Nel vasto contesto tematico relativo al ruolo della religione nell'evoluzione politica e culturale europea è possibile collocare una struttura portante del complessivo quadro medievale del Mezzogiorno d'Italia, cronologicamente compresa tra il 1061, data d'inizio della conquista normanna e della ricristianizzazione della Sicilia islamica, e la fine del XII secolo, quando il drammatico epilogo degli Altavilla e la violenta sovrapposizione degli Hohenstaufen nel dominio del Regnum, con la progressiva scomparsa della presenza islamica e il tramonto della cultura greca, avrebbero comportato radicali trasformazioni sociali e prodotto nuovi equilibri demici1. Il 5 luglio 1098 papa Urbano II, dando concreto seguito agli accordi raggiunti con Ruggero I d'Altavilla nell'incontro di Troina del 1088, emanava da Salerno la bolla “Quia propter prudentiam tuam” con cui attribuiva al Granconte, “sicut verbum promisimus”, l'esercizio della legazia Apostolica, ovvero il diritto alle nomine episcopali in Sicilia e Calabria2. La sintetica annotazione “Papa [...] legationem beati Petri super comitem per totam Siciliam et sui juris Calabriam […] haereditaliter ponit”3, con cui Goffredo Malaterra registra la concessione, è sufficiente a mostrare come questo riconoscimento ufficiale, che sembra porsi come momento iniziale di una rinnovata stagione storica del Mezzogiorno d'Italia, fosse in realtà un atto formale che confermava una situazione di fatto già sancita da Niccolò II nel sinodo di Melfi del 10594, quando tra gli Altavilla e la Chiesa di Roma si costituì un fronte comune di azione politica e strategia religiosa destinato a perpetuarsi e rinsaldarsi. Durante il trentennio che separa lo sbarco normanno presso Messina dalla caduta di Noto, ultima roccaforte araba dell'Isola (1061-1091), Ruggero e Roberto il Guiscardo, nell'alternare operazioni belliche ad interventi intesi a definire il nuovo assetto feudale, non trascurarono una sistematica azione diretta a rafforzare l'alleanza con la Chiesa e ad assegnare concrete basi politiche al comune programma di conquista e ricristianizzazione5. La quale, occorre rilevare, nel Mezzogiorno d'Italia ebbe un percorso sincrono con la diffusione della riforma gregoriana e strumentale all'attuazione dello stesso movimento riformatore. In Sicilia, infatti, dopo cinque secoli di dominazione bizantina e musulmana, il rito latino era quasi del tutto inesistente e con i Normanni si presentava al papato l'occasione propizia per rinnovare le rivendicazioni della Chiesa Romana e per avviare la riorganizzazione del clero latino e la progressiva reintroduzione della sua giurisdizione, attraverso delicate fasi dirette alla ripresa dell'opera di riforma ecclesiastica. Una congiuntura, questa, che lascia ben intendere quanto l'azione dei Normanni in ambito ecclesiastico fosse complessa, là dove risalta che gli Altavilla furono indotti fin dal loro arrivo nel Mezzogiorno ad intrattenere con la curia pontificia rapporti che erano al tempo stesso religiosi e politici6. Ma il quadro delle relazioni tra Normanni e Chiesa assumeva proprio nell'Isola tratti assai particolari anche perché gli Altavilla, nell'accentuare il controllo sulle chiese, dovettero tenere conto del delicato equilibrio tra clero greco e gerarchia latina. Il territorio del Valdemone, in particolare, custode quasi esclusivo nell'isola della tradizione greca, costituì il banco di prova per nuove forme d'integrazione etnica e culturale. Ovvero, l'incontro tra le culture latina, greca ed araba e il superamento dei concreti problemi di convivenza delle diverse etnie comportarono la ristrutturazione dei poteri locali e l'impianto della nuova società, basata inizialmente sulla coesione di espressioni diversificate anche sotto il profilo linguistico e religioso. Quando la spedizione normanna guidata dal conte Ruggero si diresse verso l'interno dell'isola e puntò su Troina, dove avrebbe stabilito la propria capitale, trovò una situazione demica che vedeva fortemente rappresentata sul territorio la popolazione greca, quei bizantini “veteres (qui) sub Sarracenis tributari erant”7, come riporta la cronistica ufficiale, e che avevano concentrato i propri insediamenti tra le Madonie ed i Nebrodi: da un lato verso Troina (con Cerami, Capizzi, Agira) fino a Centuripe, Adernò, Paternò, dall'altro all'interno del futuro episcopio di Cefalù, da Mistretta (con Geraci, Petralia, Polizzi) fino a Caltavuturo8. Il dato è senz'altro indicativo giacché, prima che l'islamismo introdotto con l'invasione araba dell'827 ne sconvolgesse la gerarchia, il clero siciliano partecipava attivamente alle vicende del patriarcato bizantino e la sopravvivenza del monachesimo greco nell'isola, dopo due secoli di emirato, sarebbe da attribuire in misura rilevante al grado di efficienza amministrativa raggiunto sotto il governo dei basileis ed al serrato collegamento tra la dimensione religiosa, quella sociale e l'azione politica9. La persistenza del monachesimo bizantino nel Valdemone sembrerebbe peraltro confermata dal massiccio trasferimento di comunità monastiche dalla Sicilia in Calabria, che si verificò in seguito alla conquista araba, e che nei decenni successivi avrebbe invertito la rotta tornando a popolare molte comunità dell'Isola. D'altra parte, come sostenuto in occasione di un convegno tenuto nel 2007 presso la Facoltà di Lettere di Messina sul tema Comunicazione e propaganda nei secoli XII e XIII, la stessa demonizzazione dei musulmani è in parte da ricondurre ad un cliché storiografico alimentato dal proselitismo politico e religioso della conquista, sistematicamente presente anche nelle concessioni e nei diplomi prodotti e diffusi dalla Chiesa siciliana, oltre che nella produzione cronistica di quegli anni10. Si tornerà a parlare diffusamente in merito alla propaganda della conquista normanna contenuta nella cronistica e nelle fonti documentarie, ma per meglio inquadrare le fasi della cristianizzazione e latinizzazione della Sicilia, in particolare del Valdemone, è opportuno ripercorrere in rapida sintesi la vicenda religiosa dell'isola nei secoli altomedievali, quando il marcato diradamento della presenza cristiana, romana soprattutto, avrebbe prodotto una lacuna che allo scorcio del X secolo appariva di preoccupante ampiezza. Un disappunto che si coglie in alcuni passi della Ystoire de li Normant di Amato di Montecassino11 ed in espliciti riferimenti della cronaca malaterriana12, ma si evince anche da significativi interventi di normalizzazione demica attuati tra XI e XII secolo dai primi abati benedettini e agostiniani, come i due Constituta (1095-1101) di Ambrogio per il ripopolamento delle possessiones di Lipari e Patti con “gentes linguae latinae”13 e la serie di Constitutiones promulgate nel marzo 1133 dall'abate/vescovo Giovanni de Pergana per incrementare gli homines dell'arcipelago14. Gregorio di Tours tramanda che, verso il 574, Gregorio Magno, per accogliere stabilmente i numerosi monaci dell'Italia centro-meridionale in fuga dal dominio longobardo, “in rebus propriis sex in Sicilia monasteria congregavit”15. Tra VI e VII secolo, in effetti, innalzare e dotare chiese rurali e cenobi nelle terre che occorreva popolare fu pratica largamente diffusa in seno agli ambienti dei più influenti e munifici terrerii, solleciti all'affermazione del proprio casato. In Sicilia, pertanto, non si sarebbe registrato il crollo delle strutture episcopali che, a cavallo dei due secoli, si era abbattuto sul Mezzogiorno peninsulare, e il monachesimo pare fosse di rito esclusivamente latino e di matrice benedettina. Nella seconda metà del VII secolo, tuttavia, è documentato un incipiente processo di ellenizzazione delle comunità monastiche che s'innestò sopra il persistente sostrato culturale bizantino, sedimentato tra V e VI secolo e alimentato dal flusso costante di monaci provenienti da Bisanzio16. Il fenomeno può essere collegato al trasferimento nel 663 della corte dell'imperatore Costante II (641-668) a Siracusa17 e al vasto flusso migratorio greco che, dalla prima metà di quel secolo, dalla Siria e dall'Egitto si era riversato pure nell'isola, alimentato sia da monaci iconoduli in fuga dalle persecuzioni degli imperatori iconoclasti, sia da profughi melchiti dispersi dopo il 614 dai persiani sassanidi di Cosroe II e, in seguito, dallo stesso basileus Eraclio, padre di Costante. Tra la fine del VII e l'inizio dell'VIII secolo, pertanto, il latinismo dell'isola si era stemperato nella progressiva ellenizzazione, dissolvendosi significativamente dopo il pontificato di Gregorio II (715-731), quando la Chiesa di Roma prendeva posizione contro l'iconoclastia, imposta nel 726 da Leone III Isaurico (716-741), e si assicurava l'appoggio dei Franchi, accelerando in Sicilia l'affermazione della giurisdizione bizantina su quella romana ed il passaggio dell'episcopato latino nell'orbita del patriarca di Costantinopoli18. Purtroppo, le fonti sul monachesimo siciliano del IX e X secolo sono di sconfortante esiguità e dalla rara documentazione attendibile è possibile cogliere solo qualche notizia frammentaria e generica, solitamente riferita al Valdemone, come quella secondo cui l'imperatore Niceforo Foca (802-811) avrebbe utilizzato Lipari come terra di confino per i monaci riottosi nei confronti del fiscalismo regio19. In definitiva, le vicende del monachesimo siciliano furono caratterizzate da un flusso migratorio verso la penisola che si mantenne costante sino alla metà del X secolo, sebbene molti asceti rimanessero nell'isola. Ma, nei decenni che seguirono, un clima di tolleranza sarebbe subentrato nei rapporti tra i dominatori musulmani e i monaci rimasti entro il territorio insulare, contro i quali non pare si verificasse alcuna persecuzione sistematica20. In questo campo di ricerca, la ricca letteratura storica e alcune fonti cronistiche si mostrano di sostanziale utilità, ma specifici fondi documentari, come quello contenuto presso l'Archivio Capitolare di Patti ed il Rollus Rubeus del vescovato di Cefalù21, costituiscono un insieme di dati fondamentali per acquisire una chiave di lettura strutturale del complessivo disegno di conquista normanno, rappresentando una chiara spia dei processi di insediamento ed integrazione, delle fasi di trasformazione demica e religiosa, dei fluidi rapporti politici, dei nuovi usi feudali e delle variegate signorie di banno. Per quanto concerne la gestione del patrimonio rurale della Chiesa, un documento significativo è costituito da una “collecta villanorum episcopatus cephaludensis”, inserita in coda ad una concessione di Alessandro II al vescovo Bosone, emanata a Benevento nel dicembre 1169, dove è elencato un gran numero di villani musulmani (86) con le rispettive rendite “in angariis et collectis” espresse in tarì, ovvero “sexcentos triginta de villanis exteros” oltre a quelli “civitatensibus qui fuerunt tria milia octuaginta octo” e “pro quibus […] compensati sunt iudei ut ibi dicitur”22. Altrettanto indicativo il contenuto della Platea antiqua bonorum Ecclesiae Pactensis23, al cui interno un lungo elenco tramanda i nomi dei 344 villani posseduti dalla chiesa pattese nelle terre che ne componevano il territorio: Naso, Fitalia, Panagia e Librizzi. Risulta confermata, in questo consistente ambito del Valdemone, una pur modesta presenza saracena (solo 53 nomi arabi) tra la popolazione assoggettata, di fronte alla preponderante consistenza demica dei greci, che sono 291, equamente suddivisi tra le terre di Naso (102), Fitalia (61), Panagia (69) e Librizzi (59). Dall'antico Rollus di Patti, utile sotto il profilo demografico, è possibile desumere una precisa stima della rendita prodotta in natura ed in solidum dai βsλλανοι: gli oltre cento rustici greci di Naso fruttavano 260 salme di frumento; gli uomini di Fitalia, al pari di quelli residenti a Panagia, apportavano 321 tarì, 50 salme di frumento “et enim tenebatur quinquaginta in totidem ordei”; i circa sessanta villani librizzesi, infine, rendevano alla chiesa di Patti 256 tarì24. La presenza di laboratores greci continua a essere registrata nei decenni successivi in diversi atti di assegnazione di casalia e tenimenta, come quello vergato in lingua greca e araba da Ruggero II nell'aprile 1132, relativo al casale di Rachalzufar (presso Nicosia) con adscripti trentacinque homines25. Tuttavia, sino allo scorcio del XII secolo, una significativa presenza dell'etnia greca è attestata ai livelli più elevati della società, impegnata spesso nella gestione del patrimonio ecclesiastico, come quello pattese, al cui servizio negli anni Quaranta troviamo notai e ufficiali greci a Naso, Fitalia e in altri centri del Valdemone26. Ma costituita pure da proprietari terrieri qualificati come milites a Caccamo27 e in Val di Milazzo,28 stratigoti e vicecomites, anche in centri di forte impronta culturale islamica del Val di Mazara,29 come l'ammiraglio Giorgio, “vicecomes et stratigotus Jatinae”30. Inoltre, la frequente simultaneità di stratigoti e vicecomites, rispettivamente magistrati della popolazione greca e di quella latina31, cioè dei franco- normanni e lombardi, registrata a Patti tra il 1130 ed il 113332 e ancora nel 118833, attesterebbe un tessuto sociale misto, in cui la popolazione greca avrebbe avuto agio di emergere sotto il profilo qualitativo. E pure la nutrita documentazione capitolare in lingua greca e la presenza di burgenses e notai di chiara origine bizantina che ancora