La tradizione filosofica occidentale che ci riporta almeno a duemilacinquecento anni fa, e che ha fortemente condizionato il nostro modo di sentire, di percepire e anche di pensare la realtà, ha collocato il fulcro della nostra razionalità nella vista e nell’udito, i sensi ‘cognitivi’, a scapito del tatto e specialmente del gusto e dell’olfatto, relegati al rango di sensi ‘minori’ per il loro carattere carnale, emozionale, soggettivo e scarsamente condivisibile attraverso il conguaggio. Sebbene in questo panorama non siano mancati i paladini della conoscenza sensibile, la speculazione filosofica ha mantenuto un prevalente atteggiamento di ‘cecità cognitiva’ nei confronti di questa forma di conoscenza e in particolare nei confronti dei sensi più compromessi con l’esperienza corporea, con il desiderio e con i bisogni primari legati alla sopravvivenza, sottovalutandone il ruolo nella conoscenza del mondo circostante. Nonostante questa svalutazione filosofica, la capacità – immanente al gusto – di giudicare gli alimenti e di apprezzarli si riflette nel linguaggio comune in virtù dell’analogia tra il sapere e il sapore, semanticamente imparentati al latino sapio nel senso di percepire con giustezza, conoscere. E l’olfatto, poi, se da una parte è intimamente legato all’intelligenza del corpo, agli appetiti, alla sessualità, dall’altra parte, nell’immaginario sociale e in molte espressioni colloquiali dettate dal senso comune, ha un nesso privilegiato con la conoscenza, è sinonimo di buon senso, di acume intellettuale. Questo saggio vuole esser pertanto una rapida investigazione sulle concezioni del gusto nella storia della filosofia occidentale, attraverso gli esempi più significativi, per mostrare la scarsa importanza attribuita a questa componente fondamentale della nostra cognizione sensoriale, non senza citare qualche eccezione.

Il palato dei filosofi. Breve storia di un senso misconosciuto

CAVALIERI, Rosalia
2011-01-01

Abstract

La tradizione filosofica occidentale che ci riporta almeno a duemilacinquecento anni fa, e che ha fortemente condizionato il nostro modo di sentire, di percepire e anche di pensare la realtà, ha collocato il fulcro della nostra razionalità nella vista e nell’udito, i sensi ‘cognitivi’, a scapito del tatto e specialmente del gusto e dell’olfatto, relegati al rango di sensi ‘minori’ per il loro carattere carnale, emozionale, soggettivo e scarsamente condivisibile attraverso il conguaggio. Sebbene in questo panorama non siano mancati i paladini della conoscenza sensibile, la speculazione filosofica ha mantenuto un prevalente atteggiamento di ‘cecità cognitiva’ nei confronti di questa forma di conoscenza e in particolare nei confronti dei sensi più compromessi con l’esperienza corporea, con il desiderio e con i bisogni primari legati alla sopravvivenza, sottovalutandone il ruolo nella conoscenza del mondo circostante. Nonostante questa svalutazione filosofica, la capacità – immanente al gusto – di giudicare gli alimenti e di apprezzarli si riflette nel linguaggio comune in virtù dell’analogia tra il sapere e il sapore, semanticamente imparentati al latino sapio nel senso di percepire con giustezza, conoscere. E l’olfatto, poi, se da una parte è intimamente legato all’intelligenza del corpo, agli appetiti, alla sessualità, dall’altra parte, nell’immaginario sociale e in molte espressioni colloquiali dettate dal senso comune, ha un nesso privilegiato con la conoscenza, è sinonimo di buon senso, di acume intellettuale. Questo saggio vuole esser pertanto una rapida investigazione sulle concezioni del gusto nella storia della filosofia occidentale, attraverso gli esempi più significativi, per mostrare la scarsa importanza attribuita a questa componente fondamentale della nostra cognizione sensoriale, non senza citare qualche eccezione.
2011
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