati alle nuove prospettive commerciali, soprattutto quelle offerte dal traffico del grano, furono i mercanti forestieri, innanzi tutto amalfitani (ma in seguito anche veneziani, genovesi, toscani, proven-zali e catalani), richiamati da agevolazioni fiscali e commerciali entro le mura della città, dove fondarono logge e fondaci e costituirono i propri quartieri in prossimità del porto. Gli amalfitani, presenti nell’isola sin dall’813, si insediarono in un quartiere, l’Amalfitania, che si sviluppò at-torno alla ruga Amalfitanorum, ma il loro rilievo, destinato poi ad ampliarsi in età angioina, decadde alla fine del XII secolo, quando emersero più attivi operatori peninsulari, cioè genovesi, pisani e veneziani, tutti insediati più o meno stabilmente nella Città del Faro con logge e fondaci e fortemente interessati alle rotte orientali. I genovesi, che a Messina ebbero un console già nel 1169 e istituirono un flusso bilaterale continuo con l’isola dalla metà del XII secolo, avrebbero consolidato le proprie posizioni commerciali soprattutto in Età sveva, come pure gli operatori pisani, i cui rapporti con i liguri furono sempre caratterizzati da una forte rivalità. Anche i mercanti veneziani, seppure frequentatori meno assidui dello scalo peloritano, nella Seconda metà del XII secolo ebbero un fondaco in tarsianatu veteris civitatis, cioè presso l’arsenale della città vecchia, e fruirono di significative agevolazioni commerciali, soprattutto sotto il regno di Guglielmo II. Dobbiamo inoltre immaginare questi quartieri popolati da una folta schiera di commercianti, artigiani e contadini provenienti anche dalle terre calabresi, cioè i cosiddetti populares destinati, insieme alla plebs, a comporre il tessuto connettivo urbano. Messina, sotto gli svevi, rimase infatti proiettata verso la Calabria, i cui mercati entrarono tra le mire degli operatori locali e le cui terre costituirono, almeno sino al Vespro, il naturale sfogo di possidenti e piccoli feudatari peloritani, penalizzati dall’assenza nell’isola di un retroterra in grado di assicurare agiatezza economica e prestigio sociale. I rapporti commerciali con l’entroterra siciliano furono tenuti in vita dall’episcopato messinese, sede metropolitica sotto il pontificato di Alessandro III (1159-1181), che aveva allargato il proprio distretto sino a comprendere le sedi di Catania, Cefalù e Lipari-Patti, e dalla capillare penetrazione, soprattutto nel Valdemone, delle sedi basiliane, espressione, sino al 1190, di una chiara egemonia culturale di tradizione greca. Di altri operatori forestieri abbiamo sporadiche indicazioni e della loro presenza entro le mura di Messina possiamo ricavare solo qualche notizia indiretta, come nel caso degli inglesi, la cui incidenza commerciale può essere desunta dall’attestazione in Età sveva della ruga Anglicorum, mentre coloro venuti dall’isola britannica al seguito di Riccardo Cuor di Leone nel 1190 erano crociati e pellegrini in transito per la Terrasanta. La presenza di questi operatori forestieri, pertanto, contribuì ad assegnare a Messina una fisionomia particolare, la connotò cioè come una vera e propria megalopolis “per il continuo andirivieni di viaggiatori” – annotava il geografo di Ruggero II –, per la presenza di un arsenale particolarmente attivo e di un porto oltremodo vivace, «un’autentica meraviglia» dove “si raccolgono le grandi navi nonché i viaggiatori e i mercanti dei più svariati paesi latini e musulmani”. E analoga immagine emerge dalle descrizioni di Ibn Giubayr e dello pseudo Ugo Falcando, i quali, in riferimento agli ultimi anni della dominazione normanna, insistono sul cosmopolitismo e sul carattere mercantile di Messina, “meta de’ legni che solcano il mare venendo da tutte le regioni”, [dove] “il sudiciume e il fetore sono la diretta conseguenza di transazioni economiche continue e dell’ammassarsi di commercianti venuti da ogni dove”. Oggi non rimane traccia di quell’impianto urbano, sicuramente stravolto già dal violento sisma che si abbatté sulla Sicilia Orientale nel 1169, quando “apud Messanam etiam maximus et manifestus terre motus fuit”, e definitivamente cancellato dai catastrofici eventi del 1783, del 1908 e dell’ultimo conflitto mondiale. Ma tornando alle delicate