nel XIV e XV secolo operavano anche in qualità di traduttori, come i membri della famiglia Proto presenti in numerosi atti34, indicherebbero un persistente inserimento dell'elemento di cultura ellenica nel tessuto demico del Valdemone35. Soprattutto nelle terre ubicate citra flumen Salsum, in definitiva, si definisce un microcosmo al cui interno si riflettono le scelte adottate in seno ai vertici del potere laico ed ecclesiastico, ma dove peraltro si realizza una sorta di sperimentazione economica e demografica sul territorio, cioè una riorganizzazione della società rurale e urbana, sia monastica sia laica, come modello produttivo cui si sarebbe dovuto uniformare il Mezzogiorno normanno dopo l'unificazione regia del 1130. L'opera di ricristianizzazione, pertanto, fu condotta attraverso il regolare ricorso a congregazioni e gruppi identitari di professione cattolica e ortodossa sopravvissuti all'azione degli emiri (827-1061)36, lasciando emergere la forte impronta culturale greca impressa soprattutto nel Valdemone, dove Ruggero I, nell'arco di appena un ventennio, significativamente avrebbe eretto e rifondato diverse sedi benedettine (Lipari, Catania, Patti e Santa Maria de Scalis) e al contempo circa venti monasteri greci37, deputati al controllo politico ed economico del territorio, ma depositari e garanti al tempo stesso di un importante settore culturale del tutto assente o in pieno declino nel resto dell'isola38. La stessa elevazione successiva dei vescovati di Lipari-Patti e di Cefalù nel 1131, da parte di Anacleto II, pare incoraggiasse tale politica di salvaguardia, per così dire inclusiva, dell'elemento greco nel tessuto religioso, ma pure culturale, e certamente nel quadro demico degli insediamenti rurali. Da una parte si sarebbe registrata una cospicua presenza greca nelle terre diocesane di Patti, dall'altra l'antipapa dotò il vescovado di Cefalù di un controllo di fatto sulla fondazione agostiniana di Bagnara Calabra, da cui proveniva il primo vescovo Jocelmo, ma che soprattutto fu un focolaio di elementi grecofoni, in grado di mediare tra le due professioni cristiane e ambo le espressioni culturali39. Grazie alla rinascita dell'ellenismo registrata in quegli anni e all'orientamento scientifico che la vita di corte mantenne vivo sino all'età di Guglielmo II, la cultura bizantina riuscì a trovare consistenti canali d'irradiazione verso l'Occidente, contribuendo ad affidare parte del patrimonio classico all'Umanesimo40. Basti ricordare il ruolo politico e il peso culturale dell'ammiraglio-notaio Eugenio, poeta e traduttore, del logoteta Leone e del camerario Nicola, di Enrico Aristippo e Maione di Bari41. Peraltro, sebbene la presenza greca nella trama regia venisse limitata a specifici ambiti burocratici, prevalentemente ai vertici dell'ammiragliato e del notariato, dove tra gli altri emergono gli Admirati et Regi Notari Eugenio, Teodoro, Cristodulo e Giorgio d'Antiochia, molte carte vescovili attestano al livello sociale mediano, composto da milites, funzionari locali e piccoli proprietari, la presenza di numerosi greci accanto ai normanni insediati stabilmente. In molte carte ecclesiastiche dell'isola, infatti, la consistente presenza dell'etnia greca attesta un ruolo sicuramente pregnante sotto il profilo numerico e qualitativo di questa minoranza all'interno delle gestione dei vescovati, come quelli di Cefalù e Lipari-Patti, al cui servizio troviamo notai e ufficiali greci attivi a Naso, Fitalia ed altri centri del Valdemone negli anni Quaranta del XII secolo42, proprietari terrieri qualificati come milites a Caccamo43, stratigoti e vicecomites anche in centri di forte impronta culturale islamica del Val di Mazara44. Per quanto riguarda le strategie dell'insediamento rurale, come si è detto, il popolamento delle campagne rispose a una politica di normalizzazione demica che dovette tenere conto della preponderanza islamica e, soprattutto nell'Isola al di qua del Salso, della radicata e diffusa presenza della chiesa greca. I due vescovati di Lipari-Patti e Cefalù, elevati nel 1131 all'interno dell'arcidiocesi di Messina, avrebbero seguito esperienze per molti versi assimilabili e riconducibili a un'azione programmatica degli Altavilla che, soprattutto nei primi decenni del loro dominio, si mostrarono ben disposti verso il clero bizantino e tolleranti nei confronti della popolazione musulmana. La presenza in alcune platee di famiglie islamiche in condizione villanale, residenti nei casali vescovili sia di Cefalù sia di Patti, è eloquente testimonianza della diffusa presenza di tale gruppo demico in quasi tutte le terre del Valdemone, dove comunque appare bilanciata da nuclei di lingua e cultura greca, più significativi che altrove procedendo verso levante. Non è un caso, pertanto, che proprio al Val di Demenna si colleghino due personalità d'intellettuali locali di etnia greca, quali l'oscuro grammatico Leone di Centuripe e l'eloquente omileta Filagato da Cerami, che tra XI e XII secolo espressero una produzione originale, destinata a suscitare vasta eco oltre confine45. Come ampiamente documentato da Bianca Maria Foti, la localizzazione in Sicilia dell'attività di Leone e la qualifica di ypαµµατιkοç, assimilabile a quella di professore di scuola secondaria, consente di documentare una categoria culturale la cui presenza nel contesto era stata, finora, solo postulata46. La statura intellettuale di Filippo Filagato di Cerami, ϕιλοσοϕοç, esegeta ed oratore di grande fama, emerse non solo rispetto al limitato ed appartato contesto provinciale, ma anche nei confronti della ‘Metropoli’, dove sarà recepito un ramo peculiare della tradizione omiletica. Spostando il discorso sul piano della produzione di manoscritti, l'unica testimonianza certa di un'attività di copia in Sicilia prima del SS. Salvatore di Messina (agli inizi del XII secolo)47, si riferisce ancora al Valdemone, precisamente a San Filippo τοv Msλιτvpοv (o τον ∆sµsννον, poi detto di Fragalà), il più grande monastero greco attivo ancora in età normanna e principale centro propulsore della rinascita basiliana nell'isola, di cui ci resta non solo un ricco tabulario, ma anche il testamento spirituale dell'abate Gregorio, rifondatore del cenobio alla fine dell'XI secolo48, la cui testimonianza attesta la persistenza di pur limitate strutture monastiche greche nella Sicilia musulmana e la loro ripresa negli anni della contea. La sede di Fragalà raggiunse l'apice della prosperità negli anni di reggenza della contessa Adelasia, quando a vantaggio del kαθηyοvµsνοç Gregorio affluirono ricche donazioni sia per intervento diretto della reggente e dei suoi collaboratori di origine greca (il notaio-ammiraglio Eugenio, il logoteta Leone, il camerario Nicola), come pure da parte di vari feudatari normanni, quali Aleazar Mallabret, signore di Galati, ed i fratelli Matteo e Ugo di Craon, che dominavano Mistretta. Il fatto che nel 1105 dipendessero dal monastero numerosi metochi49, testimonia l'ampiezza della valorizzazione del territorio perseguita dal nucleo basiliano a partire dagli anni dell'abate Gregorio, grazie al forte impulso in tal senso impresso dalla politica economico-religiosa dei primi Normanni. Ma è nel campo della tradizione culturale, soprattutto in quello della produzione manoscritta, che il cenobio acquista risalto, grazie anche all'attività dell'omileta Leonzio di Fragalà. Tra le sedi basiliane risorte per impulso del primo Ruggero e ampiamente dotate dai maggiori feudatari normanni figurano inoltre San Filippo Maggiore (d'Argirò), fondato intorno al 1100; San Nicolò de Fico, presso Raccuia, a quanto pare eretto da Ruggero nel 1091; Santa Maria de Gala, presso Castroreale, voluto dal Granconte, ultimato nel 1105 da Adelasia e confermato da Ruggero II; San Pancrazio a San Fratello, dotato dal primo Altavilla e poi rifondato da Ruggero II nel 1134; Santa Marina de Mallimachi, prope Castaniam e Santa Maria grecorum o de Lacu, non lontani da Naso. Proprio durante questi primi decenni, come già accennato, le accresciute esigenze insediative di queste sedi innescarono una dinamica nuova e destinata a ripetersi, cioè il popolamento dei centri monastici italo-greci di nuova fondazione con monaci reclutati nella vicina Calabria, che era rimasta la zona più fortemente bizantinizzata nel periodo in cui la Sicilia aveva subito l'invasione islamica50. Una scelta, questa, dettata non solo dalla necessità di reclutare esponenti dell'etnia greca, ma anche di procacciare manodopera specializzata per le attività di copia e di traduzione. Interessante in questo senso la presenza a Troina, nel 1124, del calligrafo Leone di Reggio, la cui attività rimanda ad un ambiente monastico e la cui scrittura, prendendo le mosse dalla Perlschrift costantinopolitana, si lascia influenzare dalla tipicità grafica precipua della Calabria del nord, definita rossanese, e si orienta allo stesso tempo verso la stilizzazione che verrà indicata come scrittura di Reggio51. Ma pure sotto il profilo dell'evoluzione linguistica e delle trasformazioni demiche legate a meccanismi politici ed esigenze amministrative, appare significativo un manoscritto del monastero di San Michele di Troina, il più antico dei cenobi fondati in loco dal conte Ruggero, attribuibile al primo decennio del XII secolo, ceduto poi al notaio-ammiraglio Eugenio e giuridicamente immune dall'Archimandritato peloritano52. Si tratta di un codice trilingue (greco, latino ed arabo) che, innanzi tutto, conferma la piena convivenza di un pubblico aduso a linguaggi e schemi culturali diversi, ma soprattutto, essendo corredato di molte annotazioni marginali, potrebbe essere stato usato come propedeutico all'insegnamento di uno dei tre idiomi, il che sarebbe chiaro segno di un multilinguismo partecipe e di un interesse verso culture e professioni di fede diverse tenuto vivo dall'azione della Chiesa. Singolare appare, infine, la presenza di un'annotazione volgare in caratteri greci a margine del testo latino, che è vergato in una chiara e ariosa scrittura siciliana pre-gotica53. La nota, riferibile agli anni della dominazione aragonese in Sicilia e del papato avignonese, evoca idealmente una trasformazione culturale che si era già prodotta allo scorcio del XIII secolo, quando dall'espressione grafica ormai destrutturata del copista Paolo Corinzio si coglieva il declino della grecità dell'Italia meridionale, ormai soffocata dalla preponderante latinizzazione. Ed anche il supporto di cui Paolo si serve, cioè un palinsesto, denota una situazione economica ormai precaria, ben lontana dalla floridezza che aveva caratterizzato i monasteri italo-greci nel XII secolo. In questo senso, quel recupero mediante attività versoria delle più care tradizioni italo-greche alle nuove strutture culturali latine, che si registra nei primissimi anni del XIV secolo nella Sicilia nord-orientale, può essere letto come un'ultima significativa e per certi versi commovente testimonianza54. Sebbene i Normanni avessero realizzato un equilibrio fondamentale per il controllo politico del territorio e il suo sviluppo economico e demografico sostanzialmente attraverso il sostegno concesso al clero greco, con il passare degli anni il rafforzamento della dinastia si sarebbe basato sempre più sulla crescita del clero e dell'etnia latina, anche nella parte orientale dell'isola, mostrando come il giuramento prestato nel 1059 a Melfi, con cui gli Altavilla si erano impegnati alla promozione ed alla salvaguardia degli interessi della Chiesa cattolica, costituisse il cardine attorno al quale si muoveva la politica del tempo. Dopo il consolidamento normanno, con la fondazione nel 1130 del regnum Siciliae, si sarebbe quindi registrato un crescente declino della cultura italo- greca ed un incremento del flusso di monaci latini (agostiniani, certosini, cistercensi e cluniacensi), soprattutto attraverso le fondazioni sorte precocemente in Calabria, come a Santa Eufemia e Mileto, che furono propulsori nel XII secolo di una cultura alimentata direttamente dai centri monastici cluniacensi d'Oltralpe e diffusa pure, nella temperie della riforma gregoriana e della lotta per le investiture, presso gli ambienti della Curia pontificia55. Altre fondazioni monastiche volute in Calabria da Ruggero I, vivai fecondi di propaganda filo-normanna nell'isola, furono la sede agostiniana di Santa Maria di Bagnara (1084), che avrebbe colonizzato con elementi transalpini la prioria di Santa Lucia di Noto e la cattedrale di Cefalù; la fondazione certosina di San Bruno di Colonia (1091 sgg.) e quella cistercense di San Nicola di Filocastro, fondata nel 1140 da cluniacensi provenienti da Clairvaux56. L'immigrazione fu alimentata pure dai clerici e dagli homines residenti nelle fondazioni che i Benedettini di Patti possedevano nel ducato calabrese sin dai primi anni di governo del Granconte, cioè le chiese di Santa Venera di Mileto, San Nicolò de Juga, Sant'Angelo di Genitocastro, San Nicolò de Saltu a Stilo, e le terre di San Nicolò de Aligisto, San Pantaleo e de Pileriis57. Mentre quindi la cultura bizantina si stemperava nella progressiva latinizzazione, prendeva corpo un nuovo orientamento culturale in cui larga parte avrebbe avuto la Chiesa romana riformata. Anche attraverso gli stessi canali strutturati in Calabria, la latinizzazione dell'isola fu gradualmente rinvigorita da cospicue immigrazioni di Lombardi, la cui presenza sin dai primi decenni del XII secolo è ampiamente