fasi dell’affermazione sveva nella Città dello Stretto, Enrico VI, che in essa aveva trovato un solido sostegno alla sua azione politica, mostrò di avere “particolarmente a cuore i ceti dirigenti ed i mercanti di Messina, i quali potevano offrire un aiuto decisivo”: giunto a Messina nell’ottobre 1194, lo Svevo, attraverso una serie di provvedimenti normativi adottati tra il 1194 e il 1197, riordinò le competenze dello stratigoto e dei giudici, le cui cariche furono escluse dal meccanismo dell’appalto per divenire prerogativa regia. Allo stesso tempo intraprese un’opera di razionalizzazione amministrativa che tese a risaltare la centralità del ceto burocratico nella gestione urbana, consentendo ai gruppi amministrativi della città di assumere consistente autonomia commerciale e di emergere anche sotto il profilo economico. In questo breve lasso di tempo, giunti al seguito di Enrico VI, si insediavano a Messina gli Ospitalieri teutonici, presso la Chiesa di Santa Maria degli Alemanni. Anche la regina Costanza non fece mancare la sua protezione alla cittadinanza messinese, confermando nel 1198 le concessioni di Enrico, e proseguendo a favorire il centro peloritano anche negli anni della reggenza del giovane Federico. Intorno al 1220 l’etnia latina controllava ormai completamente i gangli amministrativi e giudiziari, il clero regolare era eminentemente benedettino e sicuramente l’isola era interessata da un flusso di francescani i quali, come afferma il vescovo di Acri Giacomo di Vitry, nel 1216 erano propagati nel Mezzogiorno e in Sicilia. Intanto il ceto mercantile, composto soprattutto da operatori forestieri, continuava a godere di notevoli esenzioni e privilegi, generando un benessere diffuso presso tutte le componenti della società. Questa felice stagione dei nuovi emergenti, tuttavia, fu di breve durata, interrotta dagli indirizzi normativi, fortemente restrittivi delle libertates mercantili e delle autonomie urbane, che Federico II aveva assunto con le assise di Messina e di Capua del 1220 e avrebbe ribadito con più vigore nelle Constitutiones melfitane del 1231. Sebbene la città mantenesse di fatto molte franchigie e, per via dell’abolizione delle zecche di Amalfi e Palermo, ricevesse, assieme a Brindisi, un notevole impulso per il suo atélier, nel giro di un decennio vide frammentato e svuotato di contenuti il proprio apparato burocratico, svilita la capacità d’azione della sua curia stratigoziale sottoposta al rigido controllo regio. Ma, soprattutto, si ritrovò privata di consistenti prerogative commerciali, che negli anni precedenti avevano garantito un benessere esteso anche ai gruppi meni abbienti della cittadinanza. Nel malcontento che tali misure alimentarono presso ampi strati della so-cietà, soprattutto in seno al ceto mercantile, sono da ricercare le cause della rivolta che nel 1232 esplose a Messina, estendendosi presto in molti centri della Sicilia Orientale, e che fu orchestrata, oltre che dal ceto mercantile, anche dagli ambienti feudali. La rivolta fu soffocata nel sangue dalla duris-sima reazione dello Staufer, che fece giustiziare il capo del moto messine-se, Martino Mallone (Bellone), insieme a molti altri, ma che non si rivolse contro il ceto burocratico, per il quale si aprivano nuove prospettive di ascesa grazie al drastico incremento degli uffici e delle connesse attività. Cominciò così ad emergere un ceto di maiores civium composto da uomini di cultura e uomini di denaro, un gruppo alquanto omogeneo di funzionari-amministratori che comprendeva anche judices, magistri, notai, portolani, secreti e, almeno a partire dal 1230, “delegati preposti alla vigilanza annonaria, stretti da giuramento alla retta esecuzione della delicata funzione, e detti perciò giurati”. In questo senso, nell’ultimo quindicennio dell’Età sveva il ceto burocratico ampliò le proprie competenze e si rafforzò, dal momento che l’assenza di controllo centrale negli anni di Manfredi e la politica largheggiante di Corrado IV in materia mercantile avevano fatto sì che i centri urbani si impadronissero “della sfera amministrativa a loro delegata dai conti e dai maggiori baroni, i quali dominavano saldamente ogni parte del Regnum, strumentalizzando a proprio vantaggio gli uffici