documentata in centri come San Piero Patti, Librizzi, Santa Lucia di Milazzo, San Fratello, Piazza, Butera, Randazzo, Vicari, Nicosia, e in seguito dai nuovi flussi migratori dell'età fridericiana intesi a popolare anche molte terre del Val di Mazara, come Corleone58, ma pure dall'arrivo sempre più massiccio di mercanti amalfitani, genovesi e veneziani, che attraverso le rotte del Mediterraneo veicolavano mercanzie e idee59. Che le abbazie latine dell'isola, opportunamente definite ‘chiese di frontiera’60, incoraggiassero le immigrazioni di Lombardi nelle proprie sedi è un fatto noto che ripropone, in una prospettiva locale, quanto rilevato in senso ampio dallo storico del diritto Francesco Brandileone in un saggio della fine dell'Ottocento, dove afferma che “gli ordini religiosi occidentali […] intraprendono e compiono la nuova latinizzazione”61. Proprio questa puntuale affermazione dello storico del diritto salernitano suggerisce qui di trattare un altro aspetto della conquista normanna della Sicilia, cui si è prima accennato, quello relativo alla propaganda anti-islamica degli Altavilla. Veicolata da precisi modelli letterari, utilizzati dalla cronistica ufficiale con una sorprendente flessibilità in cui temi religiosi ed ecclesiologici si legavano alla politica, questi vennero proposti strumentalmente anche nella produzione documentaria di diverse sedi episcopali ed abbaziali (Messina, Catania, Lipari-Patti, Cefalù), mostrandosi eccezionale strumento di rielaborazione e trasmissione più capillare e diffusa di precisi messaggi ideologici62. I discendenti di Tancredi, indubbiamente, cercarono di far dimenticare l'origine illegittima del loro potere, soprattutto mediante il patrocinio della costruzione o ricostruzione di chiese e cenobi e, come sostiene Paolo Delogu, “la committenza degli Altavilla […] mirò essenzialmente a celebrare le imprese e la memoria delle grandi figure della famiglia, in modo da qualificarne la fisionomia ideale e creare una tradizione politica”63. Opera architettonica di sicuro impatto visivo fu il “propugnaculum immensae altitudinis” citato da Goffredo Malaterra ed esemplato da Pietro da Eboli64, cioè il Palatium comitale e poi regio di Messina, “bianco come una colomba” nella descrizione di Ibn Giubayr65, che Ruggero, “undecumque terrarum artificiosis caementariis conductis, mirifico opere consummavit”66. Inoltre, probabilmente nel 1096, veniva edificata, “cum turribus et diversis possessionibus”, la prima cattedrale di Messina, dedicata a San Nicolò e ubicata a poche centinaia di metri dall'attuale duomo sorto alla metà del XII secolo67. La pittura è forse uno dei media meno sfruttati dal Granconte per veicolare la propria propaganda politica e resta difficile, pertanto, una ricostruzione precisa della committenza dell'Altavilla in questo campo. Vi è, però, un'eccezione importante: Ruggero I esaltò la propria azione politica facendo dipingere sulle pareti della chiesa di Santa Maria di Ravanusa la memoranda impresa contro i Musulmani. Il ciclo, che comprendeva l'assedio di Ruggero della fortezza musulmana sul Monte Saraceno, è andato perduto, ma potrebbe essere considerato nella sua testimonianza indiretta una sorta di corrispettivo mediterraneo dell'Arazzo di Bayeux e una significativa rappresentazione, sul versante figurativo, dell'epos narrato in cronaca da Goffredo Malaterra, benedettino proveniente dal cenobio normanno di Saint-Evroul che era un vivaio cluniacense di monaci colti ed esperti negli affari di questo mondo, come Orderico Vitale e Roberto di Grantmesnil68. Ricordiamo come proprio quest'ultimo, in perfetta sintonia con gli ideali riformistici e gli schemi cluniacensi, fosse stato fondatore e anima della sede calabrese di Sant'Eufemia, vivaio a sua volta della successiva immigrazione monastica nell'isola, e fosse l'esecutore della committenza artistico-monumentale del Granconte condotta in chiave antimusulmana. Tra i cronisti che hanno dedicato spazio all'impresa normanna, Amato di Montecassino tratta piuttosto le vicende del Mezzogiorno peninsulare ed a proposito della conquista dell'isola riferisce come Roberto fosse in procinto di muovere guerra ai “Sarrazin, liquel occioient li Chrestien molt fortement” quando, come un segno dal Cielo, si presentò al suo cospetto un “amiral, un qui se clamoit Vultumine” (Ibn-at-Thumna) a chiedere aiuto contro l'emiro palermitano69. Il monaco cassinese aggiunge qualche particolare sulla conquista di Messina ad opera del Guiscardo, sostenuto da Guglielmo Bracciodiferro e “de ses chevaliers”, i quali “ont combatu à la cité et ont vainchut lo chastel de li Sarrazin”. Ma la sua narrazione non mostra di volere esaltare l'impresa dei conquistatori, e lascia evincere piuttosto come il controllo della Città dello Stretto da parte dei musulmani fosse blando, anche alla luce del fatto che “la cité estoit vacante des homes liquel i habitoient avant”70. La tesi del desolante stato di abbandono e immobilismo socioeconomico, che avrebbe denotato Messina già negli ultimi decenni dell'emirato, ha suscitato qualche perplessità in studiosi che, evidentemente, non hanno tenuto pienamente conto della tendenza celebrativa insita nella cronaca del monaco cassinese, della propensione all'esagerazione di Goffredo Malaterra e della conclamata inattendibilità della Breve istoria della liberazione di Messina, chiaramente falsa, protesa alla celebrazione del sentito patriottismo dei tre nobili cittadini (Ansaldo de Pactis, Niccolò Mamulio e Giacomo Saccano) per tradizione eroici fautori della congiura antimusulmana71. Peraltro, la rapidità della conquista normanna del Valdemone, attribuita con intenti celebrativi esclusivamente al partecipe sostegno che gli Altavilla trovarono da parte della popolazione cristiana, non escluderebbe l'ipotesi di una situazione demica analoga a quella descritta per Messina da Amato di Montecassino.72 Nella cronaca di Alessandro di Telese non vi è alcun riferimento alla crociata antimusulmana, o per meglio dire, la presenza stessa degli infedeli nell'isola e gli oltre due secoli di emirato sono ignorati, una vera e propria censura che idealmente creava un collegamento diretto tra il dominio territoriale di Ruggero II ad un vago regnum con sede “Panhormus Sicilie metropolis”73. Sembrerebbe troppo casuale questa sorta di damnatio silentii per nonsuggerire un suo inquadramento come propaganda, come espressa intenzione di demolire la memoria stessa dei musulmani siciliani con l'arma del silenzio. Ruggero I, intorno al 1098, non a caso scelse come suo cronista ufficiale un benedettino proveniente dal cenobio normanno di Saint-Evroul-sur-Ouche, incaricando Malaterra di narrare “plano sermone et facili ad intelligendum” le vicende della sua crociata, perché i posteri sapessero “quam laboriose et cum quanta angustia a profunda paupertate ad summum culmen divitiarum, vel honoris attigerit”74. Il cronista, nella lettera con la quale dedica all'abate e vescovo di Catania Ansgerius la sua opera75, ne espone gli intenti, tra cui risalta quello di glorificare le gesta dell'Altavilla sino al momento in cui, il 5 luglio 1098, Urbano II “non intese il lui premiare, con la concessione dell’Apostolica legazia in Sicilia, gli sforzi tenacemente compiuti nel debellare gli infedeli dell’isola”76. Il risalto dato da Malaterra a quest'atto, come ha osservato Erich Caspar, risiede nel fatto che esso, oltre a stendere un velo opportuno su parecchi arbitrii di Ruggero in tema di giurisdizione ecclesiastica, riconosce in maniera ufficiale i meriti della crociata antimusulmana del Granconte a beneficio della fede in Cristo e della sua Chiesa77. Una santa impresa, quindi, richiamata in più occasioni dal cronista, alla stregua di un cliché, all'interno di uno schema provvidenziale dai marcati tratti epico- cavallereschi. Solo il De rebus gestis di Malaterra, in definitiva, offre un quadro dettagliato della conquista e del consolidamento normanno in Sicilia, chiariti attraverso un'esposizione in chiave eroica delle vicende di Ruggero d'Altavilla, intorno al quale si connette la trama della narrazione, che si snoda durante un cinquantennio ed è suddivisa in quattro libri. Alcuni passi molto pregnanti del secondo libro descrivono con notevole efficacia espressiva la cacciata dei musulmani dalla punta settentrionale del Valdemone sino alla resa delle terre attorno a Troina e Castrogiovanni, fra il 1061 ed il 1064, in seguito alla battaglia di Cerami78. La cronaca di Goffredo Malaterra costituisce in questo senso un topos per quella tradizione antimusulmana ancora viva nella cultura diffusa del Valdemone tra Medioevo ed Età moderna, come si coglie in diverse espressioni iconografiche, ma soprattutto in molte carte ecclesiastiche e nella diffusione, tra Quattro e Cinquecento, della narrazione malaterriana presso tutti gli ambienti dell'isola. A qualche decennio dalla sua composizione, il De rebus gestis si diffuse per i monasteri benedettini, dove il libellus si presentò come l'unica narrazione del lungo travaglio dei liberatori per la redenzione dell'isola dagli infedeli. Poiché, come sostiene Ernesto Pontieri, “redenzione parve la distruzione del dominio musulmano nella Sicilia, avvenuta perdippiù nel secolo delle Crociate”79. E forse più per evocare il ricordo di quella redenzione che per renderla meglio accessibile al vulgus, frate Simone da Lentini nel Trecento tradusse in volgare siciliano i passi dell'opera relativi alla Conquesta de Sicilia, giacché lo scritto del Malaterra gli parve “in gramatica scrabulosa et grossa et mali si poti intendere”80. Sebbene la valenza storiografica di questa sintesi vernacolare sia assai limitata, come anche quella della traduzione in latino che di essa volle fare Francesco Maurolico nel 153781, entrambi i lavori sono chiare spie di come, a distanza di secoli, i fatti narrati da Malaterra destassero vivo interesse ed evocassero forme e concetti mai sopiti. Ed è chiaro che il compimento della conquista, romanzata e propagandata attraverso immagini di sfavillanti vittorie ad ogni cozzo d'armi contro i musulmani, sia apparso “di poema degnissimo e di storia” a chi, come Michele Catalano, nella cronaca scorge “un embrione epico-leggendario-religioso, che in altre circostanze storiche avrebbe dato origine ad una vera e propria epopea normanno-sicula”82. Tanto più efficace risultò il messaggio di Malaterra, in quanto le imprese prodigiose dei Normanni riecheggiavano in ambiente pontificio e avevano suscitato stupore in Amato di Montecassino e Guglielmo di Puglia, senza contare che spunti di ammirazione per l'eroismo da loro mostrato nelle terre del Valdemone durante le prime fasi della conquista echeggiavano persino nell'Alexiade di Anna Comnena ed in alcune fonti arabe83. In tutti gli ambienti della contea era diffuso il mito del divino patrocinio goduto dai Normanni, e Goffredo supera le frequenti iperboli della sua narrazione lasciandosi sedurre dalla convinzione che solo l'intervento del sovrannaturale contro gli infedeli avesse determinato eventi miracolosi (come lo scampato naufragio del Granconte nelle acque dello Stretto), e successi bellici come quello di Cerami, risaltato con toni epici che risuonano, qui più che altrove, come vera e propria propaganda antimusulmana della conquista normanna del Valdemone84. La giornata campale di Cerami, accanto a quelle di Misilmeri e Castrogiovanni, rappresenta uno dei momenti cruciali della conquista normanna del Valdemone. Cerami è celebrata come una nuova Poitiers e l'immagine del Granconte si accosta idealmente a quella di Carlo Martello, ma il potere evocativo della sua celebrazione non si limita a questo implicito riferimento. Il cronista introduce il lettore alla battaglia esaltando l'esuberanza numerica degli infideles (più di tremila), riferisce l'appello del Granconte al sostegno divino nell'atto di incitare l'esiguo drappello dei suoi milites (appena trentasei), si richiama alla figura biblica di Gedeone e, infine, descrive l'apparizione in campo di San Giorgio che, “splendidus in armis et equo albo insidens”85, irrompe tra le schiere nemiche tenendo alto il vessillo dell'Altavilla insieme alla Croce di Cristo ed evoca così l'immagine, ricorrente nelle cronache della prima Crociata, del Santo cavaliere che trafigge il drago86. L'eco di questa vittoria fu vasta e non è un caso che, in seguito a essa, Alessandro II concedesse “l’indulgenza plenaria a tutti coloro che avevano lì combattuto o avessero in avvenire preso le armi contro gli infedeli di Sicilia”87. D'altra parte, la cultura di Malaterra è di esclusiva formazione ecclesiastica, sicché parecchie rappresentazioni cariche di drammaticità ed espressioni ricorrenti (come fortiter agendo, plures sternit, reliquos fugat, victor efficitur), che egli adopera per esaltare l'immagine di Ruggero, ripropongono aforismi e passi del Vecchio e del Nuovo Testamento ed evocano piuttosto le imprese dei paladini di Francia, senza quindi rifarsi, se non in modo estremamente vago ed occasionale, a mitiche figure di condottieri dell'antichità. In questo senso appare emblematica la trasposizione in chiave provvidenziale, nell'opera malaterriana, dei modelli etici del ciclo Carolingio e di quello Bretone, attinta dalla successiva tradizione letteraria aulica e popolare, a cominciare dalla cronaca di Simone da Lentini sino alla diffusione dell'Opera dei Pupi88. Da parte loro, i contenuti encomiastici di molti atti ecclesiastici dell'isola e le vigorose autocelebrazioni che il Granconte profondeva e per loro tramite diffondeva nei diplomi di donazione e conferme a favore di chiese e monasteri, dimostrano con chiarezza come la politica delle corti normanne poggiasse sull'attività culturale di propaganda affidata a episcopi e abbazie, nel momento in cui l'arretratezza sociale ed economica dell'isola non avrebbe consentito alcuna possibilità di partecipazione all'elaborazione della nuova cultura. Tuttavia, non possiamo ignorare il fatto che molte carte ecclesiastiche offrono testimonianza eccezionale dei nuovi esiti linguistici, frutto del passaggio dal mediolatino al volgare siciliano e del tentativo di definire una nuova cultura diffusa controllata dalla monarchia89. Solo nel pieno Ottocento l'immagine dei Musulmani è riscattata dall'opera di Michele Amari, che nella conquista normanna dell'isola legge la fine della sua indipendenza e di un'era storica realmente siciliana, caratterizzata da una concreta rinascita spirituale e materiale, ed offre spunto per una contropropaganda ben documentata e costruita su basi scientifiche. Alla diffusione di un'immagine negativa di questi mercenari venuti dal Nord per sopprimere l'indipendenza siciliana, lo storico siciliano giunge attraverso una sistematica demolizione della narrazione malaterriana, cogliendo pertanto il mero intento propagandistico trasfuso dal committente al cronista, che nel tono encomiastico delle sue parole, nelle spudorate esagerazioni e nei distorti florilegi a beneficio dello pseudo crociato di Sicilia, sarebbe stato il ligio portavoce degli Altavilla e l'esecutore della loro espansione ideologica. La narrazione diventa iperbolica quando si tratta di definire entità e proporzioni numeriche degli opposti schieramenti, tanto che Amari ironizza sostenendo che “convien dividere per sei la cifra dell’esercito nemico e moltiplicare per sei quelle del normanno”90. Le fugaci menzioni alle disfatte normanne, quindi, appaiono inserite in modo strumentale all'interno della narrazione, per esaltare l'impegnativo compito assunto da Ruggero e la sua strenuitas, come nel brano che riporta il blocco del Granconte nel territorio del Faro ad opera di una possente flotta islamica che controllava le acque dello Stretto91, la respinta subita ad opera dei musulmani di Centorbi92, la sconfitta inferta dall'arabo Benarvet presso Catania93, l'uccisione vicino Castrogiovanni di Serlone, nipote del Granconte e del Guiscardo94. Al di là delle altre fonti cronistiche e letterarie verosimilmente utilizzate da Malaterra e oltre agli spunti probabilmente colti nei resoconti di testimoni oculari, il cronista di Ruggero I si ispirò senz'altro ai contenuti encomiastici di molti atti ecclesiastici del Valdemone, come pure alle vigorose autocelebrazioni che il Granconte profondeva nei diplomi di donazione e conferme a favore di chiese e monasteri. L'accordo di Melfi del 1059, con cui Niccolò II aveva investito gli Altavilla del Mezzogiorno, non contiene messaggi propriamente anti-islamici, perché teso piuttosto a stabilire i termini dell'investitura in senso più ampio95. Tuttavia, nel diploma con cui Urbano II, nel giugno del 1091, confermava la nomina di Ambrogio ad abate di Lipari, si coglie innanzi tutto l'atteggiamento di aperta condanna da parte della curia romana di fronte all'oppressione subita dai cristiani del Valdemone negli anni dell'emirato96, sebbene l'accento sia posto soprattutto sulla “divinae misericordiae potentia”, che avrebbe guidato dall'alto l'impresa di Ruggero97. Già nel 1088 Ruggero, nel confermare una donazione a beneficio della Chiesa liparese, si intitolava “Rogerius Comes Calabriae et Siciliae Adjutorium Christianorum”98 ed in ambiente feudale, nel 1095, veniva definito “in Sicilia victoriosissimus”99. Ma richiami più espliciti alla grandiosa impresa divina, carichi di vigore evocativo alla stregua di un vero e proprio pamphlet di propaganda, è possibile cogliere nell'atto di donazione che il Granconte emanò nel 1094 a beneficio del monastero pattese di San Salvatore100. Ruggero, infatti, compone un'autentica apologia del proprio sacrificio di fronte ad un nemico sanguinario, dove dice di aver “meo sanguine fuso adquisita tota Sicilia” e di essere riuscito, “armis divinae potentiae munitus et brachio victoriosae fortitudinis roboratus”, ad aver ragione della “sarracenorum termositas”. Il Granconte conclude il diploma esaltando ancora il carattere divino dell'impresa e gli effetti provvidenziali della sua azione, che gli aveva consentito di pacificare definitivamente l'isola e di ridare dignità e libertà alle chiese, distrutte “ab impietate nefanda sarracenorum”. Eppure, la duplice abbazia di Lipari-Patti non si caratterizzò come centro di propaganda né pare abbia fatto ricorso a sistemi di proselitismo coercitivi per ottenere la conversione della popolazione di confessione o fede diversa. In questo senso, è esemplare che proprio a Lipari, nel luglio 1117, tra i monaci di San Bartolomeo sia documentata addirittura la presenza di un apostata islamico, Фιλιπποç µοναzοç ο αpαβο101, circostanza che segnala un atteggiamento di apertura della Chiesa locale nei confronti della minoranza musulmana. Il che induce a ritenere come non sempre la propaganda neghi la contrapposizione del testo all'azione politica, come appunto dimostrerebbe l'ambiguità dei rapporti nel Valdemone tra musulmani e cristiani, da una parte collocati in posizione antitetica in una sorta di schema ideale della cultura diffusa, d'altra parte inseriti in un comune meccanismo sociale ed economico che, prevedendo la presenza di funzionari “sarraceni de majores nati” anche nei gangli amministrativi della contea, annullava radicali dicotomie102. I messaggi anti-islamici contenuti nelle carte monastiche del Valdemone, quindi, sembrerebbero effetto di un allineamento squisitamente politico della Chiesa locale alle posizioni assunte dagli Altavilla in merito alla questione demica. Questa tesi trova conferma a partire dagli anni Sessanta del XII secolo, quando, in seguito alla congiura esplosa a corte nel marzo 1161, la rivolta feudale si tinse di rabbia xenofoba e le nuove tensioni etniche alimentarono una nuova ondata di propaganda antimusulmana103. Densa di significati, in tal senso, appare una donazione a beneficio del vescovo di Patti Pietro, disposta nel 1171 dal barone di Petrano e familiare regio Anfuso de Lucci, la cui struttura compositiva si rifà al modello delle prime concessioni del Granconte e ne amplifica l'eco della propaganda ideologica, proprio nel momento in cui il diffuso clima di intolleranza etnica cresceva104. Il feudatario, infatti, torna a parlare con anacronismo della “insuperabile forza” del Granconte, del suo “potentissimo braccio vittorioso”, del sangue da lui versato per liberare l'isola “a sevissima Sarracenorum tyrannide”, dell'impegno profuso nella ricostruzione delle chiese “a nefanda barbarie dirute”. Una visione, questa, trasmessa in modo strumentale e senza aderenza ad attuali condizioni di fatto, ma segno evidente che la propaganda antimusulmana costruita negli anni del Granconte era stata efficace, se a distanza di quasi un secolo i suoi messaggi, recepiti sia in ambiente monastico che feudale, venivano riproposti fedelmente, immutati persino nelle formule linguistiche. Ma tornando al tema del presente contributo, possiamo in conclusione rilevare come il sostrato religioso cristiano, emerso in seguito alle politiche di normalizzazione demica attuate dagli Altavilla con il ricorso a vecchie e nuove strutture benedettine e basiliane, impregnasse profondamente, nella lunga durata, la vicenda culturale del Mezzogiorno d'Italia. Peculiare è in tal senso il fatto che gli orientamenti politici dell'isola fossero condizionati dall'elaborazione culturale greca sino agli anni della contea, mentre a partire dal 1131, con la fondazione della monarchia siciliana ed una maggiore apertura verso l'immissione di gruppi etnici provenienti dall'Italia settentrionale e d'Oltralpe, anche la società e la conformazione culturale dei ceti dominanti avrebbe registrato una forte spinta verso la latinizzazione e la cristianizzazione in senso cattolico della Chiesa siciliana. Questa dinamica si sarebbe accelerata in modo eclatante negli anni della dominazione Sveva (1196-1266), quando la Chiesa latina avrebbe esercitato un vero e proprio monopolio culturale rispetto alle altre professioni di fede105. Tuttavia, i contrasti tra la nuova monarchia e la curia pontificia, che si alimentarono negli anni di Federico II e culminarono nei reiterati interdetti a carico dello Stupor Mundi e del suo Regnum, sebbene segnassero una profonda crisi religiosa, esclusero ogni forma d'ingerenza della Chiesa di Roma nelle sedi metropolitiche ed episcopali del regno di Sicilia, saldamente controllate dalla Cancelleria regia e da altre forze politiche territoriali. Il che ci induce a ritenere che, deposta ogni aspettativa di rintracciare nelle scelte politiche l'emanazione di indirizzi culturali di provenienza ecclesiastica, l'elaborazione stessa e la diffusione di schemi culturali monastici, come pure l'amministrazione delle vaste e popolose terre diocesane, fosse piuttosto emanazione quasi esclusiva della Curia regia ed efficace strumento del suo controllo politico, condotto anche attraverso nuove realtà ecclesiastiche. Convincenti ed opportuni, in questo senso, appaiono gli studi dedicati da Enrico Pispisa all'età sveva106 e, nel caso specifico, il recente saggio con cui Elisa Costa delinea la parabola dell'ordine templare nell'isola tra il 1145 ed il 1318107. Ma restano ancora aperti altri percorsi di ricerca, come quello che ci porta dentro le vicende dei vescovati siciliani durante le convulse fasi del dominio angioino, quando nel Regnum, nello scenario del confronto tra filo-guelfi e filo-ghibellini, si sarebbero prodotte spaccature complesse ed estremamente fluide108. L'esempio della cronistica ufficiale della dinastia normanna, mediata dagli ambienti monastici dietro forte impulso degli indirizzi politici imposti dagli Altavilla, ci fa percepire come, in definitiva, appaia difficile stabilire se sia stata in più ampia misura clericizzata l'azione politica o fosse piuttosto la missione della Chiesa ad essere politicizzata. Percorrendo alcune tappe indicative di tali dinamiche, tuttavia, è possibile sintetizzare il complesso scenario entro cui, nel corso del XII secolo, si realizzarono trasformazioni culturali e sperimentazioni politiche destinate a condizionare e caratterizzare nel lungo termine la composizione sociale dell'isola. La Chiesa regolare, con i tratti propri della signoria rurale di banno, cioè di un istituto consolidato e diffuso nelle terre di provenienza dei dominatori transalpini109, era stata strumento affidabile dell'azione di latinizzazione condotta dagli Altavilla, come mostra il consistente ricambio demico che si registrò in molte terre d'immigrazione aleramica e lombarda controllate dai Benedettini come dagli Agostiniani. Ma al tempo stesso i vescovati avevano esercitato in modo indiretto una funzione di controllo etnico e in un certo senso di tutela delle minoranze, preservandone la stessa identità culturale (che si continuò a esprimere nei costumi, nella vita quotidiana, nelle strutture sociali e nei quadri mentali), in quei casi in cui la presenza musulmana o quella greca era apparsa necessaria e opportuna sotto il profilo politico ed economico, perché comprese entro un più vasto disegno amministrativo. Nei primi decenni della dominazione normanna, in sostanza, la gens latina, colmando i vuoti -meno evidenti nel Valdemone- lasciati dai piccoli proprietari arabi che si erano ritirati in Ifriqiya o avevano scelto di cambiare repentinamente status, aveva dato vita insieme all'etnia greca ad una struttura integrata basata sulla convivenza di due culture che, al di là delle divergenze confessionali, si ritrovarono comunque unite nella Croce di Cristo ed in più concrete reciproche convenienze. Ma sul finire del XII secolo, quando il potere degli Altavilla era al tramonto, la crescente immigrazione ultramontana e lombarda ed il progressivo radicamento nelle terre di San Bartolomeo come in quelle della diocesi di Cefalù di famiglie legate etnicamente e culturalmente ai ceti dominanti finirono per imprimere all'isola una fisionomia diversa e per orientare le scelte di governo verso il rafforzamento della posizione latina ed il ridimensionamento del ruolo politico greco. Negli ultimi anni del dominio normanno, fatalmente, si sarebbe compiuto il tramonto della presenza greca anche nel Valdemone, l'ultimo lembo dell'isola in cui ancora si esprimeva in modo non trascurabile, profondamente scosso dall'esplosione xenofoba registrata nel centro peloritano al passaggio del Barbarossa, di Riccardo Cuordileone e Filippo II Augusto diretti nel 1190 in Terrasanta per la terza crociata110. Un declino destinato ad accentuarsi, dopo pochi anni, con l'arrivo in Sicilia di Enrico VI di Svevia, drammaticamente esemplato nella Epistola ad Petrum Panormitane Ecclesie Thesaurarium de calamitate Sicilie, con cui lo pseudo Ugo Falcando condanna il furor theutonicus e denuncia accoratamente il progressivo offuscarsi della coscienza del regno e la perdita del suo prezioso equilibrio multiculturale.
La conquista normanna della Sicilia. Cristianizzazione, latinizzazione e propaganda anti-islamica degli Altavilla