regi”. Il baronaggio, infatti, ebbe agio di emergere solo dopo la scomparsa di Fe-derico II, sotto il cui dominio le forze nobiliari non erano state messe in condizione di esprimere le proprie velleità egemoniche, e Messina, per un breve periodo (1251-1255), fu in mano al feudatario calabrese Pietro Ruffo che, in opposizione a Manfredi e in ossequio al papato, assunse il vicariato in Sicilia e Calabria. Il contrasto tra il conte di Catanzaro e Manfredi consentì momentaneamente al ceto dei populares di emergere, sotto la guida del messinese Leonardo Aldigerio, e di tentare una singolare esperienza comunale “more civitatum Lombardiae et Tusciae”, la costituzione cioè di “una federazione di città subordinata al fascino cupo della Chiesa e alla spirale della sua logica politica, e che Bartolomeo da Neocastro, con felice espressione, chiamò repubblica di vanità”. Soffocata nel nascere dall’azione di Manfredi e avversata dalle forze feu-dali legate al sovrano, tale sperimentazione autonomistica si mostrò ambi-gua e disorganica, in ultima analisi effimera e sostanzialmente diversa dal fenomeno, apparentemente analogo, che all’indomani del Vespro avrebbe portato Messina alla costituzione di una Communitas Sicilie. La quale, pe-rò, non fu espressione dei ceti mediani e subalterni, ma fu orchestrata in modo strumentale da un compatto gruppo di milites e grandi feudatari, i quali avrebbero aperto le porte della città a Pietro III d’Aragona. Nell’Età di Manfredi, pertanto, le redini del potere economico furono nelle mani dei ceti burocratici e dei milites, ai quali è possibile accomunare proprietari terrieri e ricchi possidenti impegnati in spregiudicate transazioni immobiliari, ma soprattutto una folta schiera di cives che al potere politico aggiungevano il prestigio culturale e la cui rinomanza si sarebbe estesa ben oltre l’ambito locale, grazie all’attività del cosiddetto laboratorio messine-se. Questo si collegò alla Scuola poetica siciliana in modo originale, perché espressione delle esperienze culturali della classe burocratica e non di un vivaio di corte omologato e impersonale, ma anche perché il ceto dirigente peloritano, attraverso l’impegno di questi funzionari/poeti, si accostò “ad un patrimonio letterario che si estende alla letteratura in lingua d’oïl e ad altri apporti”. E a questo proposito, occorre rilevare come la felice stagione culturale attraversata da Messina nel XIII secolo lasciasse un’impronta profonda anche grazie all’azione della Chiesa, anch’essa espressione dei ceti emergenti, nei cui scriptoria operarono traduttori dal greco e dall’arabo di grande spessore culturale, come Bartolomeo e Stefano da Messina, e la cui produzione figurativa attinse risultati di rilievo nel panorama artistico europeo. In definitiva, possiamo affermare che, nel corso dell’Età sveva, Messina maturò una serie di esperienze attraverso i rapporti di volta in volta instau-rati con il potere regio, passando dalla breve stagione di Enrico VI ai lunghi anni della politica fridericiana. La prima Età fu caratterizzata dal rafforzamento della curia stratigoziale e da una maggiore liberalizzazione delle attività mercantili; la politica di Federico, invece, svilì il governo della città con un rigido controllo burocratico degli uffici e un drastico ridimensionamento di qualsiasi forma di autonomia amministrativa e commerciale, sia urbana che feudale. Sotto il dominio di Corrado IV e Manfredi, e nelle episodiche espressioni di forme di governo alternative, la società messinese si evolse attorno a tre poli ben definiti, cioè la Chiesa, i mercanti stranieri e il ceto burocratico, intorno al quale si muovevano gli interessi dei milites e di alcuni proprietari terrieri. L’incontro di queste forze, che produsse nell’immediato l’affermazione di un gruppo rinnovato e ancora alquanto indistinto di maiores civitatis, avrebbe dato frutti più maturi nel lungo termine e, pertanto, in questa prospettiva possiamo affermare che Messina visse in Età sveva “una serie di decisive esperienze che prepararono quel profilo di centro dominato da amministratori/affaristi, che la città avrebbe pienamente assunto nel secolo seguente”.Pubblicazioni consigliate
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