Luciano Catalioto
2023-01-01
Abstract
Nel vasto contesto tematico relativo al ruolo della religione nell'evoluzione politica e culturale europea è possibile collocare una struttura portante del complessivo quadro medievale del Mezzogiorno d'Italia, cronologicamente compresa tra il 1061, data d'inizio della conquista normanna e della ricristianizzazione della Sicilia islamica, e la fine del XII secolo, quando il drammatico epilogo degli Altavilla e la violenta sovrapposizione degli Hohenstaufen nel dominio del Regnum, con la progressiva scomparsa della presenza islamica e il tramonto della cultura greca, avrebbero comportato radicali trasformazioni sociali e prodotto nuovi equilibri demici1. Il 5 luglio 1098 papa Urbano II, dando concreto seguito agli accordi raggiunti con Ruggero I d'Altavilla nell'incontro di Troina del 1088, emanava da Salerno la bolla “Quia propter prudentiam tuam” con cui attribuiva al Granconte, “sicut verbum promisimus”, l'esercizio della legazia Apostolica, ovvero il diritto alle nomine episcopali in Sicilia e Calabria2. La sintetica annotazione “Papa [...] legationem beati Petri super comitem per totam Siciliam et sui juris Calabriam […] haereditaliter ponit”3, con cui Goffredo Malaterra registra la concessione, è sufficiente a mostrare come questo riconoscimento ufficiale, che sembra porsi come momento iniziale di una rinnovata stagione storica del Mezzogiorno d'Italia, fosse in realtà un atto formale che confermava una situazione di fatto già sancita da Niccolò II nel sinodo di Melfi del 10594, quando tra gli Altavilla e la Chiesa di Roma si costituì un fronte comune di azione politica e strategia religiosa destinato a perpetuarsi e rinsaldarsi. Durante il trentennio che separa lo sbarco normanno presso Messina dalla caduta di Noto, ultima roccaforte araba dell'Isola (1061-1091), Ruggero e Roberto il Guiscardo, nell'alternare operazioni belliche ad interventi intesi a definire il nuovo assetto feudale, non trascurarono una sistematica azione diretta a rafforzare l'alleanza con la Chiesa e ad assegnare concrete basi politiche al comune programma di conquista e ricristianizzazione5. La quale, occorre rilevare, nel Mezzogiorno d'Italia ebbe un percorso sincrono con la diffusione della riforma gregoriana e strumentale all'attuazione dello stesso movimento riformatore. In Sicilia, infatti, dopo cinque secoli di dominazione bizantina e musulmana, il rito latino era quasi del tutto inesistente e con i Normanni si presentava al papato l'occasione propizia per rinnovare le rivendicazioni della Chiesa Romana e per avviare la riorganizzazione del clero latino e la progressiva reintroduzione della sua giurisdizione, attraverso delicate fasi dirette alla ripresa dell'opera di riforma ecclesiastica. Una congiuntura, questa, che lascia ben intendere quanto l'azione dei Normanni in ambito ecclesiastico fosse complessa, là dove risalta che gli Altavilla furono indotti fin dal loro arrivo nel Mezzogiorno ad intrattenere con la curia pontificia rapporti che erano al tempo stesso religiosi e politici6. Ma il quadro delle relazioni tra Normanni e Chiesa assumeva proprio nell'Isola tratti assai particolari anche perché gli Altavilla, nell'accentuare il controllo sulle chiese, dovettero tenere conto del delicato equilibrio tra clero greco e gerarchia latina. Il territorio del Valdemone, in particolare, custode quasi esclusivo nell'isola della tradizione greca, costituì il banco di prova per nuove forme d'integrazione etnica e culturale. Ovvero, l'incontro tra le culture latina, greca ed araba e il superamento dei concreti problemi di convivenza delle diverse etnie comportarono la ristrutturazione dei poteri locali e l'impianto della nuova società, basata inizialmente sulla coesione di espressioni diversificate anche sotto il profilo linguistico e religioso. Quando la spedizione normanna guidata dal conte Ruggero si diresse verso l'interno dell'isola e puntò su Troina, dove avrebbe stabilito la propria capitale, trovò una situazione demica che vedeva fortemente rappresentata sul territorio la popolazione greca, quei bizantini “veteres (qui) sub Sarracenis tributari erant”7, come riporta la cronistica ufficiale, e che avevano concentrato i propri insediamenti tra le Madonie ed i Nebrodi: da un lato verso Troina (con Cerami, Capizzi, Agira) fino a Centuripe, Adernò, Paternò, dall'altro all'interno del futuro episcopio di Cefalù, da Mistretta (con Geraci, Petralia, Polizzi) fino a Caltavuturo8. Il dato è senz'altro indicativo giacché, prima che l'islamismo introdotto con l'invasione araba dell'827 ne sconvolgesse la gerarchia, il clero siciliano partecipava attivamente alle vicende del patriarcato bizantino e la sopravvivenza del monachesimo greco nell'isola, dopo due secoli di emirato, sarebbe da attribuire in misura rilevante al grado di efficienza amministrativa raggiunto sotto il governo dei basileis ed al serrato collegamento tra la dimensione religiosa, quella sociale e l'azione politica9. La persistenza del monachesimo bizantino nel Valdemone sembrerebbe peraltro confermata dal massiccio trasferimento di comunità monastiche dalla Sicilia in Calabria, che si verificò in seguito alla conquista araba, e che nei decenni successivi avrebbe invertito la rotta tornando a popolare molte comunità dell'Isola. D'altra parte, come sostenuto in occasione di un convegno tenuto nel 2007 presso la Facoltà di Lettere di Messina sul tema Comunicazione e propaganda nei secoli XII e XIII, la stessa demonizzazione dei musulmani è in parte da ricondurre ad un cliché storiografico alimentato dal proselitismo politico e religioso della conquista, sistematicamente presente anche nelle concessioni e nei diplomi prodotti e diffusi dalla Chiesa siciliana, oltre che nella produzione cronistica di quegli anni10. Si tornerà a parlare diffusamente in merito alla propaganda della conquista normanna contenuta nella cronistica e nelle fonti documentarie, ma per meglio inquadrare le fasi della cristianizzazione e latinizzazione della Sicilia, in particolare del Valdemone, è opportuno ripercorrere in rapida sintesi la vicenda religiosa dell'isola nei secoli altomedievali, quando il marcato diradamento della presenza cristiana, romana soprattutto, avrebbe prodotto una lacuna che allo scorcio del X secolo appariva di preoccupante ampiezza. Un disappunto che si coglie in alcuni passi della Ystoire de li Normant di Amato di Montecassino11 ed in espliciti riferimenti della cronaca malaterriana12, ma si evince anche da significativi interventi di normalizzazione demica attuati tra XI e XII secolo dai primi abati benedettini e agostiniani, come i due Constituta (1095-1101) di Ambrogio per il ripopolamento delle possessiones di Lipari e Patti con “gentes linguae latinae”13 e la serie di Constitutiones promulgate nel marzo 1133 dall'abate/vescovo Giovanni de Pergana per incrementare gli homines dell'arcipelago14. Gregorio di Tours tramanda che, verso il 574, Gregorio Magno, per accogliere stabilmente i numerosi monaci dell'Italia centro-meridionale in fuga dal dominio longobardo, “in rebus propriis sex in Sicilia monasteria congregavit”15. Tra VI e VII secolo, in effetti, innalzare e dotare chiese rurali e cenobi nelle terre che occorreva popolare fu pratica largamente diffusa in seno agli ambienti dei più influenti e munifici terrerii, solleciti all'affermazione del proprio casato. In Sicilia, pertanto, non si sarebbe registrato il crollo delle strutture episcopali che, a cavallo dei due secoli, si era abbattuto sul Mezzogiorno peninsulare, e il monachesimo pare fosse di rito esclusivamente latino e di matrice benedettina. Nella seconda metà del VII secolo, tuttavia, è documentato un incipiente processo di ellenizzazione delle comunità monastiche che s'innestò sopra il persistente sostrato culturale bizantino, sedimentato tra V e VI secolo e alimentato dal flusso costante di monaci provenienti da Bisanzio16. Il fenomeno può essere collegato al trasferimento nel 663 della corte dell'imperatore Costante II (641-668) a Siracusa17 e al vasto flusso migratorio greco che, dalla prima metà di quel secolo, dalla Siria e dall'Egitto si era riversato pure nell'isola, alimentato sia da monaci iconoduli in fuga dalle persecuzioni degli imperatori iconoclasti, sia da profughi melchiti dispersi dopo il 614 dai persiani sassanidi di Cosroe II e, in seguito, dallo stesso basileus Eraclio, padre di Costante. Tra la fine del VII e l'inizio dell'VIII secolo, pertanto, il latinismo dell'isola si era stemperato nella progressiva ellenizzazione, dissolvendosi significativamente dopo il pontificato di Gregorio II (715-731), quando la Chiesa di Roma prendeva posizione contro l'iconoclastia, imposta nel 726 da Leone III Isaurico (716-741), e si assicurava l'appoggio dei Franchi, accelerando in Sicilia l'affermazione della giurisdizione bizantina su quella romana ed il passaggio dell'episcopato latino nell'orbita del patriarca di Costantinopoli18. Purtroppo, le fonti sul monachesimo siciliano del IX e X secolo sono di sconfortante esiguità e dalla rara documentazione attendibile è possibile cogliere solo qualche notizia frammentaria e generica, solitamente riferita al Valdemone, come quella secondo cui l'imperatore Niceforo Foca (802-811) avrebbe utilizzato Lipari come terra di confino per i monaci riottosi nei confronti del fiscalismo regio19. In definitiva, le vicende del monachesimo siciliano furono caratterizzate da un flusso migratorio verso la penisola che si mantenne costante sino alla metà del X secolo, sebbene molti asceti rimanessero nell'isola. Ma, nei decenni che seguirono, un clima di tolleranza sarebbe subentrato nei rapporti tra i dominatori musulmani e i monaci rimasti entro il territorio insulare, contro i quali non pare si verificasse alcuna persecuzione sistematica20. In questo campo di ricerca, la ricca letteratura storica e alcune fonti cronistiche si mostrano di sostanziale utilità, ma specifici fondi documentari, come quello contenuto presso l'Archivio Capitolare di Patti ed il Rollus Rubeus del vescovato di Cefalù21, costituiscono un insieme di dati fondamentali per acquisire una chiave di lettura strutturale del complessivo disegno di conquista normanno, rappresentando una chiara spia dei processi di insediamento ed integrazione, delle fasi di trasformazione demica e religiosa, dei fluidi rapporti politici, dei nuovi usi feudali e delle variegate signorie di banno. Per quanto concerne la gestione del patrimonio rurale della Chiesa, un documento significativo è costituito da una “collecta villanorum episcopatus cephaludensis”, inserita in coda ad una concessione di Alessandro II al vescovo Bosone, emanata a Benevento nel dicembre 1169, dove è elencato un gran numero di villani musulmani (86) con le rispettive rendite “in angariis et collectis” espresse in tarì, ovvero “sexcentos triginta de villanis exteros” oltre a quelli “civitatensibus qui fuerunt tria milia octuaginta octo” e “pro quibus […] compensati sunt iudei ut ibi dicitur”22. Altrettanto indicativo il contenuto della Platea antiqua bonorum Ecclesiae Pactensis23, al cui interno un lungo elenco tramanda i nomi dei 344 villani posseduti dalla chiesa pattese nelle terre che ne componevano il territorio: Naso, Fitalia, Panagia e Librizzi. Risulta confermata, in questo consistente ambito del Valdemone, una pur modesta presenza saracena (solo 53 nomi arabi) tra la popolazione assoggettata, di fronte alla preponderante consistenza demica dei greci, che sono 291, equamente suddivisi tra le terre di Naso (102), Fitalia (61), Panagia (69) e Librizzi (59). Dall'antico Rollus di Patti, utile sotto il profilo demografico, è possibile desumere una precisa stima della rendita prodotta in natura ed in solidum dai βsλλανοι: gli oltre cento rustici greci di Naso fruttavano 260 salme di frumento; gli uomini di Fitalia, al pari di quelli residenti a Panagia, apportavano 321 tarì, 50 salme di frumento “et enim tenebatur quinquaginta in totidem ordei”; i circa sessanta villani librizzesi, infine, rendevano alla chiesa di Patti 256 tarì24. La presenza di laboratores greci continua a essere registrata nei decenni successivi in diversi atti di assegnazione di casalia e tenimenta, come quello vergato in lingua greca e araba da Ruggero II nell'aprile 1132, relativo al casale di Rachalzufar (presso Nicosia) con adscripti trentacinque homines25. Tuttavia, sino allo scorcio del XII secolo, una significativa presenza dell'etnia greca è attestata ai livelli più elevati della società, impegnata spesso nella gestione del patrimonio ecclesiastico, come quello pattese, al cui servizio negli anni Quaranta troviamo notai e ufficiali greci a Naso, Fitalia e in altri centri del Valdemone26. Ma costituita pure da proprietari terrieri qualificati come milites a Caccamo27 e in Val di Milazzo,28 stratigoti e vicecomites, anche in centri di forte impronta culturale islamica del Val di Mazara,29 come l'ammiraglio Giorgio, “vicecomes et stratigotus Jatinae”30. Inoltre, la frequente simultaneità di stratigoti e vicecomites, rispettivamente magistrati della popolazione greca e di quella latina31, cioè dei franco- normanni e lombardi, registrata a Patti tra il 1130 ed il 113332 e ancora nel 118833, attesterebbe un tessuto sociale misto, in cui la popolazione greca avrebbe avuto agio di emergere sotto il profilo qualitativo. E pure la nutrita documentazione capitolare in lingua greca e la presenza di burgenses e notai di chiara origine bizantina che ancora nel XIV e XV secolo operavano anche in qualità di traduttori, come i membri della famiglia Proto presenti in numerosi atti34, indicherebbero un persistente inserimento dell'elemento di cultura ellenica nel tessuto demico del Valdemone35. Soprattutto nelle terre ubicate citra flumen Salsum, in definitiva, si definisce un microcosmo al cui interno si riflettono le scelte adottate in seno ai vertici del potere laico ed ecclesiastico, ma dove peraltro si realizza una sorta di sperimentazione economica e demografica sul territorio, cioè una riorganizzazione della società rurale e urbana, sia monastica sia laica, come modello produttivo cui si sarebbe dovuto uniformare il Mezzogiorno normanno dopo l'unificazione regia del 1130. L'opera di ricristianizzazione, pertanto, fu condotta attraverso il regolare ricorso a congregazioni e gruppi identitari di professione cattolica e ortodossa sopravvissuti all'azione degli emiri (827-1061)36, lasciando emergere la forte impronta culturale greca impressa soprattutto nel Valdemone, dove Ruggero I, nell'arco di appena un ventennio, significativamente avrebbe eretto e rifondato diverse sedi benedettine (Lipari, Catania, Patti e Santa Maria de Scalis) e al contempo circa venti monasteri greci37, deputati al controllo politico ed economico del territorio, ma depositari e garanti al tempo stesso di un importante settore culturale del tutto assente o in pieno declino nel resto dell'isola38. La stessa elevazione successiva dei vescovati di Lipari-Patti e di Cefalù nel 1131, da parte di Anacleto II, pare incoraggiasse tale politica di salvaguardia, per così dire inclusiva, dell'elemento greco nel tessuto religioso, ma pure culturale, e certamente nel quadro demico degli insediamenti rurali. Da una parte si sarebbe registrata una cospicua presenza greca nelle terre diocesane di Patti, dall'altra l'antipapa dotò il vescovado di Cefalù di un controllo di fatto sulla fondazione agostiniana di Bagnara Calabra, da cui proveniva il primo vescovo Jocelmo, ma che soprattutto fu un focolaio di elementi grecofoni, in grado di mediare tra le due professioni cristiane e ambo le espressioni culturali39. Grazie alla rinascita dell'ellenismo registrata in quegli anni e all'orientamento scientifico che la vita di corte mantenne vivo sino all'età di Guglielmo II, la cultura bizantina riuscì a trovare consistenti canali d'irradiazione verso l'Occidente, contribuendo ad affidare parte del patrimonio classico all'Umanesimo40. Basti ricordare il ruolo politico e il peso culturale dell'ammiraglio-notaio Eugenio, poeta e traduttore, del logoteta Leone e del camerario Nicola, di Enrico Aristippo e Maione di Bari41. Peraltro, sebbene la presenza greca nella trama regia venisse limitata a specifici ambiti burocratici, prevalentemente ai vertici dell'ammiragliato e del notariato, dove tra gli altri emergono gli Admirati et Regi Notari Eugenio, Teodoro, Cristodulo e Giorgio d'Antiochia, molte carte vescovili attestano al livello sociale mediano, composto da milites, funzionari locali e piccoli proprietari, la presenza di numerosi greci accanto ai normanni insediati stabilmente. In molte carte ecclesiastiche dell'isola, infatti, la consistente presenza dell'etnia greca attesta un ruolo sicuramente pregnante sotto il profilo numerico e qualitativo di questa minoranza all'interno delle gestione dei vescovati, come quelli di Cefalù e Lipari-Patti, al cui servizio troviamo notai e ufficiali greci attivi a Naso, Fitalia ed altri centri del Valdemone negli anni Quaranta del XII secolo42, proprietari terrieri qualificati come milites a Caccamo43, stratigoti e vicecomites anche in centri di forte impronta culturale islamica del Val di Mazara44. Per quanto riguarda le strategie dell'insediamento rurale, come si è detto, il popolamento delle campagne rispose a una politica di normalizzazione demica che dovette tenere conto della preponderanza islamica e, soprattutto nell'Isola al di qua del Salso, della radicata e diffusa presenza della chiesa greca. I due vescovati di Lipari-Patti e Cefalù, elevati nel 1131 all'interno dell'arcidiocesi di Messina, avrebbero seguito esperienze per molti versi assimilabili e riconducibili a un'azione programmatica degli Altavilla che, soprattutto nei primi decenni del loro dominio, si mostrarono ben disposti verso il clero bizantino e tolleranti nei confronti della popolazione musulmana. La presenza in alcune platee di famiglie islamiche in condizione villanale, residenti nei casali vescovili sia di Cefalù sia di Patti, è eloquente testimonianza della diffusa presenza di tale gruppo demico in quasi tutte le terre del Valdemone, dove comunque appare bilanciata da nuclei di lingua e cultura greca, più significativi che altrove procedendo verso levante. Non è un caso, pertanto, che proprio al Val di Demenna si colleghino due personalità d'intellettuali locali di etnia greca, quali l'oscuro grammatico Leone di Centuripe e l'eloquente omileta Filagato da Cerami, che tra XI e XII secolo espressero una produzione originale, destinata a suscitare vasta eco oltre confine45. Come ampiamente documentato da Bianca Maria Foti, la localizzazione in Sicilia dell'attività di Leone e la qualifica di ypαµµατιkοç, assimilabile a quella di professore di scuola secondaria, consente di documentare una categoria culturale la cui presenza nel contesto era stata, finora, solo postulata46. La statura intellettuale di Filippo Filagato di Cerami, ϕιλοσοϕοç, esegeta ed oratore di grande fama, emerse non solo rispetto al limitato ed appartato contesto provinciale, ma anche nei confronti della ‘Metropoli’, dove sarà recepito un ramo peculiare della tradizione omiletica. Spostando il discorso sul piano della produzione di manoscritti, l'unica testimonianza certa di un'attività di copia in Sicilia prima del SS. Salvatore di Messina (agli inizi del XII secolo)47, si riferisce ancora al Valdemone, precisamente a San Filippo τοv Msλιτvpοv (o τον ∆sµsννον, poi detto di Fragalà), il più grande monastero greco attivo ancora in età normanna e principale centro propulsore della rinascita basiliana nell'isola, di cui ci resta non solo un ricco tabulario, ma anche il testamento spirituale dell'abate Gregorio, rifondatore del cenobio alla fine dell'XI secolo48, la cui testimonianza attesta la persistenza di pur limitate strutture monastiche greche nella Sicilia musulmana e la loro ripresa negli anni della contea. La sede di Fragalà raggiunse l'apice della prosperità negli anni di reggenza della contessa Adelasia, quando a vantaggio del kαθηyοvµsνοç Gregorio affluirono ricche donazioni sia per intervento diretto della reggente e dei suoi collaboratori di origine greca (il notaio-ammiraglio Eugenio, il logoteta Leone, il camerario Nicola), come pure da parte di vari feudatari normanni, quali Aleazar Mallabret, signore di Galati, ed i fratelli Matteo e Ugo di Craon, che dominavano Mistretta. Il fatto che nel 1105 dipendessero dal monastero numerosi metochi49, testimonia l'ampiezza della valorizzazione del territorio perseguita dal nucleo basiliano a partire dagli anni dell'abate Gregorio, grazie al forte impulso in tal senso impresso dalla politica economico-religiosa dei primi Normanni. Ma è nel campo della tradizione culturale, soprattutto in quello della produzione manoscritta, che il cenobio acquista risalto, grazie anche all'attività dell'omileta Leonzio di Fragalà. Tra le sedi basiliane risorte per impulso del primo Ruggero e ampiamente dotate dai maggiori feudatari normanni figurano inoltre San Filippo Maggiore (d'Argirò), fondato intorno al 1100; San Nicolò de Fico, presso Raccuia, a quanto pare eretto da Ruggero nel 1091; Santa Maria de Gala, presso Castroreale, voluto dal Granconte, ultimato nel 1105 da Adelasia e confermato da Ruggero II; San Pancrazio a San Fratello, dotato dal primo Altavilla e poi rifondato da Ruggero II nel 1134; Santa Marina de Mallimachi, prope Castaniam e Santa Maria grecorum o de Lacu, non lontani da Naso. Proprio durante questi primi decenni, come già accennato, le accresciute esigenze insediative di queste sedi innescarono una dinamica nuova e destinata a ripetersi, cioè il popolamento dei centri monastici italo-greci di nuova fondazione con monaci reclutati nella vicina Calabria, che era rimasta la zona più fortemente bizantinizzata nel periodo in cui la Sicilia aveva subito l'invasione islamica50. Una scelta, questa, dettata non solo dalla necessità di reclutare esponenti dell'etnia greca, ma anche di procacciare manodopera specializzata per le attività di copia e di traduzione. Interessante in questo senso la presenza a Troina, nel 1124, del calligrafo Leone di Reggio, la cui attività rimanda ad un ambiente monastico e la cui scrittura, prendendo le mosse dalla Perlschrift costantinopolitana, si lascia influenzare dalla tipicità grafica precipua della Calabria del nord, definita rossanese, e si orienta allo stesso tempo verso la stilizzazione che verrà indicata come scrittura di Reggio51. Ma pure sotto il profilo dell'evoluzione linguistica e delle trasformazioni demiche legate a meccanismi politici ed esigenze amministrative, appare significativo un manoscritto del monastero di San Michele di Troina, il più antico dei cenobi fondati in loco dal conte Ruggero, attribuibile al primo decennio del XII secolo, ceduto poi al notaio-ammiraglio Eugenio e giuridicamente immune dall'Archimandritato peloritano52. Si tratta di un codice trilingue (greco, latino ed arabo) che, innanzi tutto, conferma la piena convivenza di un pubblico aduso a linguaggi e schemi culturali diversi, ma soprattutto, essendo corredato di molte annotazioni marginali, potrebbe essere stato usato come propedeutico all'insegnamento di uno dei tre idiomi, il che sarebbe chiaro segno di un multilinguismo partecipe e di un interesse verso culture e professioni di fede diverse tenuto vivo dall'azione della Chiesa. Singolare appare, infine, la presenza di un'annotazione volgare in caratteri greci a margine del testo latino, che è vergato in una chiara e ariosa scrittura siciliana pre-gotica53. La nota, riferibile agli anni della dominazione aragonese in Sicilia e del papato avignonese, evoca idealmente una trasformazione culturale che si era già prodotta allo scorcio del XIII secolo, quando dall'espressione grafica ormai destrutturata del copista Paolo Corinzio si coglieva il declino della grecità dell'Italia meridionale, ormai soffocata dalla preponderante latinizzazione. Ed anche il supporto di cui Paolo si serve, cioè un palinsesto, denota una situazione economica ormai precaria, ben lontana dalla floridezza che aveva caratterizzato i monasteri italo-greci nel XII secolo. In questo senso, quel recupero mediante attività versoria delle più care tradizioni italo-greche alle nuove strutture culturali latine, che si registra nei primissimi anni del XIV secolo nella Sicilia nord-orientale, può essere letto come un'ultima significativa e per certi versi commovente testimonianza54. Sebbene i Normanni avessero realizzato un equilibrio fondamentale per il controllo politico del territorio e il suo sviluppo economico e demografico sostanzialmente attraverso il sostegno concesso al clero greco, con il passare degli anni il rafforzamento della dinastia si sarebbe basato sempre più sulla crescita del clero e dell'etnia latina, anche nella parte orientale dell'isola, mostrando come il giuramento prestato nel 1059 a Melfi, con cui gli Altavilla si erano impegnati alla promozione ed alla salvaguardia degli interessi della Chiesa cattolica, costituisse il cardine attorno al quale si muoveva la politica del tempo. Dopo il consolidamento normanno, con la fondazione nel 1130 del regnum Siciliae, si sarebbe quindi registrato un crescente declino della cultura italo- greca ed un incremento del flusso di monaci latini (agostiniani, certosini, cistercensi e cluniacensi), soprattutto attraverso le fondazioni sorte precocemente in Calabria, come a Santa Eufemia e Mileto, che furono propulsori nel XII secolo di una cultura alimentata direttamente dai centri monastici cluniacensi d'Oltralpe e diffusa pure, nella temperie della riforma gregoriana e della lotta per le investiture, presso gli ambienti della Curia pontificia55. Altre fondazioni monastiche volute in Calabria da Ruggero I, vivai fecondi di propaganda filo-normanna nell'isola, furono la sede agostiniana di Santa Maria di Bagnara (1084), che avrebbe colonizzato con elementi transalpini la prioria di Santa Lucia di Noto e la cattedrale di Cefalù; la fondazione certosina di San Bruno di Colonia (1091 sgg.) e quella cistercense di San Nicola di Filocastro, fondata nel 1140 da cluniacensi provenienti da Clairvaux56. L'immigrazione fu alimentata pure dai clerici e dagli homines residenti nelle fondazioni che i Benedettini di Patti possedevano nel ducato calabrese sin dai primi anni di governo del Granconte, cioè le chiese di Santa Venera di Mileto, San Nicolò de Juga, Sant'Angelo di Genitocastro, San Nicolò de Saltu a Stilo, e le terre di San Nicolò de Aligisto, San Pantaleo e de Pileriis57. Mentre quindi la cultura bizantina si stemperava nella progressiva latinizzazione, prendeva corpo un nuovo orientamento culturale in cui larga parte avrebbe avuto la Chiesa romana riformata. Anche attraverso gli stessi canali strutturati in Calabria, la latinizzazione dell'isola fu gradualmente rinvigorita da cospicue immigrazioni di Lombardi, la cui presenza sin dai primi decenni del XII secolo è ampiamente documentata in centri come San Piero Patti, Librizzi, Santa Lucia di Milazzo, San Fratello, Piazza, Butera, Randazzo, Vicari, Nicosia, e in seguito dai nuovi flussi migratori dell'età fridericiana intesi a popolare anche molte terre del Val di Mazara, come Corleone58, ma pure dall'arrivo sempre più massiccio di mercanti amalfitani, genovesi e veneziani, che attraverso le rotte del Mediterraneo veicolavano mercanzie e idee59. Che le abbazie latine dell'isola, opportunamente definite ‘chiese di frontiera’60, incoraggiassero le immigrazioni di Lombardi nelle proprie sedi è un fatto noto che ripropone, in una prospettiva locale, quanto rilevato in senso ampio dallo storico del diritto Francesco Brandileone in un saggio della fine dell'Ottocento, dove afferma che “gli ordini religiosi occidentali […] intraprendono e compiono la nuova latinizzazione”61. Proprio questa puntuale affermazione dello storico del diritto salernitano suggerisce qui di trattare un altro aspetto della conquista normanna della Sicilia, cui si è prima accennato, quello relativo alla propaganda anti-islamica degli Altavilla. Veicolata da precisi modelli letterari, utilizzati dalla cronistica ufficiale con una sorprendente flessibilità in cui temi religiosi ed ecclesiologici si legavano alla politica, questi vennero proposti strumentalmente anche nella produzione documentaria di diverse sedi episcopali ed abbaziali (Messina, Catania, Lipari-Patti, Cefalù), mostrandosi eccezionale strumento di rielaborazione e trasmissione più capillare e diffusa di precisi messaggi ideologici62. I discendenti di Tancredi, indubbiamente, cercarono di far dimenticare l'origine illegittima del loro potere, soprattutto mediante il patrocinio della costruzione o ricostruzione di chiese e cenobi e, come sostiene Paolo Delogu, “la committenza degli Altavilla […] mirò essenzialmente a celebrare le imprese e la memoria delle grandi figure della famiglia, in modo da qualificarne la fisionomia ideale e creare una tradizione politica”63. Opera architettonica di sicuro impatto visivo fu il “propugnaculum immensae altitudinis” citato da Goffredo Malaterra ed esemplato da Pietro da Eboli64, cioè il Palatium comitale e poi regio di Messina, “bianco come una colomba” nella descrizione di Ibn Giubayr65, che Ruggero, “undecumque terrarum artificiosis caementariis conductis, mirifico opere consummavit”66. Inoltre, probabilmente nel 1096, veniva edificata, “cum turribus et diversis possessionibus”, la prima cattedrale di Messina, dedicata a San Nicolò e ubicata a poche centinaia di metri dall'attuale duomo sorto alla metà del XII secolo67. La pittura è forse uno dei media meno sfruttati dal Granconte per veicolare la propria propaganda politica e resta difficile, pertanto, una ricostruzione precisa della committenza dell'Altavilla in questo campo. Vi è, però, un'eccezione importante: Ruggero I esaltò la propria azione politica facendo dipingere sulle pareti della chiesa di Santa Maria di Ravanusa la memoranda impresa contro i Musulmani. Il ciclo, che comprendeva l'assedio di Ruggero della fortezza musulmana sul Monte Saraceno, è andato perduto, ma potrebbe essere considerato nella sua testimonianza indiretta una sorta di corrispettivo mediterraneo dell'Arazzo di Bayeux e una significativa rappresentazione, sul versante figurativo, dell'epos narrato in cronaca da Goffredo Malaterra, benedettino proveniente dal cenobio normanno di Saint-Evroul che era un vivaio cluniacense di monaci colti ed esperti negli affari di questo mondo, come Orderico Vitale e Roberto di Grantmesnil68. Ricordiamo come proprio quest'ultimo, in perfetta sintonia con gli ideali riformistici e gli schemi cluniacensi, fosse stato fondatore e anima della sede calabrese di Sant'Eufemia, vivaio a sua volta della successiva immigrazione monastica nell'isola, e fosse l'esecutore della committenza artistico-monumentale del Granconte condotta in chiave antimusulmana. Tra i cronisti che hanno dedicato spazio all'impresa normanna, Amato di Montecassino tratta piuttosto le vicende del Mezzogiorno peninsulare ed a proposito della conquista dell'isola riferisce come Roberto fosse in procinto di muovere guerra ai “Sarrazin, liquel occioient li Chrestien molt fortement” quando, come un segno dal Cielo, si presentò al suo cospetto un “amiral, un qui se clamoit Vultumine” (Ibn-at-Thumna) a chiedere aiuto contro l'emiro palermitano69. Il monaco cassinese aggiunge qualche particolare sulla conquista di Messina ad opera del Guiscardo, sostenuto da Guglielmo Bracciodiferro e “de ses chevaliers”, i quali “ont combatu à la cité et ont vainchut lo chastel de li Sarrazin”. Ma la sua narrazione non mostra di volere esaltare l'impresa dei conquistatori, e lascia evincere piuttosto come il controllo della Città dello Stretto da parte dei musulmani fosse blando, anche alla luce del fatto che “la cité estoit vacante des homes liquel i habitoient avant”70. La tesi del desolante stato di abbandono e immobilismo socioeconomico, che avrebbe denotato Messina già negli ultimi decenni dell'emirato, ha suscitato qualche perplessità in studiosi che, evidentemente, non hanno tenuto pienamente conto della tendenza celebrativa insita nella cronaca del monaco cassinese, della propensione all'esagerazione di Goffredo Malaterra e della conclamata inattendibilità della Breve istoria della liberazione di Messina, chiaramente falsa, protesa alla celebrazione del sentito patriottismo dei tre nobili cittadini (Ansaldo de Pactis, Niccolò Mamulio e Giacomo Saccano) per tradizione eroici fautori della congiura antimusulmana71. Peraltro, la rapidità della conquista normanna del Valdemone, attribuita con intenti celebrativi esclusivamente al partecipe sostegno che gli Altavilla trovarono da parte della popolazione cristiana, non escluderebbe l'ipotesi di una situazione demica analoga a quella descritta per Messina da Amato di Montecassino.72 Nella cronaca di Alessandro di Telese non vi è alcun riferimento alla crociata antimusulmana, o per meglio dire, la presenza stessa degli infedeli nell'isola e gli oltre due secoli di emirato sono ignorati, una vera e propria censura che idealmente creava un collegamento diretto tra il dominio territoriale di Ruggero II ad un vago regnum con sede “Panhormus Sicilie metropolis”73. Sembrerebbe troppo casuale questa sorta di damnatio silentii per nonsuggerire un suo inquadramento come propaganda, come espressa intenzione di demolire la memoria stessa dei musulmani siciliani con l'arma del silenzio. Ruggero I, intorno al 1098, non a caso scelse come suo cronista ufficiale un benedettino proveniente dal cenobio normanno di Saint-Evroul-sur-Ouche, incaricando Malaterra di narrare “plano sermone et facili ad intelligendum” le vicende della sua crociata, perché i posteri sapessero “quam laboriose et cum quanta angustia a profunda paupertate ad summum culmen divitiarum, vel honoris attigerit”74. Il cronista, nella lettera con la quale dedica all'abate e vescovo di Catania Ansgerius la sua opera75, ne espone gli intenti, tra cui risalta quello di glorificare le gesta dell'Altavilla sino al momento in cui, il 5 luglio 1098, Urbano II “non intese il lui premiare, con la concessione dell’Apostolica legazia in Sicilia, gli sforzi tenacemente compiuti nel debellare gli infedeli dell’isola”76. Il risalto dato da Malaterra a quest'atto, come ha osservato Erich Caspar, risiede nel fatto che esso, oltre a stendere un velo opportuno su parecchi arbitrii di Ruggero in tema di giurisdizione ecclesiastica, riconosce in maniera ufficiale i meriti della crociata antimusulmana del Granconte a beneficio della fede in Cristo e della sua Chiesa77. Una santa impresa, quindi, richiamata in più occasioni dal cronista, alla stregua di un cliché, all'interno di uno schema provvidenziale dai marcati tratti epico- cavallereschi. Solo il De rebus gestis di Malaterra, in definitiva, offre un quadro dettagliato della conquista e del consolidamento normanno in Sicilia, chiariti attraverso un'esposizione in chiave eroica delle vicende di Ruggero d'Altavilla, intorno al quale si connette la trama della narrazione, che si snoda durante un cinquantennio ed è suddivisa in quattro libri. Alcuni passi molto pregnanti del secondo libro descrivono con notevole efficacia espressiva la cacciata dei musulmani dalla punta settentrionale del Valdemone sino alla resa delle terre attorno a Troina e Castrogiovanni, fra il 1061 ed il 1064, in seguito alla battaglia di Cerami78. La cronaca di Goffredo Malaterra costituisce in questo senso un topos per quella tradizione antimusulmana ancora viva nella cultura diffusa del Valdemone tra Medioevo ed Età moderna, come si coglie in diverse espressioni iconografiche, ma soprattutto in molte carte ecclesiastiche e nella diffusione, tra Quattro e Cinquecento, della narrazione malaterriana presso tutti gli ambienti dell'isola. A qualche decennio dalla sua composizione, il De rebus gestis si diffuse per i monasteri benedettini, dove il libellus si presentò come l'unica narrazione del lungo travaglio dei liberatori per la redenzione dell'isola dagli infedeli. Poiché, come sostiene Ernesto Pontieri, “redenzione parve la distruzione del dominio musulmano nella Sicilia, avvenuta perdippiù nel secolo delle Crociate”79. E forse più per evocare il ricordo di quella redenzione che per renderla meglio accessibile al vulgus, frate Simone da Lentini nel Trecento tradusse in volgare siciliano i passi dell'opera relativi alla Conquesta de Sicilia, giacché lo scritto del Malaterra gli parve “in gramatica scrabulosa et grossa et mali si poti intendere”80. Sebbene la valenza storiografica di questa sintesi vernacolare sia assai limitata, come anche quella della traduzione in latino che di essa volle fare Francesco Maurolico nel 153781, entrambi i lavori sono chiare spie di come, a distanza di secoli, i fatti narrati da Malaterra destassero vivo interesse ed evocassero forme e concetti mai sopiti. Ed è chiaro che il compimento della conquista, romanzata e propagandata attraverso immagini di sfavillanti vittorie ad ogni cozzo d'armi contro i musulmani, sia apparso “di poema degnissimo e di storia” a chi, come Michele Catalano, nella cronaca scorge “un embrione epico-leggendario-religioso, che in altre circostanze storiche avrebbe dato origine ad una vera e propria epopea normanno-sicula”82. Tanto più efficace risultò il messaggio di Malaterra, in quanto le imprese prodigiose dei Normanni riecheggiavano in ambiente pontificio e avevano suscitato stupore in Amato di Montecassino e Guglielmo di Puglia, senza contare che spunti di ammirazione per l'eroismo da loro mostrato nelle terre del Valdemone durante le prime fasi della conquista echeggiavano persino nell'Alexiade di Anna Comnena ed in alcune fonti arabe83. In tutti gli ambienti della contea era diffuso il mito del divino patrocinio goduto dai Normanni, e Goffredo supera le frequenti iperboli della sua narrazione lasciandosi sedurre dalla convinzione che solo l'intervento del sovrannaturale contro gli infedeli avesse determinato eventi miracolosi (come lo scampato naufragio del Granconte nelle acque dello Stretto), e successi bellici come quello di Cerami, risaltato con toni epici che risuonano, qui più che altrove, come vera e propria propaganda antimusulmana della conquista normanna del Valdemone84. La giornata campale di Cerami, accanto a quelle di Misilmeri e Castrogiovanni, rappresenta uno dei momenti cruciali della conquista normanna del Valdemone. Cerami è celebrata come una nuova Poitiers e l'immagine del Granconte si accosta idealmente a quella di Carlo Martello, ma il potere evocativo della sua celebrazione non si limita a questo implicito riferimento. Il cronista introduce il lettore alla battaglia esaltando l'esuberanza numerica degli infideles (più di tremila), riferisce l'appello del Granconte al sostegno divino nell'atto di incitare l'esiguo drappello dei suoi milites (appena trentasei), si richiama alla figura biblica di Gedeone e, infine, descrive l'apparizione in campo di San Giorgio che, “splendidus in armis et equo albo insidens”85, irrompe tra le schiere nemiche tenendo alto il vessillo dell'Altavilla insieme alla Croce di Cristo ed evoca così l'immagine, ricorrente nelle cronache della prima Crociata, del Santo cavaliere che trafigge il drago86. L'eco di questa vittoria fu vasta e non è un caso che, in seguito a essa, Alessandro II concedesse “l’indulgenza plenaria a tutti coloro che avevano lì combattuto o avessero in avvenire preso le armi contro gli infedeli di Sicilia”87. D'altra parte, la cultura di Malaterra è di esclusiva formazione ecclesiastica, sicché parecchie rappresentazioni cariche di drammaticità ed espressioni ricorrenti (come fortiter agendo, plures sternit, reliquos fugat, victor efficitur), che egli adopera per esaltare l'immagine di Ruggero, ripropongono aforismi e passi del Vecchio e del Nuovo Testamento ed evocano piuttosto le imprese dei paladini di Francia, senza quindi rifarsi, se non in modo estremamente vago ed occasionale, a mitiche figure di condottieri dell'antichità. In questo senso appare emblematica la trasposizione in chiave provvidenziale, nell'opera malaterriana, dei modelli etici del ciclo Carolingio e di quello Bretone, attinta dalla successiva tradizione letteraria aulica e popolare, a cominciare dalla cronaca di Simone da Lentini sino alla diffusione dell'Opera dei Pupi88. Da parte loro, i contenuti encomiastici di molti atti ecclesiastici dell'isola e le vigorose autocelebrazioni che il Granconte profondeva e per loro tramite diffondeva nei diplomi di donazione e conferme a favore di chiese e monasteri, dimostrano con chiarezza come la politica delle corti normanne poggiasse sull'attività culturale di propaganda affidata a episcopi e abbazie, nel momento in cui l'arretratezza sociale ed economica dell'isola non avrebbe consentito alcuna possibilità di partecipazione all'elaborazione della nuova cultura. Tuttavia, non possiamo ignorare il fatto che molte carte ecclesiastiche offrono testimonianza eccezionale dei nuovi esiti linguistici, frutto del passaggio dal mediolatino al volgare siciliano e del tentativo di definire una nuova cultura diffusa controllata dalla monarchia89. Solo nel pieno Ottocento l'immagine dei Musulmani è riscattata dall'opera di Michele Amari, che nella conquista normanna dell'isola legge la fine della sua indipendenza e di un'era storica realmente siciliana, caratterizzata da una concreta rinascita spirituale e materiale, ed offre spunto per una contropropaganda ben documentata e costruita su basi scientifiche. Alla diffusione di un'immagine negativa di questi mercenari venuti dal Nord per sopprimere l'indipendenza siciliana, lo storico siciliano giunge attraverso una sistematica demolizione della narrazione malaterriana, cogliendo pertanto il mero intento propagandistico trasfuso dal committente al cronista, che nel tono encomiastico delle sue parole, nelle spudorate esagerazioni e nei distorti florilegi a beneficio dello pseudo crociato di Sicilia, sarebbe stato il ligio portavoce degli Altavilla e l'esecutore della loro espansione ideologica. La narrazione diventa iperbolica quando si tratta di definire entità e proporzioni numeriche degli opposti schieramenti, tanto che Amari ironizza sostenendo che “convien dividere per sei la cifra dell’esercito nemico e moltiplicare per sei quelle del normanno”90. Le fugaci menzioni alle disfatte normanne, quindi, appaiono inserite in modo strumentale all'interno della narrazione, per esaltare l'impegnativo compito assunto da Ruggero e la sua strenuitas, come nel brano che riporta il blocco del Granconte nel territorio del Faro ad opera di una possente flotta islamica che controllava le acque dello Stretto91, la respinta subita ad opera dei musulmani di Centorbi92, la sconfitta inferta dall'arabo Benarvet presso Catania93, l'uccisione vicino Castrogiovanni di Serlone, nipote del Granconte e del Guiscardo94. Al di là delle altre fonti cronistiche e letterarie verosimilmente utilizzate da Malaterra e oltre agli spunti probabilmente colti nei resoconti di testimoni oculari, il cronista di Ruggero I si ispirò senz'altro ai contenuti encomiastici di molti atti ecclesiastici del Valdemone, come pure alle vigorose autocelebrazioni che il Granconte profondeva nei diplomi di donazione e conferme a favore di chiese e monasteri. L'accordo di Melfi del 1059, con cui Niccolò II aveva investito gli Altavilla del Mezzogiorno, non contiene messaggi propriamente anti-islamici, perché teso piuttosto a stabilire i termini dell'investitura in senso più ampio95. Tuttavia, nel diploma con cui Urbano II, nel giugno del 1091, confermava la nomina di Ambrogio ad abate di Lipari, si coglie innanzi tutto l'atteggiamento di aperta condanna da parte della curia romana di fronte all'oppressione subita dai cristiani del Valdemone negli anni dell'emirato96, sebbene l'accento sia posto soprattutto sulla “divinae misericordiae potentia”, che avrebbe guidato dall'alto l'impresa di Ruggero97. Già nel 1088 Ruggero, nel confermare una donazione a beneficio della Chiesa liparese, si intitolava “Rogerius Comes Calabriae et Siciliae Adjutorium Christianorum”98 ed in ambiente feudale, nel 1095, veniva definito “in Sicilia victoriosissimus”99. Ma richiami più espliciti alla grandiosa impresa divina, carichi di vigore evocativo alla stregua di un vero e proprio pamphlet di propaganda, è possibile cogliere nell'atto di donazione che il Granconte emanò nel 1094 a beneficio del monastero pattese di San Salvatore100. Ruggero, infatti, compone un'autentica apologia del proprio sacrificio di fronte ad un nemico sanguinario, dove dice di aver “meo sanguine fuso adquisita tota Sicilia” e di essere riuscito, “armis divinae potentiae munitus et brachio victoriosae fortitudinis roboratus”, ad aver ragione della “sarracenorum termositas”. Il Granconte conclude il diploma esaltando ancora il carattere divino dell'impresa e gli effetti provvidenziali della sua azione, che gli aveva consentito di pacificare definitivamente l'isola e di ridare dignità e libertà alle chiese, distrutte “ab impietate nefanda sarracenorum”. Eppure, la duplice abbazia di Lipari-Patti non si caratterizzò come centro di propaganda né pare abbia fatto ricorso a sistemi di proselitismo coercitivi per ottenere la conversione della popolazione di confessione o fede diversa. In questo senso, è esemplare che proprio a Lipari, nel luglio 1117, tra i monaci di San Bartolomeo sia documentata addirittura la presenza di un apostata islamico, Фιλιπποç µοναzοç ο αpαβο101, circostanza che segnala un atteggiamento di apertura della Chiesa locale nei confronti della minoranza musulmana. Il che induce a ritenere come non sempre la propaganda neghi la contrapposizione del testo all'azione politica, come appunto dimostrerebbe l'ambiguità dei rapporti nel Valdemone tra musulmani e cristiani, da una parte collocati in posizione antitetica in una sorta di schema ideale della cultura diffusa, d'altra parte inseriti in un comune meccanismo sociale ed economico che, prevedendo la presenza di funzionari “sarraceni de majores nati” anche nei gangli amministrativi della contea, annullava radicali dicotomie102. I messaggi anti-islamici contenuti nelle carte monastiche del Valdemone, quindi, sembrerebbero effetto di un allineamento squisitamente politico della Chiesa locale alle posizioni assunte dagli Altavilla in merito alla questione demica. Questa tesi trova conferma a partire dagli anni Sessanta del XII secolo, quando, in seguito alla congiura esplosa a corte nel marzo 1161, la rivolta feudale si tinse di rabbia xenofoba e le nuove tensioni etniche alimentarono una nuova ondata di propaganda antimusulmana103. Densa di significati, in tal senso, appare una donazione a beneficio del vescovo di Patti Pietro, disposta nel 1171 dal barone di Petrano e familiare regio Anfuso de Lucci, la cui struttura compositiva si rifà al modello delle prime concessioni del Granconte e ne amplifica l'eco della propaganda ideologica, proprio nel momento in cui il diffuso clima di intolleranza etnica cresceva104. Il feudatario, infatti, torna a parlare con anacronismo della “insuperabile forza” del Granconte, del suo “potentissimo braccio vittorioso”, del sangue da lui versato per liberare l'isola “a sevissima Sarracenorum tyrannide”, dell'impegno profuso nella ricostruzione delle chiese “a nefanda barbarie dirute”. Una visione, questa, trasmessa in modo strumentale e senza aderenza ad attuali condizioni di fatto, ma segno evidente che la propaganda antimusulmana costruita negli anni del Granconte era stata efficace, se a distanza di quasi un secolo i suoi messaggi, recepiti sia in ambiente monastico che feudale, venivano riproposti fedelmente, immutati persino nelle formule linguistiche. Ma tornando al tema del presente contributo, possiamo in conclusione rilevare come il sostrato religioso cristiano, emerso in seguito alle politiche di normalizzazione demica attuate dagli Altavilla con il ricorso a vecchie e nuove strutture benedettine e basiliane, impregnasse profondamente, nella lunga durata, la vicenda culturale del Mezzogiorno d'Italia. Peculiare è in tal senso il fatto che gli orientamenti politici dell'isola fossero condizionati dall'elaborazione culturale greca sino agli anni della contea, mentre a partire dal 1131, con la fondazione della monarchia siciliana ed una maggiore apertura verso l'immissione di gruppi etnici provenienti dall'Italia settentrionale e d'Oltralpe, anche la società e la conformazione culturale dei ceti dominanti avrebbe registrato una forte spinta verso la latinizzazione e la cristianizzazione in senso cattolico della Chiesa siciliana. Questa dinamica si sarebbe accelerata in modo eclatante negli anni della dominazione Sveva (1196-1266), quando la Chiesa latina avrebbe esercitato un vero e proprio monopolio culturale rispetto alle altre professioni di fede105. Tuttavia, i contrasti tra la nuova monarchia e la curia pontificia, che si alimentarono negli anni di Federico II e culminarono nei reiterati interdetti a carico dello Stupor Mundi e del suo Regnum, sebbene segnassero una profonda crisi religiosa, esclusero ogni forma d'ingerenza della Chiesa di Roma nelle sedi metropolitiche ed episcopali del regno di Sicilia, saldamente controllate dalla Cancelleria regia e da altre forze politiche territoriali. Il che ci induce a ritenere che, deposta ogni aspettativa di rintracciare nelle scelte politiche l'emanazione di indirizzi culturali di provenienza ecclesiastica, l'elaborazione stessa e la diffusione di schemi culturali monastici, come pure l'amministrazione delle vaste e popolose terre diocesane, fosse piuttosto emanazione quasi esclusiva della Curia regia ed efficace strumento del suo controllo politico, condotto anche attraverso nuove realtà ecclesiastiche. Convincenti ed opportuni, in questo senso, appaiono gli studi dedicati da Enrico Pispisa all'età sveva106 e, nel caso specifico, il recente saggio con cui Elisa Costa delinea la parabola dell'ordine templare nell'isola tra il 1145 ed il 1318107. Ma restano ancora aperti altri percorsi di ricerca, come quello che ci porta dentro le vicende dei vescovati siciliani durante le convulse fasi del dominio angioino, quando nel Regnum, nello scenario del confronto tra filo-guelfi e filo-ghibellini, si sarebbero prodotte spaccature complesse ed estremamente fluide108. L'esempio della cronistica ufficiale della dinastia normanna, mediata dagli ambienti monastici dietro forte impulso degli indirizzi politici imposti dagli Altavilla, ci fa percepire come, in definitiva, appaia difficile stabilire se sia stata in più ampia misura clericizzata l'azione politica o fosse piuttosto la missione della Chiesa ad essere politicizzata. Percorrendo alcune tappe indicative di tali dinamiche, tuttavia, è possibile sintetizzare il complesso scenario entro cui, nel corso del XII secolo, si realizzarono trasformazioni culturali e sperimentazioni politiche destinate a condizionare e caratterizzare nel lungo termine la composizione sociale dell'isola. La Chiesa regolare, con i tratti propri della signoria rurale di banno, cioè di un istituto consolidato e diffuso nelle terre di provenienza dei dominatori transalpini109, era stata strumento affidabile dell'azione di latinizzazione condotta dagli Altavilla, come mostra il consistente ricambio demico che si registrò in molte terre d'immigrazione aleramica e lombarda controllate dai Benedettini come dagli Agostiniani. Ma al tempo stesso i vescovati avevano esercitato in modo indiretto una funzione di controllo etnico e in un certo senso di tutela delle minoranze, preservandone la stessa identità culturale (che si continuò a esprimere nei costumi, nella vita quotidiana, nelle strutture sociali e nei quadri mentali), in quei casi in cui la presenza musulmana o quella greca era apparsa necessaria e opportuna sotto il profilo politico ed economico, perché comprese entro un più vasto disegno amministrativo. Nei primi decenni della dominazione normanna, in sostanza, la gens latina, colmando i vuoti -meno evidenti nel Valdemone- lasciati dai piccoli proprietari arabi che si erano ritirati in Ifriqiya o avevano scelto di cambiare repentinamente status, aveva dato vita insieme all'etnia greca ad una struttura integrata basata sulla convivenza di due culture che, al di là delle divergenze confessionali, si ritrovarono comunque unite nella Croce di Cristo ed in più concrete reciproche convenienze. Ma sul finire del XII secolo, quando il potere degli Altavilla era al tramonto, la crescente immigrazione ultramontana e lombarda ed il progressivo radicamento nelle terre di San Bartolomeo come in quelle della diocesi di Cefalù di famiglie legate etnicamente e culturalmente ai ceti dominanti finirono per imprimere all'isola una fisionomia diversa e per orientare le scelte di governo verso il rafforzamento della posizione latina ed il ridimensionamento del ruolo politico greco. Negli ultimi anni del dominio normanno, fatalmente, si sarebbe compiuto il tramonto della presenza greca anche nel Valdemone, l'ultimo lembo dell'isola in cui ancora si esprimeva in modo non trascurabile, profondamente scosso dall'esplosione xenofoba registrata nel centro peloritano al passaggio del Barbarossa, di Riccardo Cuordileone e Filippo II Augusto diretti nel 1190 in Terrasanta per la terza crociata110. Un declino destinato ad accentuarsi, dopo pochi anni, con l'arrivo in Sicilia di Enrico VI di Svevia, drammaticamente esemplato nella Epistola ad Petrum Panormitane Ecclesie Thesaurarium de calamitate Sicilie, con cui lo pseudo Ugo Falcando condanna il furor theutonicus e denuncia accoratamente il progressivo offuscarsi della coscienza del regno e la perdita del suo prezioso equilibrio multiculturale.Pubblicazioni consigliate
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